Il problema dell’empatia

Edith Stein tra filosofia, spiritualità e Olocausto

Origini

Sull’empatia, sentimento che, prima di tutto, permette agli esseri umani di comunicare, si è scritto molto: filosofi, psicologi, sociologi l’hanno definita come la capacità di identificarsi nell’altro diverso da sé stesso. Per poterne parlare, infatti, dobbiamo partire da due assunti di base: ci sono dei soggetti estranei e c’è la l’esperienza vissuta. In psicologia, l’empatia ha dei cugini concettuali importanti: mentalizzazione, la capacità di pensare sé stessi e gli altri in termini di stati mentali, funzione riflessiva, teoria della mente, metacognizione.

A pensarci bene, il concetto apre le porte anche a riflessioni circa l’autenticità e la fiducia che abbiamo in noi stessi e negli altri, o addirittura alla lotta che ciascuno di noi combatte, fin dalla nascita, per costruire sé stesso e confrontarsi con gli altri e col mondo (Bodei, Vincere contro se stessi, Paginette Festivalfilosofia 2016). Si parla infatti anche di empatia psicoanalitica (Bolognini, Bollati Boringhieri 2002). Ma l’empatia può essere un problema? Non ci avevo mai pensato in questi termini perché ho sempre conosciuto solo il suo carattere edificante. L’empatia poi non è compassione, simpatia, comprensione verso gli altri?

Nel suo Sentire l’altro,la filosofa Laura Boella è la prima a esplorare nuovi significati del termine, poiché tratta l’empatia come la scoperta dell’esistenza dell’altro; ma solo la poco conosciuta Edith Stein è capace di andare oltre questo concetto. Nata a Breslavia nel 1891, il 7 agosto 1942 viene deportata assieme alla sorella nel lager di Auschwitz e uccisa il 9 agosto successivo – secondo quanto riporta la «Gazzetta olandese» del 16 febbraio 1950 – in una camera a gas; i corpi di entrambe vengono buttati in una fossa comune. Allieva di Husserl, ne aveva seguito per quattro semestri i corsi di fenomenologia presso l’Università di Gottinga ed era entrata a far parte del suo «Circolo Fenomenologico». «Ho studiato nell’Università di Breslavia – scrive – dalla Pasqua 1911 alla Pasqua 1913 e successivamente, per un periodo di quattro semestri, ho studiato filosofia, psicologia, storia e germanistica nell’Università di Gottinga. Nel gennaio 1915 ho sostenuto a Gottinga gli esami di stato “pro facultate docendi” [esami di abilitazione all’insegnamento nelle Scuole medie superiori] in propedeutica filosofica, storia e tedesco. Al termine di questo semestre ho interrotto i miei studi e, per un certo periodo di tempo, ho prestato servizio attivo nella Croce Rossa. Dal febbraio all’ottobre 1916 ho sostituito a Breslavia un professore ammalato, presso l’Istituto suddetto. Poi mi sono trasferita a Friburgo i. Br. per lavorare come assistente del Signor Professor Husserl». Edith Stein, sentito spesso il termine “empatia” in tedesco (Einfulhlung) da Husserl, ne fa oggetto della sua tesi di laurea, conseguita il 3 agosto 1916. Tuttavia, nonostante il termine oggi sia molto usato, e alla base anche di tante trattazioni che seguono spesso gli psicologi (almeno quelli di stampo più esistenzialista), si fa spesso riferimento al II libro delle Idee (il libro delle Ideen) o alla V Meditazione di Husserl e mai a lei. Per fortuna, Elio e Erika Schulze Costantini hanno tradotto e curato la prima versione italiana da cui sono tratte molte delle informazioni che state leggendo: il libro si intitola appunto Il problema dell’empatia, edito dalle Edizioni Studium di Roma. Per dovere di cronaca, i due curatori sottolineano quanto Edith Stein abbia redatto la tesi di laurea ad appena 23 anni, con entusiasmo, lavorando giorno e notte tra innumerevoli difficoltà perché era in corso la Prima guerra mondiale, per cui le Università andavano deserte, e perché studiava e prendeva appunti in luoghi sempre diversi, ma consapevole di poter dare il proprio contributo a una materia che molto amava. Superò tutte le difficoltà che anche Husserl, in quanto studioso esigente, richiedeva agli allievi; e nel giro di due anni completò il suo lavoro.

