Non cessa di sorprendere come una delle controversie pubbliche delle ultime settimane abbia avuto come protagonista un nonagenario filosofo tedesco, Jürgen Habermas, centrale nella scena europea per oltre sei decenni. Il nostro uomo ha fatto scalpore quando, sulle pagine del quotidiano bavarese Süddeutsche Zeitung, si è espresso a favore dell’opportunità di negoziati di pace tra Ucraina e Russia. E anche se questo è il meno, è significativo come l’argomentazione di Habermas appaia legata a un modo di guardare il mondo che sembra inevitabilmente associato al XX secolo e alla politica dei blocchi in cui l’anziano pensatore tedesco è stato abituato a muoversi: il contesto è destino. Senza andare però troppo lontano, ancora più sorprendente è il rilievo acquisito da Ramón Tamames in Spagna: alla soglia dei novant’anni, l’economista ha difeso in parlamento la mozione di sfiducia presentata da un partito di estrema destra – Vox – contro il governo di Pedro Sánchez, rinverdendo così gli allori conquistati durante quella Transizione democratica in cui battagliò come militante comunista. Ci ritroviamo così in questi mesi, ancora una volta, con la figura dell’intellettuale che abbandona la sua torre d’avorio per partecipare alla contesa pubblica difendendo i propri punti di vista: una lunga schiera che comprende Voltaire, Kant, Mill, Marx, Tocqueville e Dewey, senza dimenticarci dei francesi – Sartre, Camus, Aron – e continuatori d’eccezione come Pier Paolo Pasolini, Christopher Hitchens, Sánchez Ferlosio e tutti quanti.

Il fatto che questi profili siano così diversi l’uno dall’altro suggerisce già la difficoltà di determinare con chiarezza cosa sia esattamente un intellettuale e quale funzione svolga nella società democratica di massa. È un tema a cui ha appena dedicato un’eccellente monografia l’accademico e saggista spagnolo David Jiménez Torres, che, in La palabra ambigua (Taurus, 2022), si interroga sulla traiettoria semantica di un termine – “intellettuale”, appunto – che, non a caso, funge sia da sostantivo che da aggettivo. Jiménez Torres fa luce su questo problema prendendo come base i discorsi sull’intellettuale circolati in Spagna tra il 1889 e il 2019; il suo è un lavoro di genealogia concettuale che fa riferimento all’insegnamento di Reinhardt Koselleck. Questa panoramica storica rende evidente che da più di un secolo continuiamo a dire le stesse cose sugli intellettuali, anche se – lo vedremo poi – la digitalizzazione della sfera pubblica ci suggerisce di dirne anche di nuove.
Jiménez Torres sottolinea la difficoltà di definire l’intellettuale in modo rigoroso, facendo eco alla distinzione di Stefan Collini tra le diverse accezioni della parola: sociologica (coloro che si guadagnano da vivere con attività di carattere intellettuale), soggettiva (interesse disinteressato per questioni intellettuali) e culturale (soggetti autorevoli che rendono giudizi pubblici). Se siamo d’accordo sul fatto che la funzione dell’intellettuale la svolgessero già i philosophes e altri pensatori o letterati che avevano trovato nelle nuove società commerciali e illuminate lo spazio naturale per il la loro attività pubblica, alcuni dei quali erano già intervenuti in varie controversie nel quadro del dispotismo pre-rivoluzionario, ciò che risulta chiaro è che il concetto di intellettuale è piuttosto tardivo: si è generalizzato solo nell’ultimo terzo del XIX secolo. Forse non c’è alcun mistero in questo: la figura dell’intellettuale pubblico è il risultato del progressivo consolidamento delle sfere pubbliche liberali, nonché della loro graduale apertura a una classe media alfabetizzata che trovava nel diritto di voto un ulteriore stimolo a interessarsi a questioni di carattere pubblico. L’intellettuale degli esordi poteva persino diventare un eroe della verità, come testimonia il caso paradigmatico di un Émile Zola che, dopo una battaglia con gli anti-dreifusards, fu canonizzato dalla nascente arte cinematografica: Georges Méliès dedicò all’Affaire un cortometraggio già nel 1899 – il celebre J’accuse era stato pubblicato solo un anno prima – e la Warner Brothers rese lo scrittore protagonista di uno dei suoi biopic degli anni Trenta con Paul Muni nei panni di Zola.
