Come in sogno

“Le notti della peste” di Orhan Pamuk

Quasi alla fine delle Notti della peste di Orhan Pamuk, la narratrice Mîna di Mingher, che secondo i termini del patto sottoscritto dal lettore è anche l’autrice del libro che sta per terminare, descrive un oggetto regalatole dal bisnonno quando era bambina:

Scartando il regalo, trovai un libro (spesso come quello che avete in mano). Quando lo aprii, si trasformò in un pop-up per bambini, una perfetta riproduzione di Mingher in tre dimensioni. Com’era magnifica, deliziosa, reale! La città in cui avevo vissuto per tutta la vita era disposta davanti a me, in schiere di ritagli di cartone accuratamente rifilati e straordinariamente dettagliati.

Capii subito che non si trattava della Arkaz in cui ero cresciuta, ma della città com’era nel 1901. Mancavano i nuovi condomini, gli alberghi di cemento e i ministeri. Ma tutto il resto era perfettamente realistico e al suo posto, in ogni dettaglio. Eppure c’era qualcosa in quel meraviglioso paesaggio, negli sbuffi di nuvole nel cielo, nel rosso dei tetti, nel verde degli alberi, nelle guglie del castello che mi faceva sentire che era casa mia e allo stesso tempo un luogo uscito da una fiaba. Ho sempre portato con me il bellissimo regalo del dottor Nuri. Ho scritto il romanzo che state per finire con un occhio costantemente rivolto a quella favola tridimensionale. (704-705)

Il «pop-up per bambini» è un interrogativo rivolto ai «profondi e ineffabili legami tra realtà e rappresentazione» (704). La città riprodotta dalle fragili architetture di carta sta in un rapporto duplice con il suo referente nel mondo esterno. Il paesaggio in miniatura è «perfettamente realistico» e al tempo stesso sembra «uscito da una fiaba». L’oggetto simbolico ha qualcosa di misterioso che lo allontana dall’oggetto reale. Questa ambiguità trapassa nel romanzo, composto dall’autrice sul modello della «favola tridimensionale» ricevuta in dono.

Nella prefazione che apre il libro, la narratrice spiega di essere la curatrice della corrispondenza inviata tra il 1901 e il 1913 dalla principessa Pakize, figlia del sultano ottomano deposto Murad, alla sorella maggiore Hatice. Ma quella che doveva essere una semplice introduzione all’edizione si è trasformata nel «libro che state per leggere» (3). Documentandosi sull’epidemia di peste che nel 1901 colpì l’immaginaria isola di Mingher, dove si trovava la principessa Pakize, la narratrice si è infatti «resa conto che le decisioni prese dai protagonisti di quel breve ma drammatico periodo non potevano essere comprese solo con il metodo storico, ma richiedevano l’arte del romanzo. Così ho deciso di unire le due cose» (3). Un «romanzo storico» (3) o «romanzo-storia» (4), dunque, nato per gemmazione dal consueto manoscritto ritrovato.

La scelta del genere determina le tecniche narrative. All’accordo con la teorizzazione e la prassi di Henry James, «secondo cui, perché un romanzo sia veramente convincente, ogni particolare e ogni evento devono disporsi intorno alla prospettiva di un singolo personaggio», si affianca la tensione verso il modello del «libro di storia» (5). Per questo motivo, la «regola del “punto di vista unico”» (5) viene infranta. O, su un altro piano, le scene più toccanti vengono interrotte per «fornire al lettore fatti e cifre, oppure la storia delle istituzioni governative» (5). Il libro diventa così «più vicino a una cronaca» (6). A ciò collaborano gli strumenti formali tipici del realismo, come l’«ipertrofia dei sistemi descrittivi», l’«uso dei dettagli» e la «precisione denotativa» (Bertoni 315), che trovano il loro impiego migliore nella rappresentazione degli incessanti spostamenti in carrozza per le strade di Arkaz.

