Due e due fa quattro

Eccomi di nuovo ridotto agli ultimi giorni disponibili prima della consegna di un lavoro. È un mio marchio di fabbrica, ma questa volta mi sono superato e mi ritrovo a dover scrivere un reportage su un viaggio che ho fatto e che riguarda una cosa a me molto cara: la musica. Suono, compongo canzoni, leggo e scrivo di musica. Recensioni di album, piccole retrospettive su gruppi o musicisti che hanno fatto la storia di qualche genere. Il lavoro che ora devo consegnare, ovviamente, non è niente di tutto questo. Quando, qualche mese fa, un amico mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere qualcosa sulla “musica nuova” per la sua rivista le gambe hanno un po’ tremato e subito ho balbettato che mi trovavo un po’ in difficoltà. Per fortuna il mio amico di musica non ci capisce nulla, così l’ho spinto a considerare un pezzo sulla nuova scena musicale napoletana che tanto si nutre e attinge a piene mani dalla grande stagione del Neapolitan Sound. In questo modo pensavo di sbrigarmela velocemente, se non fosse stato che «Vai a Napoli! Scrivi un reportage su quella roba lì: ti do gli accrediti per tutti i concerti che vuoi!».

E così il 29 ottobre mi sono trovato su un volo diretto a Napoli. Arrivato a Capodichino, il mio umore era perfettamente conforme al clima: caldo, caldissimo per essere a fine ottobre, ma leggermente velato da un sottile strato di inquietanti nuvole che non facevano vedere il blu, il sole. Eravamo partiti da poco quando il tassista, pigiando skip sull’autoradio, è finito su un’emittente locale che trasmetteva una canzone neomelodica contemporanea. Vibrati esagerati, picchi di acuti da brividi, basi semplici e patetismo nei testi. Ho chiesto al tassista informazioni a riguardo: se conoscesse l’autore, se gli piacesse il genere… scopro che a lui il neomelodico contemporaneo non piace troppo:

 «È proprio una “commerciatala” – dice –, una musica posticcia di sentimenti spiccioli, non come la musica napoletana degli anni Ottanta».

 «Ti riferisci a Pino Daniele, al suo gruppo?», chiedo intimidito.

Risponde che si riferisce a Nino D’Angelo: «Devi sapere che, quando ero piccolo io, quella era la musica che tutti ascoltavamo a Sanità. Non era un bel quartiere, ma sentire a Nino che ci raccontava quelle storie… sognavamo, ecco, sognavamo un poco: parlava di belle ragazze, d’amore; ma bene, eh! Non come questo…». Abbassa il volume e sussurra: «Fa o cess».E mentre lo dice fruga nella tasca della portiera prendendo un cd. «Sienta ’cca Ninə». L’album è una raccolta di successi dal titolo esplicativo Raccolta di successi. Gli chiedo se mi può passare la custodia del cd, mentre un synth incalzante viene frustato a ritmo dal secco rullante anni Ottanta. Volume 1, tutti i grandi successi degli anni Ottanta di Nino D’Angelo. Lui con il suo caschetto biondo che occupa più della metà della copertina. Inizia a cantare. Non capisco tanto, salvo il ritornello, e, più che a immaginarmi il tassista e la sua difficile vita passata nel rione Sanità, penso a una discoteca, al benessere, ai vestiti colorati, i capelli cotonati che si intrecciano sulla pista da ballo. Capisco così cosa intendesse il tassista nel dire che tutti loro sognavano su quelle note: non per identificazione, ma per evasione. 

Insomma, la prima persona che incontro a Napoli mi parla di musica e mi fa capire quanto sia viscerale l’argomento quaggiù.

Intanto, mentre la macchina si dirige verso il centro entrando in Piazza Nazionale, brutti palazzi popolari scrostati con tende sbiadite e negozi di abbigliamento apparentemente abbandonati si trasformano poco a poco in quello che viene considerato il centro storico, anticipato dal pavé di via Casanova e Porta Capuana. Nino D’Angelo, le sonorità funky jazz, le metamorfosi architettoniche, tutto qui fa pensare che la musica napoletana sia una, una soltanto, e che cambi di continuo. C’è stato Mario Merola con la sua sceneggiata, poi Pino Mauro e poi Mario Trevi; prima ancora Enrico Caruso, Roberto Murolo, Nunzio Gallo. C’è stato un momento in cui la canzone classica napoletana ha fatto il giro del mondo e, nel suo utero, ha incubato generi musicali diversi, accomunati dal cosiddetto bel canto in lingua napoletana. Anche i troppo spesso criticati Gigi Finizio, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio, e tutti quelli riconducibili al neomelodico, arrivano dalla musica napoletana considerata “di qualità”. 