Tuttavia, l’esibizione degli intellettuali liberali, presto guidati in Spagna dall’immancabile Ortega e quasi automaticamente associati al sesso maschile, salve notevoli eccezioni come María Zambrano, fu accompagnata fin dall’inizio da una reazione anti-intellettuale, che Jiménez Torres descrive in dettaglio. E mentre alcuni parlavano di “pseudo-intellettuali” per sottintendere che il problema risiedeva nella natura fraudolenta di coloro che si travestivano da veri e propri intellettuali per promuovere un programma ideologico discutibile, lo stesso Primo de Rivera chiarì già nel 1925 che “prima di essere un intellettuale bisogna essere uno spagnolo”. Olé! Qualcosa di simile lo dirà il primo regime franchista, che attribuì agli intellettuali buona parte della colpa della disintegrazione della Repubblica e dello scoppio della guerra civile. Ma presto sarebbe apparso anche il rovescio della medaglia: nonostante gli intellettuali repubblicani parlassero della Spagna in modo semplice, una parte della sinistra spagnola non concepisce ancora oggi che un intellettuale possa rivendicare di essere spagnolo.
Non sorprende che, come sottolinea Jiménez Torres, gli intellettuali abbiano assunto un ruolo di primo piano durante la Transizione democratica e nel corso dell’egemonia socialista degli anni Ottanta. Essere un intellettuale in quegli anni significava generalmente allinearsi al governo, a meno che non si facesse parte di quegli intellettuali “impegnati” che disdegnavano la modernizzazione sociale in seno alla democrazia liberale e ancora speravano in una sorta di rivoluzione di stampo marxista; senza dimenticare che anche i nazionalismi basco e catalano fecero di tutto fin dall’inizio per costruire una propria classe intellettuale. Proprio in quel periodo iniziarono ad arrivare gli echi del dibattito sulla presunta morte dell’intellettuale, che per molti fu confermata dal fallimento del comunismo sovietico e dalla constatazione che l’alternativa ideologica al capitalismo liberale stava svanendo. Come sottolinea Jiménez Torres, una variante spagnola di questo tema funebre è stata il lamento per il fallimento o la complicità degli intellettuali: sia la crisi finanziaria che il procés [di indipendenza della Catalogna, NdT] sono stati letti sotto questa luce da alcuni analisti, tra cui un Ignacio Sánchez-Cuenca, che denuncia senza mezzi termini l’ “impudenza” di alcuni intellettuali di vecchio stampo, accusati di esprimere le loro opinioni su qualsiasi tema di attualità senza possedere adeguate conoscenze di scienza sociale. Purtroppo, il credito che questa tesi avrebbe potuto accumulare negli anni in cui sembrava esserci un’autentica preoccupazione per la cosiddetta “rigenerazione democratica” del nostro Paese si è esaurito con la mozione di sfiducia che ha portato Pedro Sánchez al potere: l’abbandono delle proposte riformiste non ha suscitato l’indignazione degli esperti, che si sono così dimostrati meno “scientifici” di quanto ci era stato fatto credere.
TIPI DI INTELLETTUALI
A dire il vero, il problema di definire l’intellettuale può essere facilmente risolto individuando l’intellettuale come chiunque si preoccupi della conoscenza a qualsiasi costo. Risolto! Non per niente la questione suscita poca preoccupazione al di fuori della cerchia di coloro che formano questa diffusa “classe” o strato sociale. Tuttavia, non è il caso di banalizzare: gli intellettuali sono presi in considerazione dai decision-makers nell’ambito di una comunità politica e ascoltati – alcuni più di altri – dai cittadini più interessati alla cosa pubblica. Vale quindi la pena di tentare una caratterizzazione dell’intellettuale che funzioni sia dal punto di vista sociologico (ciò che sono alla vista) sia dal punto di vista prescrittivo (ciò che dovrebbero essere dal punto di vista ideale). Lo si può fare in molti modi; proviamo qui ad abbinare il sostantivo “intellettuale” a diversi aggettivi e vediamo cosa ci dice su di loro ciascuna di queste combinazioni.
