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Mia madre aveva un unico problema. Quel problema ero io. Incarnavo tutto quello che a lei non piaceva e che trovava disdicevole in una ragazza. Un maglione colorato e un paio di jeans. Non quelle belle pellicce da signorina e scarpe con il tacco come voleva lei. Mi sono sempre chiesta come fanno le donne a vestirsi eleganti in pieno inverno. Le calze così fini e quei cappotti, che appena metti un maglione un po’ più spesso, neanche si chiudono. Mia madre si vestita esattamente così. A Torino d’inverno fa molto freddo. Il mio giubbotto enorme non piaceva a mia madre. Diceva che sembravo una tossica degli anni Ottanta e che se non mi fossi data una regolata la mia vita sarebbe stata un vero disastro. Perché, anche se sembra non contare niente, l’apparenza è tutto. L’estetica ci salva la vita e ci fa arrivare lontano. Mia madre lavorava come commessa in un negozio e si faceva mantenere da mio padre che appena aveva potuto si era trasferito a Bologna con Marianna, una donna normale che non giudicava le persone per come si vestivano. Non mi era dispiaciuto che papà avesse cambiato città. Lo avrei fatto anche io se Torino non mi fosse piaciuta così tanto. Quel vento freddo che veniva dalle montagne mi faceva stare bene. Mi faceva muovere tutti i capelli e mi dava la sensazione di averne tantissimi. Anche se ne ho sempre avuti pochi e sottili e forse tra tutte le cose che mia madre odiava [...]
Tutta la faccenda, fondamentale per il suo passaggio dal grado D al grado C di Unico Incaricato dall’Impero per gestire la questione della dispersione in mare dei tappi di bottiglia avvenuta prima che la Grande Rivoluzione Ambientalista culminasse nell’unione inscindibile di tappi e bottiglie, portò il Dr. Fraccipaglia, laureato in economia con una tesi sul Jobs Act, a stare in mare aperto su un peschereccio, partendo tutte le mattine da Porto Bizantino. Prima un freddo gelido, in inverno, poi una puzza asfissiante di pesci, avevano fatto sì che il Dr. Fraccipaglia fosse finito nella peggiore esperienza della sua vita lavorativa. Su quella privata ci sarebbe molto altro da dire, ma la questione dei dati sensibili è di esclusiva proprietà dei grandi colossi che i dati li utilizzano a esclusivo scopo manipolatorio ed estrattivo. Fatto sta che la storia dei tappi e delle bottiglie non è il vero centro della questione e del lavoro che il dottore ha svolto in mare [...]
Jacob era in piedi sulle mie spalle. Il collo era stretto da un cappio; la corda tesa passava per un anello piantato nella chiave dell’arco, mentre l’altra estremità l’avevano annodata ad un carro malmesso. La banda di Fitzpatrick puniva così i chiacchieroni e i vigliacchi. L’arco di vecchi mattoni era l‘ingresso dell’hacienda, ormai ridotta ad un cumulo di pietre, simili allo scheletro di un coyote. La banda era sparita, qualche ora prima, in una nuvola di polvere e zoccoli. Ero finito ai piedi dell’arco perché non me l’ero sentita di sparargli in mezzo alle gambe. «Hai mai sentito il modo di dire casa de piedra?» chiesi. «Mai sentita, Pulcino. Che vuol dire?» rispose Jacob. Il vento rovente spingeva la voce verso est e faceva rotolare il mio cappello nella polvere. «Lo diciamo quando ci si sposa, è un portafortuna» «Che modo da frocetti avete per parlarvi, Pulcino. E a te l’hanno mai detto?» «Ancora no, Viejo» «Avanti, non fare il [...]
Jacob era in piedi sulle mie spalle. Il collo era stretto da un cappio; la corda tesa passava per un anello piantato nella chiave dell’arco, mentre l’altra estremità l’avevano annodata ad un carro malmesso. La banda di Fitzpatrick puniva così i chiacchieroni e i vigliacchi. L’arco di vecchi mattoni era l‘ingresso dell’hacienda, ormai ridotta ad un cumulo di pietre, simili allo scheletro di un coyote. La banda era sparita, qualche ora prima, in una nuvola di polvere e zoccoli. Ero finito ai piedi dell’arco perché non me l’ero sentita di sparargli in mezzo alle gambe. «Hai mai sentito il modo di dire casa de piedra?» chiesi. «Mai sentita, Pulcino. Che vuol dire?» rispose Jacob. Il vento rovente spingeva la voce verso est e faceva rotolare il mio cappello nella polvere. «Lo diciamo quando ci si sposa, è un portafortuna» «Che modo da frocetti avete per parlarvi, Pulcino. E a te l’hanno mai detto?» «Ancora no, Viejo» «Avanti, non fare il [...]

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a cura di Sara Catalano

in collaborazione con CASSIUS&Co.

a cura di Guido Beduschi

Su Gálab come esperienza di arcipelago letterario.

Un famoso editor di narrativa disse che esistono due tipi di scriventi: quelli che compongono opere in cui riflettersi (i libri specchio), e quelli che disegnano trame in cui smarrirsi (i libri mappa). Parlare di Gàlab, a qualche mese dalla conclusione della sua seconda edizione, significa fare i conti con questa ipotetica distinzione, e con la possibilità di conciliare i due aspetti. Ma soprattutto di fare i conti con la distinzione più severa di tutte: quella che separa – suo malgrado – chi scrive dal resto del mondo.

