Tra le scene che emergono più vividamente nella mente del lettore al termine di Solo vera è l’estate, c’è sicuramente quella in cui Biba, che si è recata da Roma a Genova per partecipare alle manifestazioni no-global in occasione del G8 2001, si ritrova al centro di un ciclone di violenza incontrollata scatenata dai Carabinieri. Per puro caso riesce a evitare di rimetterci personalmente, gridando a un agente vicino «abbastanza da farle percepire il lezzo acido del suo sangue saturo di tensione» di non provare a toccarla. Questo comportamento istintivo e animale, da manuale di etologia, viene seguito da un’azione simile da parte del carabiniere che «esita, come fa un predatore quando la vittima dà segnali di risposta anomala, e ferma il braccio, non la colpisce […], si rivolge altrove, senza toccarla, non trova nessuno abbastanza vicino da bastonare, allora torna indietro, comincia a inseguire un ragazzo» (153).

Siamo in realtà al cospetto di qualcosa di molto umano, che però giace incatenato e nascosto sotto la superficie della convivenza civile. Riguarda da vicino la paura viscerale provata e suscitata dalla ferinità – non soltanto potenziale – degli esseri primitivi: sub-umani in accezione di sviluppo sociologico, topos già presente in altre pagine di Pecoraro.
Per esempio, in alcune prose della prima sezione di Questa e altre preistorie, lo scrittore provava a impressionare «gli immemori che si credono al sicuro nei loro appartamenti del centro o delle periferie» (*1) camminando sul crinale che divide chi è inserito nella società occidentale di inizio millennio – «Noi, quelli dello spazio civile, ufficiale […] nelle istituzioni e nelle leggi» – da coloro che in uno spazio «residuale, negli anfratti, tra i nostri rifiuti, come acari urbani […] si difendono da soli», e mostrando come, in realtà, sia sufficiente passare sotto il cavalcavia di un viadotto romano – «dove se ti si guasta la macchina, o la moto, sono dolori e sei già fortunato se non ti schiacciano» – per rendersi conto che «il loro mondo è lo stesso dove viviamo noi», che loro «[s]ono lì a un passo» e che da questi
[c]i separano solo poche migliaia di euro sul conto, qualche rampa di scale, quattro pareti e un tetto, una porta di ingresso, un po’ d’acqua corrente, un lavoro continuativo, forse un po’ più di salute, magari una macchina.
Ci separa da loro il considerarsi parte di un sistema, di una macchina produttiva, lavorativa e relazionale, forse di una scala sociale. E il sentirsi utili e cercati, non molto di più (*2).
Inoltre, sebbene il tono sembri più ironicamente distaccato grazie a stralci di espressionismo linguistico nelle parti dialogiche, la sensazione di pericolo che minaccia la stabilità della società civile, quel brivido di minaccia primordiale, appare anche nel racconto Farsi un Rolex (nella raccolta Dove credi di andare, poi in Camere e stanze). Qui si assiste al tentativo di furto per le strade di Napoli ai danni di un avvocato che, con un impeto tanto inaspettato quanto rischioso, riesce a mettere in fuga il ladro, rappresentante di turno del gruppo di coloro per cui esercitare la violenza è un atto puramente naturale e automatico: «Lah-scia stà Ferdinà… non è nieh-nte… tutto finihto… ’nu scippatore che voleva farsi un Rolex… è capitato male… oggi gli ha detto male… adesso scappa… mi sono messo paura… ma anche lui ce l’aveva…» (*3).
Sono questi tre esempi di quella «cronaca dell’apocalisse» (*4) portata avanti diffusamente da Pecoraro, non solo nei libri e nei vari interventi, ma anche sui suoi profili social: su Twitter per via aforistica, volutamente quasi travestendosi da avventore del «Bar Porcacci», e su Instagram, al contrario, per via foto-poetica. Caratterizzata da quell’ibridazione tra narrativa e saggistica che lo rende, forse, come acutamente sottolinea Guido Mazzoni, l’unico autore – per sua stessa definizione – inattuale e novecentesco tra gli scrittori italiani viventi. E la cronaca dell’abbrutimento dell’Occidente pervade sicuramente – come appunto ben esemplifica, una per molte, la scena di Biba con l’agente – anche il suo ultimo romanzo, uscito a inizio marzo per Ponte alle Grazie. Se non fosse che, tra le pagine e tra gli intenti, fa capolino un elemento che ammanta il libro – nondimeno e anzi forse ancor più per questo estremamente godibile – di una patina più dolce ma non consolatoria e di una complessità fertile di significazioni, e cioè l’attuazione ripetuta e variata di un meccanismo di allontanamento dalla materia più urticante e incandescente.