Parlare di intellettuale pubblico suggerisce un pleonasmo: esiste un altro modo di esserlo? Se un pensatore riflettesse in rigoroso silenzio, riempiendo quaderni in casa senza mai darli alle stampe, difficilmente potremmo definirlo un “intellettuale”. Allo stesso modo, l’intellettuale dovrà affrontare le questioni politicamente rilevanti del suo tempo; se non parla di ciò di cui parlano gli altri, sarà come se non avesse parlato affatto. Altra cosa è che l’intellettuale anticipi i tempi, politicizzando aspetti della realtà – si pensi alle relazioni uomo-animale – che fino ad allora erano considerati di nessuna rilevanza a livello pubblico. D’altra parte, il fatto che l’intellettuale sia pubblico non gli impedisce di utilizzare in modo creativo la sua esperienza privata per difendere i suoi punti di vista: come se scagliasse una freccia oltre la barriera immaginaria che separa la vita personale dalla vita collettiva. Diverso sarebbe se si limitasse a raccontarci la sua vita o se cercasse di trarne conclusioni universali senza il necessario pudore.
Ebbene, abbiamo chiarito che l’intellettuale riservato rappresenta una contraddizione: chi tace non dice nulla, anche nel caso in cui, nella quiete della propria casa, sia in grado di produrre pensieri e persino di darvi forma scritta. L’intellettuale vuole esercitare un’influenza sull’opinione pubblica e sulle élite decisionali. Per questo non si limita a esprimersi apertamente sui media, ma partecipa anche a forum della società civile e accetta inviti privati. Ma ciò che interessa qui è l’intellettuale come figura pubblica, che, in quanto tale, presuppone un’attività orale e/o scritta attraverso i canali disponibili al momento. Senza la visibilità data da questa presenza pubblica, l’intellettuale difficilmente potrebbe aspirare a comportarsi – per dirla con Hugo de Flaubert – come “l’intelligenza guida” della sua società.
Ha senso parlare di intellettuale esperto, o questo ipotetico centauro non sarebbe nemmeno in grado di fare un passo senza inciampare? Non è chiaro: è tanto raro l’intellettuale privo di alcuna specializzazione quanto quello che si limita a disquisire esclusivamente di ciò che conosce a menadito. La maggior parte degli esperti non sono intellettuali pubblici, e la maggior parte, ancora, intervengono nel dibattito pubblico solo quando il loro argomento diventa di attualità. Ma se dovessimo applicare pedissequamente il principio che solo gli specialisti possono parlare pubblicamente, non ci sarebbero più intellettuali: solo “esperti”. Nel bene e nel male, l’intellettuale produce qualcosa di diverso: piuttosto che presentare diagnosi di ordine “scientifico”, offre giudizi fondati che hanno una base di conoscenza e che tuttavia rifuggono dallo stile comunicativo dell’accademia al fine di risultare accessibili al pubblico. Contrariamente alla neutralità rivendicata per l’esperto, l’intellettuale non si sottrae poi alla prescrizione morale: anche se potrebbe limitarsi ad analizzare fatti o argomenti, fornendo così strumenti di comprensione ai cittadini interessati a formarsi un proprio giudizio secondo l’ideale weberiano dello scienziato, in generale valuta fatti o argomenti. Ed è questo che gli permette di avere “followers” nel senso pieno del termine! C’è però un rischio: che l’intellettuale riservi le sue parole solo per i grandi fini morali e si carichi di ragione senza ascoltarne altre, diventando un predicatore letterario. Ma è innegabile che anche questa sia una chiave del successo.
Arriviamo così alla nozione di intellettuale impegnato che ha avuto tanto successo nel corso del XX secolo: l’intellettuale che dedicava i suoi sforzi nella sfera pubblica alla difesa di una società senza classi secondo i parametri del marxismo. Si tratta di un’osservazione storica: gli intellettuali liberali, tradizionalmente, non sono considerati “impegnati”; e ciò a prescindere da quanto possano effettivamente esserlo, come ad esempio Raymond Aron. Dei conservatori si dubita addirittura che abbiano qualcosa da dire. Ma l’intellettuale impegnato, così come è stato inteso nella nostra tradizione, è un ossimoro: l’adesione incondizionata a un credo ideologico ostacola la ricerca di un verità pura, l’unico compito a cui l’intellettuale degno di questo nome dovrebbe dedicarsi. E poiché l’intellettuale impegnato vive dell’attenzione che gli viene prestata dai cittadini a loro volta impegnati, la sua disponibilità a cambiare di opinione o a mettere in discussione le proprie convinzioni sarà ancora minore del solito; il suo primo impegno sarà infatti verso il pubblico che lo segue.