E fu solo l’inizio di una vita, seppur breve, spinta da una sete di verità e una ricerca permanente. Ricerca come impegno, tanto da spingerla un giorno anche a tradurre in due grossi volumi le Questioni disputate sulla verità di Tommaso d’Aquino. Il suo cognome tedesco – Stein – vuol dire «pietra», e lei si mostra salda, dura con sé stessa, senza mai cessare di affinare il suo essere e la sua riflessione per arrivare a dire, come prima fondamentale risposta al senso dell’esistere: «Siamo al mondo per servire l’umanità» (E. Stein, Opere complete, vol. I: Dalla vita di una famiglia ebrea e altri scritti autobiografici, Città Nuova –Edizioni OCD, Roma 2007). Della eccezionalità della sua personalità si è accorto Papa Giovanni Paolo II quando nel 1987 l’ha dichiarata Beata e nel 1998 Santa. Un anno dopo, il 1° ottobre 1999, lo stesso papa la dichiara patrona d’Europa. E ogni due anni viene assegnato il Premio Edith Stein da parte del Curatorio del circolo di Edit Stein di Gottinga (Bassa Sassonia) a tutti coloro (istituzioni, associazioni o singoli individui) che si distinguono per grossi meriti in campo politico, sociale e civile, a ricordo delle imprese compiute da questa eccellente e originale filosofa.  

La grande domanda

Si è empatici fin dalla nasciti? È innato essere sensibili, propensi alla relazione, mettersi in ascolto degli altri, o ci si deve allenare? È una competenza che si può insegnare? La domanda sorge spontanea perché, se da un lato il lavoro dello psicologo la richiede – si può dire – per protocollo, dall’altro lato, il mondo attuale mostra sempre più individui egocentrati, o autocentrati che dir si voglia, interessate, cioè, più a parlare di sé che ad ascoltare chi hanno di fronte. Qual è, quindi, il profilo di una persona empatica e quali modificazioni di sé vengono alla luce quando ci si rivolge a un altro?

Torniamo a Edith Stein poiché dice che l’empatia è l’atto che ci restituisce l’esistenza degli altri: è questo il punto d’inizio dal quale Stein costruisce il problema dell’empatia. Per lei rappresenta la risorsa capace di rilanciare le potenzialità dell’esistenza umana. La chiave di volta del suo pensiero è il rendersi conto, che intende comel’osservare, il primo percepire: il miracolo e il paradosso dell’empatia secondo Stein è che non si prova la stessa gioia dell’altro immedesimandomi, ma, prima di tutto, la si accoglie, la si osserva. L’empatia rende viva la vita dell’altro, la tocca. Nell’atto empatico mi accorgo, mi “rendo conto dell’altro diverso da me”; ha quindi anche molto a che fare con il nostro essere corpo perché il corpo dell’altro ci attiva. «Prendiamo un esempio- scrive- per chiarire l’essenza dell’atto di empatia. Un amico viene da me e mi racconta che ha perduto suo fratello e io mi rendo conto (geware) del suo dolore. Che cosa è questo «rendersi conto»? Non mi interessa qui capire su che cosa si fonda il suo dolore o da che cosa io lo deduco. Forse il suo volto – continua – è sconvolto e pallido, la sua voce è rotta e priva di suono, o forse esprime il suo dolore anche a parole: tutto ciò può naturalmente essere indagato, ma qui non ha importanza per me. Non per quali vie arrivo a questo «rendermi conto», ma che cosa è in sé stesso, questo è ciò che vorrei sapere. (L’Empatia di Edith Stein, a cura di Michele Nicoletti, Franco Angeli). Che cos’è dunque l’essenza dell’empatia? Stein ne fa una questione di originarietà: per lei originarie sono tutte le proprie esperienze vissute presenti come tali (che cosa d’altronde potrebbe essere più originario dello stesso vissuto?), ma non tutte si danno in modo originario: il ricordo, l’aspettativa, la fantasia, ad esempio, il loro oggetto, non è concreto, ma solo presentificato. E la presentificazione è connaturata all’essenza di questi atti. Primo problema: in che senso dunque all’empatia spetta l’originarietà? «Il ricordo di una gioia – scrive – è originario in quanto atto di presentificazione che si compie in questo momento, ma il suo contenuto – la gioia – non è originario; il ricordo possiede interamente il carattere della gioia tanto che potrei studiare tale carattere in esso, ma qui la gioia non è originaria e presente in carne ed ossa, bensì in quanto «una volta» è stata viva. La non-originarietà presente rimanda alla originarietà di allora, e «l’allora» ha il carattere di un «adesso» precedente; il ricordo ha il carattere di una posizione, e ciò che è ricordato ha il carattere dell’essere» (L’Empatia di Edith Stein, a cura di Michele Nicoletti, Franco Angeli). L’empatia, perciò, è un paradosso: faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio (Boella, Buttarelli, Per amore di altro L’empatia a partire da Edith Stein, Raffaello Cortina, 2000).EE così per l’aspettativa e la fantasia, anche se per quest’ultima si dovrebbe fare una precisazione ulteriore: l’Io che crea il mondo di fantasia è originario, l’Io che vive in esso non è originario. Il contenuto di un’esperienza vissuta (come le sofferenze che posso «leggere sul viso dell’altro) dunque può emergere in forme diverse come il ricordo, l’attesa, la fantasia e si mostrano davanti a me, ma si contrappone l’oggetto, spiega la filosofa, però (prestate attenzione) «mentre cerco – scrive – di chiarire a me stesso lo stato d’animo nel quale l’altro si trova, questo non è più oggetto in senso proprio ma mi ha coinvolto in sé». Perciò Stein nella sua dissertazione chiarisce che «ora non sono più rivolto verso di lui, ma sono in lui rivolto verso il suo oggetto» e arriverà a dire che l’empatia è un atto di esperienza sui generis, è soprattutto «esperienza di una coscienza altra da noi – indipendentemente dal tipo di soggetto che compie questa esperienza e dal tipo di soggetto la cui coscienza è sperimentata» (L’Empatia di Edith Stein, a cura di Michele Nicoletti, Franco Angeli). E giungerà a confrontare e a trovare punti di accordo e disaccordo anche con le teorie di Lipps, noto filosofo e psicologo tedesco.