Arrivo al mio appartamento in via Zuroli verso l’una. La zona è quella del Decumano Inferiore, con Spaccanapoli e via dei Tribunali che fanno da binari alla vita turistica del centro. A sinistra, fuori dalla porta di casa, inizia una delle vie più caratteristiche di Napoli, con le pizzerie che si accavallano sulle pasticcerie; a destra, invece, via Forcella, la periferia dentro il centro, il crocevia in cui puoi incontrare il diavolo. Mollo lo zaino e vado a bere il caffè in un bar all’incrocio. Le strade tanfano di umido e, nella piccola aiuola di terra bagnata vicino al mio tavolo si possono contare circa un centinaio di mozziconi di sigaretta, puzzo mischiato al dolciastro di pasticceria. Ho solo un numero di telefono di questo musicista napoletano: Gaetano, un pezzo di storia che macera nelle cantine di Napoli. Tutti in città conoscono Gaetano, ma, ancora più importante per me, Gaetano conosceva e ha suonato con tutti i protagonisti del Neapolitan Power. Anzi, a essere precisi, il movimento è iniziato proprio da lui. Lo chiamo e una voce roca, impalcata da migliaia di sigarette, mi risponde. La conversazione è difficile perché il suo napoletano è strettissimo. All’inizio è diffidente, quando gli chiedo se posso farci due chiacchiere mi sembra di vedere il suo sorriso, di chi le fregature le vede arrivare. Non so come, ma dopo pochi minuti chiudo la telefonata con un appuntamento per l’indomani pomeriggio. 

Mi presento sotto casa sua nel primo pomeriggio. Mi basta vedere la porta di ingresso per capire che Gaetano non se la passa troppo bene; l’unica finestra dà sul cortile interno e, per potersi vedere in faccia, bisogna accendere la luce anche se è l’una del pomeriggio. Non è freddo, ma l’umidità è pesante e, mischiata con l’odore di mozziconi, rende l’aria irrespirabile. Gaetano è in piedi vicino a un tavolo rotondo e mi accoglie con quel sorriso che mi ero immaginato durante la telefonata. Tira fuori una mano da badile dalle tasche dei jeans e me la tende, è la pelle callosa di un uomo di ottant’anni.

«I giornalisti non ti lasciano mai, un po’ come la forfora» mi dice come benvenuto. Mi fa sedere su un divano che mentre, riempie una moka con del caffè, sento un centinaio di tenagline da insetto pinzarmi le cosce, ma ho paura di alzarmi.

«Quando ho iniziato a suonare, da ragazzo, mi sono reso conto che il tempo stava cambiando… registra pure». «Tutti sentivano che il tempo cambiava: era “lo spirito del tempo”… ha detto così, “lo spirito del tempo” e io mi sono messo a ridere. Non che non lo sentivo, lo spirito del tempo, ma io intendevo il tempo che senti quando sei sul treno, quando ti passano veloci le stazioni vicine al naso e tu sei sul vagone a una velocità diversa. Io mi sono accorto, quando ho iniziato a suonare, che stavo su un treno, ma un treno del tempo, del ritmo. Hai capit’? Là fuori c’erano le stazioni con il ritmo loro, una dietro l’altra, progressive, per arrivare al capolinea; qui dentro c’era un ritmo diverso che aveva saltato stazioni ed era arrivato e me ne accorgevo quando la mia mamma veniva in camera a dirmi di smetterla con quella musica». 

Serve il caffè e il fumo delle tazzine si mischia con quello delle sigarette.

«Questo è quello che ho sentito da subito, hai capit’? L’ho sentito da un jukebox e aveva un suono elastico, andava a un ritmo suo, piegava il tempo». 

Mi schiarisco la voce: «Intendi il sax? Il bending? Piegare le note?». Non riesco a sentire le mie parole tanto sono agitato.

«Senti Miles Davis e senti Coltrane e senti che è tutta n’ata storia».

«Come la canzone di Pino».

«E che credi, tutti in quel momento sapevano che era ’n’ata storia. Napoli è stato il treno. Anzi un vagone del treno che arrivava dagli States».

«Ma perché hai scelto di seguire quella strada? Napoli ha la sua tradizione.»

Si mette a ridere con quella grande bocca spalancata, con le grandi labbra fibrose a furia si di soffiare dentro al sax.

«Uaglio’, ma veramente dici?»

Sorrido meglio che posso.