Da qui la strada la decidi tu. Scrivi o leggi di specchi, riflessi, frammenti e aloni difficili da smacchiare? Vai al paragrafo (1). Componi scritti con numeri civici, tempi di percorrenza, passaggi a livello e ritardi? Vai al paragrafo (2). Trovi insensata e pretenziosa questa domanda, dubiti del manicheismo e del pensiero binario, scrivi qualcosa che non sai cos’è? Chiudi questo link, oppure dirigiti al paragrafo (3).

(1) Scrivi e al contempo sei presente su una dating app; potrà capitarti di matchare qualcuno che ha letto, nella tua bio, che sogni di scrivere un romanzo strambo. Strambo quanto? Ti chiede il match. Strambo tanto: in pratica entri un bar, ci sono tutti questi scrittori famosi, e uno di loro è una drag queen con la fissa per Eva Brown che di giorno piange davanti alla foto della madre morta: una ex-staffetta partigiana sull’Appennino Ligure. Ne hai mai parlato con qualcuno? ti domanda il match dall’altra parte dell’app. Se hai parlato con qualcuno letterariamente del tuo progetto di romanzo, probabilmente sei stato a Gàlab: vai al paragrafo (4). Se il tuo romanzo è ancora nel cassetto – o peggio, solo nella tua testa – salta al paragrafo (3).

(2) È notte ma non hai sonno, è ancora presto per dormire. Entri in un bar. Al bancone c’è una signora cinese; nell’unico tavolo occupato ci sono Amélie Nothomb, John Cheever, Giuseppe Pontiggia, Amelia Rosselli e Boris Vian. John ti fa segno di avvicinarti, con la mano ti allunga la sedia di fianco a Pontiggia (che suda copiosamente). Ordini la solita cedrata. Pontiggia approfitta della tua comanda per chiedere alla signora cinese di quei fantastici bignè con i lamponi e la chantilly. Tu avvicini la bocca ai capelli di Amèlie e sottovoce le domandi cosa ci fanno tutti lì. Lei con un accento tiepido sussurra qualcosa che non capisci. A quel punto Rosselli si alza, ti passa di fianco, appoggia una mano gelida sulla tua spalla e ti domanda: come si chiamano dieci scrittori attorno a un tavolo? Se vuoi ancora qualche indizio, aspetta e vai al paragrafo (3). Se vuoi subito la risposta – o magari la conosci già – vola al paragrafo (5).

(3) Chi ti fa una domanda del genere presuppone che tu abbia un trauma, o che non esci di casa da molto tempo. Con chi dovresti parlarne per ottenere una risposta? Soprattutto, da quando la scrittura è una questione di confronto? Di alterità? Peggio ancora: di comunità? I libri sono il frutto del genio, e il genio è una pianta individuale. Se la pensi così, questa è la strada per il punto (5). Se invece sei una persona insicura, vanitosa, aerea, sola e annoiata, se pensi che la tua penna, a volte, abbia avuto bisogno di una compagna o una nemica, se pensi che dieci scrittori seduti attorno a un tavolo possano ancora fare qualcosa – e meritare un nome – vai al punto (4).

(4) Scendi in uno scantinato pieno di gente seduta attorno a un tavolo. I presenti hanno letto un tuo racconto, lo hanno trovato ok; vale come biglietto e pagamento. Questa cosa che stai facendo si chiama Gàlab. Sono tutti giovani e tendenzialmente carini. Per combattere un po’ di timidezza ti presenti con una birra in mano (un’altra te la sei bevuta da solo, prima, guardandoli entrare di nascosto). Fai così ogni settimana. Di mercoledì in mercoledì i volti sono gli stessi, ma c’è una editor nuova che edita qua, un critico letterario che critica là; tutti ti ascoltano. Dibattete su avverbi, calchi, ipotassi sconclusionate, ma soprattutto parlate di pezzi di carne incastrati fra i denti, di nonni morti con la settimana enigmistica in mano, di uomini conquistati con i Pokémon, di asini albini, di magliette El Charro, di bambine miracolose. Torni a casa, ti rimetti a scrivere. Quasi subito ti blocchi. Hai due possibilità: insisti nella solitudine, scrivi per conto tuo, sbatti la testa sullo spigolo della scrivania: vai al punto (5). Oppure controlli la chat, invii un messaggio al gruppo di Galàb, il prossimo mercoledì le birre le porti tu. Ti ritrovi al punto (6).

(5) La verità è questa: gli scrittori non si chiamano. Una volta alzati dal tavolo si dirigono fuori dal locale. Probabilmente a quel tavolo non si sono mai incontrati: hai immaginato tutto. Si dimenticano subito di te, tornano nelle loro case, e si convincono di essere gli ultimi esseri viventi sul pianeta. Mai che alzino la cornetta per chiederti come stai. Neanche loro sanno come stanno. Ed è un gran peccato.

Ora puoi cercare un paragrafo tirandolo a sorte, vedere se un colpo di dadi abolirà mai il caso: il caso di essere soli. Puoi tornare al punto che desideri. Se invece questa opzione ti deprime, è il caso ad assisterti: tiri il dado, esce il punto (6).

(6) Chiacchieri un po’ con gli altri. Ci sono chiari esempi di autori o autrici specchio: cercano il migliore espediente di auto-finzione, tendono trappole biografiche, assaporano vita e scritto insieme. Se li guardi in faccia li riconosci quasi subito: la faccia è la tua. Non sono poi così diversi dalle autrici o autori mappa: per scovarli, devi capire dove nascondono corna e tentacoli. Insieme formano una geografia di isole solitarie sparse su acque in cui riflettersi. Un arcipelago di mappe e specchi.

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