Mi sembra che quest’ultimo sia un fattore determinante per comprendere l’intellettuale nel terzo decennio del XXI secolo. Sebbene Jiménez Torres abbia ragione quando afferma che è quasi impossibile definirlo e caratterizzarlo in modo rigoroso, tanto diverse sono le sue manifestazioni e tanto variegati i discorsi che si articolano intorno a questa figura, dobbiamo ricordare che l’intellettuale è – ridotto ai minimi termini – un pensatore che parla per il pubblico. In altre parole: un tipo di operatore sociale che compare contemporaneamente alla sfera pubblica agli albori dell’Illuminismo europeo e vi acquisisce un valore speciale per la lucidità che si suppone abbia nel valutare gli affari pubblici e nel riorientare le comunità umane verso il progresso. L’atto di nascita dell’intellettuale indica che la società di cui fa parte intende governarsi razionalmente, ed egli stesso diventa il rappresentante laico di una ragione trascendente: da Hegel a Marx e da lì al primo Fukuyama. Una volta che la storia è diventata lo spazio in cui gli esseri umani mettono in pratica i dettami della ragione nel lungo viaggio verso l’utopia, sono necessari interpreti qualificati della razionalità del reale: per educare le masse e per dare consiglio ai governanti. Si pensi a Sartre, che imbraccia un megafono per stabilire il corretto corso degli eventi nella Parigi del Sessantotto, o a Mao che elimina gli intermediari e scrive da solo il libro rosso che metterà – più o meno – in pratica.
L’INTELLETTUALE DEL FUTURO
Era inevitabile che il XX secolo minasse la fede nel progresso lineare e inesorabile delle società umane, nonostante l’equivoco suscitato da Fukuyama con la sua tesi sulla fine democratica della storia. Anche se si potrebbe sospettare che i primi a perdersi d’animo non siano stati gli scettici illuminati, che non hanno mai perso di vista la necessità di dare tempo al tempo, ma coloro che hanno riposto la loro fede in escatologie secolari di stampo marxista: stabilito che la rivoluzione o si era rivelata impossibile o non portava da nessuna parte – Cuba – come si poteva continuare a credere in un progresso diretto dalla ragione? Gli intellettuali non possono più condurre la vita entusiasmante dei loro predecessori: Jünger, Koestler, Malraux, Lanzmann. Sono uomini d’azione che hanno invaso la Francia, intervistato Mao, sorvolato l’Europa in dirigibile o smascherato vecchi nazisti; il massimo che ci resta oggi sono i viaggi dell’instancabile Bernard-Henri Lévy, che potrebbe ancora essere rimproverato per la quantità di CO2 emessa durante i suoi spostamenti.
Se la ragione non è più una forza trascendente, l’intellettuale vedrà necessariamente ridotta la sua statura: non è più un colosso che fa la storia, ma un semplice produttore di interpretazioni sul senso del mondo. È ovvio che si tratta di una funzione indubbiamente utile, il cui inconveniente consiste nel solo fatto di annoiare il pubblico. Lo ha sottolineato, a metà del secondo dopoguerra, Joseph Schumpeter, che nella prefazione alla seconda edizione di Capitalismo, socialismo, democrazia afferma che il suo scopo è quello di far riflettere il lettore e spiega che a tal fine “era essenziale non distogliere la sua attenzione discutendo di ciò che ’si dovrebbe fare al riguardo’, cosa che avrebbe monopolizzato il suo interesse”. Ma Schumpeter sta indirettamente indicando le ragioni per cui l’intellettuale non può morire: né i membri della società di massa hanno perso il gusto per le prescrizioni normative, né le ideologie hanno smesso di inviare messaggi sul cambiamento sociale radicale che avrebbero portato se ne avessero avuto la possibilità. Per dirla diversamente, ciò di cui ci piace di più parlare è cosa si dovrebbe fare, e i politici e gli intellettuali competono ferocemente su questo terreno. Ecco perché ci sono alcuni – intellettuali – che si dedicano con maggiore o minore successo a proporre modi di vita alternativi (quelli pastorali di Byung Chul-Han), mentre altri si fanno portavoce di dottrine politiche con ambizioni totalizzanti (gli apostoli della decrescita), e persino il femminismo ha finito per essere – in alcune sue versioni – un progetto di “superamento” del capitalismo. E, naturalmente, l’intellettuale che si mette al servizio di un governo o di un partito per garantire – attraverso un’opera di magniloquenza morale – la continuità del proprio reddito continua a godere di ottima salute. Naturalmente, c’è una cosa che li accomuna tutti: il desiderio che si dia loro ascolto.