Attraverso questo impianto di realismo ottocentesco il libro racconta l’epidemia scoppiata nel 1901 sull’isola di Mingher, provincia dell’Impero ottomano nel Mediterraneo orientale, dove la principessa Pakize viene inviata insieme al marito Nuri, medico di quarantena incaricato di fermare il contagio. Ma «anche ciò che a prima vista sembra non aver nulla a che fare con la politica, appena sotto la superficie può celare ogni sorta di trama» (Pamuk 102). Il tentativo di risolvere il problema di sanità pubblica significa infatti affrontare i conflitti che lacerano l’Impero ottomano in declino e che lo scoppio della peste a Mingher fa precipitare. L’Impero prova, sotto la pressione delle potenze occidentali, ad «apparire al tempo stesso musulmano e moderno» (100). Senza successo, però. Lo mostra in forma condensata il giallo dell’indagine sulla morte di Bonkowski Pascià, il commissario alla Sanità pubblica dell’Impero trovato ucciso poco tempo dopo essere sbarcato sull’isola. Il governatore di Mingher Sami Pascià è unicamente interessato a condannare qualcuno per l’omicidio il più presto possibile, mentre il dottor Nuri, a cui è stato chiesto di collaborare alle indagini, afferma che il sultano vuole «che affrontiamo questo caso come farebbero gli europei, e cioè basandoci sulle prove» (200), secondo quello che viene chiamato «metodo Sherlock Holmes» (238). Alla fine, sarà il dottor Nuri ad avere la meglio, perché la principessa Pakize prima e la narratrice poi risolveranno il caso identificando il mandante dell’omicidio tramite una scoperta che assume «il significato che un indizio ha per Sherlock Holmes» (703). E tuttavia questo avverrà solo molti anni più tardi. Sul momento a risultare vincente è Sami Pascià, che individuando rapidamente l’esecutore materiale dimostra che «i metodi europei non sempre attecchiscono sul suolo ottomano» (303). Soprattutto però l’incapacità del governo ottomano nella gestione dei conflitti che abitano il suo territorio ha come effetto involontario l’incoraggiamento del nazionalismo mingheriano, che conduce infine all’indipendenza dell’isola sotto la guida del maggiore Kamil. A questo proposito, il libro è anche la storia dei «meccanismi di costruzione di una nuova nazione, il nation building» e del «complesso di mitografie e di leggende che legittimano i nuovi sovrani» (Pamuk-Fiori).

Su questo apparato ottocentesco grava però la contraddizione del sogno. Quando all’inizio della storia l’Aziziye, l’imbarcazione su cui viaggiano la principessa Pakize e il dottor Nuri, si ferma davanti ad Arkaz,

Calò uno strano e profondo silenzio. Marito e moglie rabbrividirono, soggiogati dalla bellezza del mondo che si stendeva davanti ai loro occhi. Il paesaggio impenetrabile, le montagne, il quieto chiarore lunare infondevano un senso di intensa meraviglia. Era come se oltre al bagliore argenteo della luna ci fosse un’altra fonte di luce capace di stregarli, e la dovessero individuare. Per un po’ i due sposi rimasero a osservare lo splendido panorama scintillante come se fosse l’autentica fonte della loro felicità coniugale. In quell’oscurità scorsero la lanterna di una barca a remi che si avvicinava e intravidero le lente manovre dei barcaioli. Bonkowski e il suo assistente apparvero in cima alle scale del ponte inferiore. Sembravano lontani, come dentro un sogno. L’imbarcazione nera inviata dal governatore si accostò all’Aziziye. Udirono dei passi e voci di persone che parlavano in greco e in mingheriano. La barca a remi attese che Bonkowski e il suo assistente salissero a bordo, poi scomparve nell’oscurità. Gli sposi e i pochi altri passeggeri sul ponte di comando e di coperta rimasero a lungo a osservare il castello di Arkaz e le spettacolari montagne che avevano emozionato tanti viaggiatori e scrittori dell’Ottocento, uscite come sembravano dalle pagine di un libro di fiabe. (Pamuk 21-22).

È l’inizio della trama onirica del romanzo, che si intreccia a quella storica causando una sorta di cortocircuito. Il cronotopo stinge continuamente nel sogno. Il paesaggio di Mingher non è misterioso e ammaliante solo in questa prima veduta, ma è costantemente circonfuso da un «alone di magia» (91). Misterioso è anche il tempo della vicenda. Nel finale, senza possibilità di opporsi, la principessa Pakize e il dottor Nuri vengono imbarcati sulla «stessa Aziziye che li aveva portati a Mingher», alla vista della quale rimangono per un po’ «combattuti tra la paura, la curiosità e l’eccitazione, come in un sogno» (655). Nella cornice stregata di questo tempo circolare, la vicenda dell’epidemia e della rivoluzione perde consistenza, sembra anch’essa un sogno. È qualcosa di più del «silenzio soprannaturale» portato dalla peste nelle strade di Arkaz (447). Anche le azioni dei protagonisti subiscono la stessa condanna. I personaggi principali hanno sempre la sensazione di agire in una dimensione onirica. Bonkowski, mentre si muove «a tentoni nell’oscurità della stanza della foresteria, cercando di distinguere le ombre, l’armadio e la finestra», parla «come in sogno» (39); ma anche più avanti si sente «come dentro un sogno» e ha «l’impressione di spingere invano la porta sbagliata» (77). Il maggiore Kamil, sbucando in una strada che gli sembra di riconoscere «dai tempi dell’infanzia», si guarda dall’esterno «come dentro un sogno» (276); e poco dopo osserva la cerimonia del proprio matrimonio «dall’esterno, come se fosse dentro un sogno» (283). Sami Pascià, entrando nella casa dell’amante Marika, novella Shahrazad che gli riporta le voci che sente sulla peste, ha «la consueta sensazione di trovarsi dentro un sogno» (539). Alla vista di tre uomini in lontananza, indifferenti al landò su cui viaggiano Nuri e Pakize, la principessa viene colta «da un profondo senso di abbandono, come in un sogno» (603).