Solo vera è l’estate segue per meno di un fine settimana Giacomo, Enzo e Filippo, tre trentenni romani irrisolti, insieme a Biba, un personaggio femminile con cui intrattengono un’amicizia nata tra i banchi del liceo Mamiani e una relazione carnale più o meno segreta. Sembra che i primi tre insieme formino una singola creatura, il tricefalo GEF, che garantisce alla quarta una momentanea stabilità. In questa nuova occasione, Pecoraro mischia dimensione privata e pubblica, come aveva già fatto in La vita in tempo di pace, e non si esime dal mettere nitidamente a fuoco, per quanto riguarda la prima, l’insoddisfazione strutturale con annesso timore per il futuro (di qualsiasi esistenza individuale a cavallo tra secondo e terzo millennio) e, per la seconda, la rilevanza storica di tutto ciò che accadde in quel G8 in cui si abbatté definitivamente la speranza di mettere in piedi un’opposizione concreta alla globalizzazione pilotata dal Capitale. Anche in quest’ultimo testo, poi, Pecoraro, che «sembra prendere le mosse da una condizione di perenne vulnerabilità preventiva» (*5), non lesina nemmeno nell’atto di chiamare le cose con il proprio nome, descrivendo quanto successo con limpidità:
Ma nel luglio del 2001, ammesso che fosse stato possibile costruire un partito no-global, l’idea stessa di partito era in dismissione anche in seno a quegli organismi politici che a tutti gli effetti erano ancora partiti, ma privi della forza autonoma che derivava da fattori storici ormai tramontati. A Genova la forza era tutta dalla parte del governo — di cui Gianfranco Fini era vice-presidente del Consiglio — che la stava esercitando in modo incontrollato e selvaggio, cioè non politico, ma naturale. In altri termini, fascista (34).
Entrare dunque dentro le cose, certo, o anche solo strizzare gli occhi con uno sforzo visivo da poco fuori, come registrato dai critici più attenti già per i suoi primi libri («[è] la scrittura di un miope, di qualcuno che guarda il mondo da vicino. Da troppo vicino: alla materia, alle sue rughe, alle sue imperfezioni. Lo sguardo si concentra sempre su particolari, oggetti, paesaggi e personaggi che di solito non attraggono la nostra attenzione, e anzi: che rifuggiamo, che schifiamo […]. La realtà ostile viene intercettata, bloccata, congelata da uno sguardo che non svicola e che al contrario la fronteggia: uno sguardo sempre frontale», *6); eppure in quest’ultimo romanzo, a più riprese, a queste impietose inquadrature dal vero segue un movimento di scarto, di allontanamento, che tuttavia si pone dialetticamente e non antiteticamente nei confronti di esse.
Solo vera è l’estate, secondo quanto dichiarato dallo stesso autore ai microfoni di Fahrenheit, nasce più di dieci anni fa già nelle intenzioni, per quanto non programmatiche, con un gesto di scostamento, nel caso specifico da La vita in tempo di pace. Un gesto che insegue la messa in pagina di un rapporto amicale invidiato e quasi mai personalmente esperito più che di una vera storia, e al contempo prende una netta distanza dall’impostazione della voce, del punto di vista e della modalità di scrittura del libro precedente.
Il nuovo romanzo, inoltre, anche a livello diegetico, prende le mosse, subito dopo la bella introduzione di stampo climatico-antropologico, dalla volontà di andar via. La città si è svuotata come ogni estate («Oggi Roma […] è tutti al mare») e, venerdì 20 luglio 2001, incontriamo il grafico-precario Enzo, rimasto nella canicola urbana per lavorare. Questi riceve telefonicamente da Giacomo, l’amico-colto dottorando in filosofia teoretica – insieme alle prime confuse notizie della tragedia in corso a Genova, in un vero flusso che annulla, o inverte, la gerarchia: «ci sono prospettive. Non tutto è perduto per stasera. Sentito a Genova che casino?» e poco dopo: «Berlusconi non può permettere che gli rovinino la festa e Fini ha i suoi contatti fascisti nella polizia. Stasera mia cugina pischella fa una festa a casa sua» –, riceve, si diceva, la proposta di una fuga salvifica, tramite il pretesto del «zummer party» di compleanno della cugina Lavinia a Lavinio, sul litorale laziale. Il piano è presto pronto: a bordo della Yaris di Biba, partenza da Roma loro due (Giacomo, il di lei attuale ragazzo-convivente, ed Enzo, di lei innamorato da tempo e con la quale va a letto anche ora che sta con il primo) insieme a Filippo, l’amico-dotato di naturale e irresistibile attrattiva, al momento meccanico di biciclette (e che, all’insaputa degli altri, con Biba si incontra a cadenza settimanale per intrattenere rapporti sadomaso), e poi: cena di pesce, festa, pernottamento nella casa al mare della famiglia di Enzo ad Anzio. Manca solo Biba che, gelosa e fiera della propria indipendenza, si è detta impegnata per tutto il weekend, senza meglio specificare.