«Avantieri mi è venuto di guardarmi tutto quanto allo specchio». «Mi sono guardato, ho guardato le rughe e l’ho trovato divertente. Fa ridere pensare a uno come me nel 1970. Io sono fatto così, con questa pelle, questi capelli, questa bocca larga e naso grosso; ma quelli che mi vedevano sul palco negli anni Settanta come mi vedevano? Mi vedevano giù dal treno o sul treno? ». Sibila. «E quello che facevo sul palco era fatto anche per gli altri, perché sentivo che dovevo farlo, e alla fine ha fatto bene a tanti. In tanti si sono identificati con la mia musica; è stata una bella cosa, quella».

Comincio ad avere la sensazione che a Gaetano, di rimanere al di qua, non gliene è mai importato nulla.

«In quegli anni la musica ha aiutato alle persone di Napoli. Non a capire, perché tanto non si capisce proprio niente. Ma c’è stata. Qui c’è stata la rivoluzione, capisc’ ? Nel ’75 con Franco [Del Prete] abbiamo deciso di fottercene di tutto, perché ci bruciava la fronte e sapevamo che in una maniera dovevamo sfogarci. Lo dovevamo fare per chi era rimasto solo, per chi gli rodeva il culo, per chi aveva dei problemi e voleva soltanto vivere tranquillamente. I napoletani hanno sempre sofferto, soffrono, come i neri. Teneva raggione chillu llà…». «Abbiamo portato il ritmo della sofferenza in mezzo a chi soffriva e li abbiamo fatti ballare. Be-bata-bo-bee-bata-bo-beeeeee». Si alza dalla sedia e lo vedo sparire nell’oscurità della stanza. Sento dei rumori, saranno a due metri di distanza da me, ma non riesco a vedere bene. Un sax inizia a strillare e una batteria jazz forsennata lo accompagna dopo un paio di battute.

Chiove o jesce ’o sole

Chi è bracciante a San Nicola

Ca butteglia chine ’e vine

Tutte ’e juorne va a zappà

«È stata una rivoluzione». La voce sembra uscire da ogni angolo della stanza. «Portare quel vagone del treno qui a Napoli. Prima si parlava di belle uaglione, ro mar’ e quant’altro. La mia rivoluzione è stata il linguaggio popolare». È come se tutto si stesse aprendo davanti a me e io adesso ho voglia di chiedergli degli anni con Pino, voglio andare oltre, più a fondo. Continua. «I campi dell’America nera che arrivavano a Posillipo, l’elasticità che non ti lasciava un secondo, mentre tentavi di tenere il tempo. Lo sentivi e appena avevi sentito arrivavano le parole… ma non erano le parole eh, è quello che incollava le parole alla musica, una colla. E quella colla ti faceva sentire che stavi soffrendo, che anche io stavo soffrendo sul palco, e se lo capivi saltavi sul vagone». «Tu vuoi che ti racconti di come sono andate le cose. Vuoi sentirti dire degli Showman, dei Napoli Centrale, di Pino. Tu vuoi che ti parli della realtà di quegli anni, ma qui di reale ci sta proprio coppole e cazz. Il Sax è realtà? Lo tocco con le dita, ci sputo dentro, lo vedi, e lo senti, ma puoi veramente dire che lo tengo fuori da me quando lo suono? Puoi veramente dire che sta fuori e non è me? Così come quando cantavo. Cantavo io? Io so solo che urlavo. Urlavo, strillavo» mi viene in mente Simme Iute e simme venute di Mattanza, 1976«ma ero io che urlavo? Erano i negri che urlavano, erano i napoletani, erano i negri napoletani?»

Solo ora capisco. È impossibile parlare di musica, dei suoi ricordi, della realtà, e mi sento stupido. Gaetano ha ragione, la sua musica, o quello che è stato, non può essere questo che sto scrivendo. Mi impunto.

«Gaetano, in Qualcosa ca nu’ mmore Pino Daniele ha suonato il basso. Come è che poi…»

«No! Pino non ha suonato proprio niente. Ci ha accompagnati nei live!» «Come io non ho suonato in Nero a metà. Io, Tullio De Piscopo, Tony [Esposito] non avevamo partiture nei live, tutto improvvisato, hai capit’? Eravamo tutti liberi e facevamo soltanto che sapevamo fare».

«Il treno di Coltrane, Miles Davis…» lo incalzo «era quello a cui vi rifacevate?»

«Noi sapevamo che per fare certe cose dovevi avere a che fare con… Dio. È per questo che mi sono sempre inginocchiato quando suonavo. Quando preghi ti inginocchi per cacciare fuori la voce che deve arrivare a Dio direttamente.» Si ferma. 

Lo cerco con lo sguardo.

«Coltrane si inginocchiava spesso, anche Miles».

«Chi soffre deve fare così. Deve colmare la distanza, deve farsi sentire».