Sono forse diverse le ragioni che congiurano a questo vacillamento della realtà. Innanzitutto, la formazione della narratrice:

Da bambina mi sono imbattuta nella principessa Pakize nei libri di scuola, nelle rubriche dei giornali e soprattutto nei settimanali per ragazzi (“Quaderni dell’isola”, “Imparare la storia”) che pubblicavano fumetti e racconti sui personaggi storici. Ho sempre sentito una particolare affinità con lei. Se altre persone vedevano l’isola di Mingher come una terra mitica e fantastica, la principessa Pakize era, per me, un’eroina fiabesca. Scoprire i problemi quotidiani della principessa delle fiabe, le sue vere emozioni, e soprattutto la sorprendente personalità e l’integrità racchiuse nella corrispondenza di cui ero improvvisamente entrata in possesso, è stata un’esperienza magica. (4-5)

Il nation building ha assoggettato l’immaginario della bambina. La dimensione fiabesca del racconto è almeno in parte conseguenza della propaganda che ha agito su di lei. La narratrice rivendica il proprio nazionalismo, in un significato diverso da quello contemporaneo, come «termine nobile, riservato a quei coraggiosi ed eroici patrioti che si ribellavano ai colonizzatori e correvano a testa alta verso le implacabili mitragliatrici degli invasori» (692). Ed è vero che la sua professione di storica la dovrebbe mettere al riparo. Ma nella scrittura ritorna la fascinazione infantile. Non c’è riparo dall’inconscio indottrinato. La voce narrante è forse un po’ meno affidabile di quanto voglia apparire.

Il sogno però serve anche a sottrarre la vicenda alla propria singolarità rendendola più ampiamente simbolica. Afferma la narratrice nella prefazione: «L’identità dell’omicida è, al massimo, un simbolo» (6). A questo proposito, lo stesso Pamuk ha parlato della sua opera come di un’«allegoria di un sistema di governo che diventa autoritario. Questo non per puntare il dito su chi è il buono o il cattivo, ma per capire le dinamiche di un processo che descrivo nel contesto simbolico di una peste del passato» (Pamuk-Mobiglia). La dimensione onirica, sfumando i contorni della realtà, potenzia il significato universale. E in fondo è proprio questa la magia della letteratura. Del resto, il libro è un romanzo storico solo nella finzione. Di qua dalla finzione è qualcosa di più e qualcosa di meno: la simulazione di un romanzo storico, che attraverso un grado maggiore di invenzione amplia la portata del discorso.

Infine, sembra che la vita stessa abbia qualcosa di onirico. Si muove «come in un sogno» chi si sente in uno stato di abbandono, chi si guarda dall’esterno, chi pensa che le sue azioni siano inutili. Gli eventi sono incontrollabili, costringono a spostarsi nell’oscurità, senza vedere nemmeno le ombre, sentendosi come spettri (Pamuk 222). Sulla vicenda del passato si proietta il dramma contemporaneo del «senso di impotenza, di mancata presa sugli eventi, di inibizione alla prassi» (Giglioli 3). Persino la fine dell’epidemia è in fondo incomprensibile: «I decessi diminuirono anche perché – altri storici hanno largamente trascurato questo aspetto – i ratti erano misteriosamente scomparsi dalle strade della città» (Pamuk 621). La storia ha brevi sussulti che spezzano la trama di sogno della vita: «Fino a quel momento i partecipanti alla riunione avevano creduto di vivere dentro una fiaba o un sogno, ma le cose avevano improvvisamente preso una piega più pragmatica, potremmo dire portandoli nella dimensione della Realpolitik» (450). Alla fine però, a bordo dell’Aziziye, le acque del sogno si richiudono.

Bibliografia

Bertoni, Federico. Realismo e letteratura. Una storia possibile. Einaudi, 2007.

Giglioli, Daniele. Stato di minorità. Laterza, 2015.

Pamuk, Orhan. Le notti della peste. Einaudi, 2022.

Pamuk, Orhan, e Simonetti Fiori. “Orhan Pamuk: l’amore e la politica al tempo della peste”. La Repubblica, 30 settembre 2022.

Pamuk, Orhan e Santina Mobiglia. “L’allegoria di un impero che precipita nel vuoto. Intervista a Orhan Pamuk”. L’indice dei libri del mese, 3 novembre 2022.

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