Non sorprende che un intellettuale senza pubblico sia come l’albero che cade nel proverbiale dilemma filosofico: nessuno sa se stia pensando o meno. In quanto attore che opera nella sfera pubblica delle democrazie, l’intellettuale è obbligato a rivolgersi al pubblico per creare un’audience la cui dimensione e composizione varia a seconda dei casi. Dubito che esista una contrapposizione tra i seguaci di Marina Garcés e di José Antonio Marina, per esempio, o che si possa confrontare la base giovanile di Ernesto Castro con l’età media più avanzata dei lettori di Adela Cortina o di Manuel Cruz; persino nel piccolo spazio dell’intellighenzia ispanofona, gli esempi sono innumerevoli. E anche se esistono vasi comunicanti tra diverse comunità di destinatari, così come figure capaci di attrarre un pubblico eterogeneo, i compartimenti stagni restano la norma. Per quanto si parli della opinione pubblica, non esiste un solo pubblico, ma molti pubblici in costante processo di ricomposizione. La sfera pubblica è quindi un ecosistema eterogeneo dove regna una feroce competizione per la più preziosa delle risorse: l’attenzione di chi vi prende parte.
Si dà il caso che la sfera pubblica sia cambiata molto negli ultimi due decenni, con un forte impatto sull’attività dell’intellettuale. A prima vista, essi continuano a fare le stesse cose di sempre: presentare libri, rilasciare interviste, tenere conferenze, scrivere sui giornali. E sebbene non siano obbligati ad essere attivi sui social network, non c’è dubbio che i social network siano oggi un’arena decisiva per la formazione dell’opinione e la diffusione delle idee. Per gli aspiranti intellettuali, del resto, le reti nella loro accezione più ampia – da Twitter a Instagram – sono un dono: è lì che si può tentare la fortuna come creatori di contenuti, per poi magari ricevere la chiamata da un mezzo di comunicazione o da una casa editrice. In altre parole: se qualcuno si è autonomamente creato un proprio pubblico, l’industria culturale cercherà di approfittarne. Da questo punto di vista, il fenomeno della disintermediazione ha avvantaggiato soprattutto l’establishment intellettuale: nella sfera pubblica digitale, i gatti, si sa, sono tutti bigi, ed è più difficile distinguere il troll raffinato dall’intellettuale classico, per non parlare di quest’ultimo dallo scienziato sociale al soldo del governo.
In contrasto con i discorsi che insistono sul superamento della figura dell’intellettuale, tuttavia, dobbiamo prestare attenzione alla realtà che abbiamo davanti: la digitalizzazione della sfera pubblica non ha livellato le gerarchie come alcuni ingenui avevano previsto. Ci sono ancora figure di spicco che pubblicano in posti di rilievo, senza che tale rilievo sia necessariamente associato alla qualità o all’interesse di ciò che fanno. È vero che il panorama circostante è più variegato che in passato: non sono pochi i tweeter o gli youtuber che rivendicano per sé lo status di intellettuali, dediti come sono a commentare l’attualità o a disquisire pubblicamente delle loro letture. E c’è anche un pubblico – un certo pubblico – che fa valutazioni su ciò che gli intellettuali dicono in pubblico; questi stessi utenti scelgono personalmente i contenuti che più li interessano invece di riceverli passivamente, il che apre la possibilità a tutti di trovare i propri intellettuali al di fuori della lista ufficiale che raccoglie quelli consolidati all’interno di ogni sistema mediatico.
CONTRADDIRE I PROPRI
Possiamo discutere fino alla nausea se il polidialogo in corso sia o meno preferibile alla vecchia sfera pubblica, che ruotava attorno al predominio dei mass media tradizionali: alcuni vedono la cacofonia, altri la pluralità, anche se nulla ci impedisce di riconoscere che le due cose possono accadere contemporaneamente. Ma se i punti di riferimento non sono scomparsi sotto il mantello del famigerato anonimato partecipativo, è perché abbiamo bisogno di temi e personaggi per organizzare la conversazione: se ognuno parlasse di una cosa diversa, finiremmo per non parlare affatto. D’altra parte, il carisma conta ancora: c’è tuttora chi fa di tutto per conquistare un piedistallo e finisce per farcela. A ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte dei cittadini preferisce recepire l’opinione espressa da un “opinion maker” piuttosto che prendersi il tempo di formarne una propria.