Mentre l’auto procede prima sul Grande Raccordo Anulare e poi lungo la Pontina, Pecoraro mette in atto continui e frenetici scarti laterali: il trino GEF divaga, passando dal commento sulla situazione globale per cui a Genova si sta battagliando per strada (e per cui, forse, loro non sono andati: «Regà, il Capitale se lo fai incazzare ti spara. Noi andiamo al mare, non siamo andati a Genova, quindi il Capitale non ci spara»), all’idea di un Dio in cui si crede inconsapevolmente e quindi profondamente solo perché turbati dalle bestemmie usate come intercalare. Il viaggio è anche scandito dall’osservazione silente dell’entropica conformazione del paesaggio tra le periferie di Roma e le località circostanti, nucleo d’interesse per cui lo scrittore, «con gli strumenti e le categorie di chi conosce l’urbanistica e l’architettura; ma anche con l’ansia di chi si sente in transito verso una sensibilità estetica “antiprospettica e caotica”» (*7), non perde occasione – per fortuna, postillerei – di aggiungere dettagli nuovi a quanto già scritto nelle opere precedenti.
A emergere molto bene in queste pagine è altresì un dispositivo originale (presente pure in Lo stradone, dove però proporzionalmente ricorreva in quantità limitata): l’uso del triplice trattino al posto di quello singolo, che l’autore sempre a Fahrenheit ha dichiarato di impiegare «per distanziare di più, per marcare di più, perché mi sembra che un trattino non basti per creare un intervallo». Tale segno composito di punteggiatura contribuisce a rendere per via stilistica il desiderio di divagazione, di fuga con mantenimento dialettico del tema precedente, in un periodare stratificato che darà esiti articolati e suggestivi: alcuni fra tutti, con punte di lirismo forse involontario, quello formato dai simmetrici capoversi di flusso incontrollato di pensieri di Biba subito prima di addormentarsi e poi appena sveglia alle pagine 170-173 e 189-191, oppure il frullare libero di idee di Giacomo alle pagine 178-181. Un dispositivo, dunque, meritevole probabilmente di attenzione critica maggiore (se non altro, come ulteriore lente analitica sulle ultime opere di Pecoraro, oltre, per esempio, ai meccanismi stilistici già scandagliati da Gabriele Pedullà nella postfazione a Questa e altre preistorie: le maiuscole, gli eccetera, i trattini – semplici – e le endiadi ottenute tramite &).
Ma torniamo ai distacchi nella storia. Dopo la cena ad Anzio, ormai nella fase calante della festa della cugina di Giacomo, Enzo e Filippo chiacchierano con una coppia di ragazze. Quella che esercita il maggior interesse per entrambi propende naturalmente verso il centro attrattore-Filippo, con il quale si apparterà sveltamente, mentre ad Enzo non rimane che scambiare ancora qualche parola con l’altra e, poiché perso nelle proprie riflessioni più che mosso da noia nei confronti dell’interlocutrice, declinare un suo invito a ballare, altrettanto privo di secondi fini: «Vado a ballare, vieni? A Enzo quello sembra un invito burocratico, amministrativo, di cortesia e cercando di essere gentile dice, No grazie, fa troppo caldo. Lei dice, Non c’è problema e si allontana, come se tra loro ci fosse improvvisa una rottura» (112).
Questo congedo, dopo il quale la serata cala di intensità, prefigura di lì a poco l’allontanamento di GEF dalla festa e l’arrivo nella casa di Anzio, prima che sia finalmente Biba a prendersi la scena.
Il capitolo dedicato a quest’ultima si apre, come si era aperto il romanzo, con una fuga da Roma, questa volta sul pullman dei Cobas diretto a Genova, destinazione scelta da Biba per dei motivi che, se presenti, si trovano ben nascosti dentro di lei:
Biba però non sa bene se questo suo andare a Genova, con zaino e micro-sacco a pelo, faccia parte del suo passato, cui forse sente di dedicare un ultimo tributo, o del futuro, di cui invece non sa nulla, se non che per lei, come per tutti coloro che viaggiano su questo pullman, e coloro che abitano nelle case e nelle città che scorrono veloci fuori del finestrino, non c’è modo di influire ma solo, eventualmente, di protestare (140).