Ma l’empatia – ci dice sempre Stein – genera anche illusioni: posso attribuire all’altro dei sentimenti che egli non prova (faccio una proiezione) oppure posso trovarmi in dissidio con il sentire dell’altro (empatia negativa). Cosa succede, infatti, se l’altro è totalmente chiuso e muto? Questo si chiede anche Boella. Di nuovo, nell’atto empatico troviamo l’incognito, l’imprevisto e l’indesiderato, come alla base di ogni pratica. L’empatia, dunque, può anche fallire; l’atto empatico può non compiersi. E allora cosa succede? Succede che si è semplicemente provato il desiderio di dare significato alla nostra e all’altrui esistenza; perché il problema non è cogliere l’esperienza dell’altro (ad esempio, un gesto d’ira?), ma viverla come esperienza di una persona nella sua interezza.  Ricordiamo infatti che l’empatia è una risorsa vitale e spirituale derivante dal “rendersi conto” della profondità di sé e degli altri, il punto cruciale sta dunque nel gestire attivamente la relazione perché è nel praticarla che capiamo la particolarità del suo esercizio. «Stare seduti vicino a una persona è già relazione – ci ammonisce Boella – anche senza dire e fare nulla. Come, anche se navighiamo nell’ignoto, imparare a guardare negli occhi, a sentire il timbro, il suono della voce dell’altro e a modulare il proprio. E allora è esattamente qui il problema: viversi prima di tutto come persone. Scontato? Probabilmente no. È come dire «ma tu sai davvero chi sei?». Oppure, quando si dice «Io», cosa si dice veramente? Allenarci all’empatia significa esercitarsi innanzitutto con sé stessi e con la percezione che ognuno ha di sé, arrivando anche a contemplare che aspetti della nostra natura più intima possano travolgere la laboriosa costruzione della nostra identità.

La naturale conclusione del discorso, dunque, è di essere interessati a forgiare il nostro carattere più che a diventare persone empatiche? E per dirla secondo Edith Stein: «Che cosa significa che io devo formare me stesso? L’io e il sé sono la stessa cosa?» (Edith Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova). Difficile rispondere, ma la vita si muove così di continuo che costruire (e tenere fermo) il proprio centro diventa quanto mai necessario. Appassionante è anche la prospettiva di Anna Donise (Critica della ragione empatica, Il Mulino 2020), la quale sostiene che, se svincoliamo l’empatia da una dimensione etica, possiamo utilizzarla come strumento cognitivo, quindi come uno “zoom”. Ma per questo rimandiamo ai suoi testi.

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