Ci troviamo quindi in un panorama contraddittorio in cui l’intellettuale sopravvive senza troppe difficoltà, anche se in molte occasioni è stato dato per morto. Ha perso la sua aura sacerdotale e si trova a operare in un mercato più competitivo, caratterizzato dalla relativa frammentazione del pubblico e dalla moltiplicazione dei canali di diffusione, nonché da una maggiore interattività nei rapporti con seguaci e detrattori. Ma una cosa non cambia: chi si è costruito un pubblico farà di tutto per mantenerlo. E, come si è visto con alcuni media digitali la cui salute finanziaria dipende dalla felicità dei loro abbonati, il legame con la fanbase può creare una dipendenza schiavizzante. Se l’intellettuale non vuole perdere la sua posizione, oserà pensare liberamente, a rischio di inimicarsi coloro che lo seguono? Pensare liberamente significa rifiutarsi di prevedere gli effetti di ciò che si ha da dire sul proprio pubblico, tanto meno sui giornali che lo pagano – se è il caso – o sul proprio gruppo di amici. È una logica perversa: se si è guadagnato prestigio mantenendo una certa linea teorica o ideologica, abbandonarla può avere effetti deleteri, allontanando coloro che si era riusciti ad attrarre in un primo momento, senza che nulla garantisca un correlativo guadagno da un altro bacino di utenza.
Si può ben dire, quindi, che la disponibilità a infastidire il proprio pubblico sarà il segno distintivo dell’intellettuale autentico. Ma attenti: non si tratta di abbracciare l’incoerenza, saltando da Mao a Hayek nella stessa settimana e unendosi alle file del nativismo in quella successiva; il trasformismo risponde al temperamento piuttosto che alla riflessione. Piuttosto che contrapporre i tipi ideali del libero pensatore incorruttibile e dell’intellettuale organico, dovremmo pensare a una gradazione dalla completa servitù alla rara libertà. Non si tratta di rimproverare all’intellettuale di fermarsi a pensare all’effetto che potrebbe avere ciò che vuole dire; questa operazione è consigliabile quando si decide come presentare un argomento o difendere un’idea. Ma smettere di pensare liberamente per mantenere un pubblico stabile rappresenta la perversione dell’intellettuale, anche se è, in una certa misura, una perversione inevitabile. E non solo perché nessuno vuole trovarsi improvvisamente a parlare a una platea vuota, ma anche perché il pubblico tende a punire le deviazioni dei suoi intellettuali di riferimento se queste contrastano con l’adesione partitica o con preferenze ideologiche con forti radici emotive. Ecco un’amara verità: il primo demagogo è il pubblico.
Insomma, la parola “intellettuale” è ambigua – come dimostra Jiménez Torres – perché sono ambigue anche la figura dell’intellettuale e la sua prassi. Potrebbe essere altrimenti? Rivolgersi al pubblico è un’attività peculiare, che mal si concilia con l’ideale di raccoglimento associato al pensatore nella tradizione classica. Le contaminazioni del mondo secolare sono frequenti – rimanere fedeli al partito, diventare alla moda, ottenere una rubrica – e la ricerca della verità non è sempre la cosa più importante; può persino essere più comodo non crederci. Proprio per questo la sfera pubblica delle società liberali non concede a nessuno il diritto di avere l’ultima parola, ma al contrario incoraggia una pluralità cacofonica che nuoce al rigore e al beneficio della libertà. È in questo campo che dovrà cimentarsi l’intellettuale contemporaneo, che non avrà privilegi se non quelli che può guadagnarsi dicendo cose interessanti, utili o semplicemente seducenti. E anche se non sarà possibile impedire a molti di avere successo con i moralismi o la demagogia, non resterà che compatire coloro che continueranno a considerarsi i portavoce ufficiali della ragione universale: questo secolo non permette tali manie di grandezza.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Letras Libres ed è stato tradotto in italiano da Francesco Maletto per Galápagos. Tutti i diritti sono riservati. La traduzione e la pubblicazione sono avvenute con il consenso della rivista Letras Libres e dell’autore Manuel Arias Maldonado.