Un allontanamento sentito come dovuto ma che muove dall’ignoto, dunque, via dalla città entro cui l’ente GEF & Biba si è formato, verso un’altra città che in quel momento viene indicata come la meta necessaria per poter dire l’ultima sul proprio futuro, sul futuro di tutti. E di nuovo semi-inconsciamente («senza nemmeno rendersene conto e senza un motivo apparente per farlo») Biba si spinge fino alla testa del corteo, dove gli scontri sono già in atto, dove il sangue e la fragilità delle ossa e del corpo umano salgono sul «palcoscenico dello Spettacolo Genova» e dove abbiamo già osservato la ragazza quasi braccata dal predatore-carabiniere, prima di un altro doveroso (per ragioni di alta tensione) allontanamento, che però la porta all’epicentro della tragedia storica, la prima di allora anonima piazza Alimonda dove giace il corpo di Carlo Giuliani. Nello svolgersi di queste scene concitate, dentro di sé Biba in realtà ha già optato per l’ennesima “fuga dialettica” del romanzo:
Lei ancora non lo sa, ma già da qualche minuto […] ha deciso di andarsene a casa, e di corsa. Di fronte a tutto questo ha un moto di fascinazione e rigetto. Il rigetto è più forte. Subito a Roma, che ora le appare come una lontana silente stupida madre benigna, persa nella caligine dell’estate. Continuamente urla a sé stessa, Via-via-via-di-qui, ma poi resta, attratta non sa bene da cosa (155).
E stavolta alla fine scappa davvero, diretta ad Anzio, per raggiungere GEF e rituffarsi nella stabilità momentanea che solo lui le sa dare («l’importante è essere qui e non lì. Non essere più lì, essere qui con loro», 167). Una volta ricongiunti, al risveglio, però, ecco che in mezzo alle chiacchiere e al cazzeggio emerge l’elemento che potrebbe far crollare questa stabilità a quattro: interrogato in maniera bonaria sul fugace rapporto avuto la sera prima alla festa, il taciturno Filippo cambia discorso in maniera goffa e logorroica, reazione che scatena l’epifania di Enzo: «See, dice Enzo e nel momento in cui lo dice si accorge che Filippo non vuole parlare della sua scopata con la tipa, e ha una specie di rivelazione: Non vuole che lei lo sappia—ecco perché cambia discorso e parla così tanto—lui che di solito non parla mai—Biba porcoddio scopa anche con Filippo!» (182).
Ed ecco che, per l’ennesima volta, di fronte alla tensione – qui solo potenziale, ancorché potenzialmente esplosiva –, il movimento scelto da Pecoraro, dal peso specifico e tematico notevole, è l’allontanamento: la brusca schivata, in questo caso, di una scena madre. Enzo, infatti, tace sul fatto ormai compreso, anche se questo farà scaturire in Biba un nuovo flusso di pensieri incontrollati, diretti dallo stallo di GEF verso uno slancio d’amore nei confronti del solo Filippo, che rimangono però inespressi. Così, la vicenda si invola rapidamente verso l’epilogo.
Nella sequenza finale, Biba segue Filippo in mare per nuotare, ma, sola a galla in uno stato di trance, sente di doversi scostare nuovamente da quanto appena dichiarato tra sé e sé nei confronti dell’amico: «Galleggia indisturbata, quasi si addormenta, immaginando Filippo che fila via veloce verso l’azzurro assoluto delle acque profonde. L’amore che fino a poco fa provava per lui si attenua e quasi scompare» (197).
Ciò che ci resta è l’allontanamento metaforico rispetto all’elemento terra: un’immersione di ritorno al primordiale nell’elemento acqua che, assurto a simbolo, ci attira e ci racconta tramite il moto ondoso come, dopo l’avvenuta catastrofe pubblica e individuale, immersi nel Ristagno, l’abbandono inerme dentro di esso sia il solo modo di andare avanti, il solo modo di non scioglierci pur continuando a sudare e a soffrire, in quel periodo, l’estate, che è la sola stagione vera, la sola per la quale abbiamo deciso valga la pena continuare a vivere.
Testi citati:
Laddove non indicato nulla, se non il numero di pagina: Francesco Pecoraro, Solo vera è l’estate, Ponte alle Grazie, Milano, 2023. ↑
*1: Gabriele Pedullà, Postfazione a Francesco Pecoraro, Questa e altre preistorie, Le Lettere, Firenze, 2008, pag. 250. ↑
*2: Questa e altre preistorie, cit., pag. 44. ↑
*3: Francesco Pecoraro, Camere e stanze, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pag. 147. ↑
*4: Filippo La Porta, Ricomporre il disordine. Le cronache dell’apocalisse quotidiana, in I dieci libri dell’anno 2008/2009, a cura di Alfonso Berardinelli, Scheiwiller, Milano, 2009, citato da La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), a cura di Andrea Cortellessa, L’orma, Roma, 2014, pag. 696. ↑
*5 e *6: Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata, 2011, citato da La terra della prosa, cit., pag. 696.*7: Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2018, pag. 374. ↑ ↑