Intanto dalla profondità buia della stanza vengono sputate fuori le note di Sangue Misto sempre dell’album Mattanza del 1976. Il sax che piange, strilla, sbuffa cercando di rivoltare le budella a tutta l’armonia del creato e poi uno stacco, e poi la batteria, che attacca con un funky che quasi ti fa dimenticare i brividi appena provati e ti fa sculettare. 

«Gaetano, per certi versi questo sound mi fa venire in mente un gruppo nuovo di Napoli». Che stronzo, buttarla così, sui gruppi nuovi proprio mentre stava parlando di Dio. Sento il sangue che mi si raffredda sopra la valvola dello stomaco, perché ora Gaetano ha messo le mani sulle ginocchia e fa leva sugli avambracci per sporgersi in avanti. 

«Due e due fa quattro. Chist’ fann’!» «I giovani…nun sann’nient’. Fann’ e cose pe’ divertirsi, si divertono, ma qui non ci sta proprio niente da divertirsi. La musica… sono pure brava gente, ma fino a quando esisterà chi fotte e chi è fottuto, chi nun vo’ e chi nun è volut… che cazz’ ti diverti a fare?».

Non so cosa dire, volevo spostare il discorso sulla nuova scena napoletana, ma non mi aspettavo niente di tutto questo.

«Dai, chiedimi dei Nu Genea» ruggisce.

«I Nu Genea?» mentre lo dico non muovo le labbra.

«Tanto lo so che mi vuoi chiedere questo. Domani ci sta il loro concerto. Ti sembra musica americana, musica negra quella? Ti sembra abbia la potenza, il tempo? Non sanno manco addò fa friddo e addò fa cchiù calore. Facciamo così» taglia corto, «andiamoci a sto concerto. Vacci, andiamoci. Ti invito. Forse capirai. E se capisc’ va bene sinò te futte». 

Dico che ci sarò, cos’altro potevo dire. Per gli accrediti posso sentire l’amico che mi ha commissionato il lavoro, che mi dica solo dove e quando. Gaetano si alza e con un cenno mi fa capire: la chiacchierata è finita. Come sono entrato sono uscito. La nuvola di fumo della stanza in cui eravamo immersi svanisce quando apro la porta e, guardando il sole che taglia a metà i palazzi scrostati del cortile interno, mi sembra di essere tornato nel mondo.

Il giorno dopo mi faccio trovare in orario. Il posto del live si chiama Scugnizzo Liberato, nel quartiere Avvocata. Un ex convento di Cappuccine, poi carcere minorile e ora spazio comunale autogestito. Nelle viuzze laterali l’aria è quella da live, ma qualcosa stride. La vita dura di quel quartiere e di quel palazzo con le camicette colorate e gli occhiali da sole del pubblico in coda, forse. Mi metto in disparte a fumare una sigaretta e penso a Gaetano. Il concerto sta per iniziare, il dj set di apertura è di Whodamanny, del collettivo Mystic Jungle Tribe – sta facendo ballare a ritmo disco funky anche la gente appollaiata sulle scale all’ingresso. Il concerto è gratuito e non c’è orario, ma io incomincio a essere impaziente e alle 21.15 faccio la mia prima telefonata a Gaetano. Non risponde. Riprovo. Niente. Rientro. Luci stroboscopiche lanciano bombe sui muri già scrostati. Dal palco, enorme e posto di fronte all’entrata, la musica fa ballare un pubblico divertito.Le facce e vedo facce sono impiastrate di sudore e di creme, sorrisoni, birre pagate troppo per Napoli. Tutti ballano, tutti vanno a ritmo e tutti sono felici e dalle tote bag escono cellulari pronti a immortalare proprio tutto. Penso ancora a Gaetano e cerco di contattarlo un’ultima volta. Ancora il cellulare staccato. Mi intristisco ad averci creduto davvero. I Nu Genea iniziano a suonare. La musica è di una qualità altissima, il loro è un lavoro di vera ricerca. C’è il funky, c’è il jazz, c’è la musica nera, c’è l’elettronica. Ma non riesco a concentrarmi, penso a Gaetano, penso che due e due fa quattro, e forse va bene così. Forse va bene che la situazione è diversa, va bene prendere parte a qualcosa anche se non stai soffrendo, va bene continuare a fare certa musica, anche se di quel tempo e di quel sound rimane solo una carcassa irriconoscibile . Due e due fa quattro. Forse ora è questo il modo con cui chi è ancora fottuto si distingue da chi fotte: fottendosene. 

Il giorno seguente è quello del ritorno a casa. Non voglio sembrare “quello che sta addosso”, per questo non richiamo Gaetano.

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