Invasione

o della mutevolezza delle idee e delle forme

In un caldissimo martedì 22 luglio mi sono accorta che a Milano erano rimaste soltanto puttane. Uscita dal portone in via Lecco, la percorro per raggiungere via San Gregorio dove è la casa in cui ci stiamo trasferendo. Mentre cammino lungo la via, guardando le persone che sono sedute ai bar – che in seguito alla pandemia hanno iniziato ad avere tutti i tavolini all’aperto, così che in Porta Venezia è diventato impossibile parcheggiare – mi accorgo che ci sono soltanto prostitute.  Dalgo mi aspetta nel nuovo appartamento, dove sta seguendo gli ultimi lavori, io ero a casa vecchia perché stroncata dai postumi della sbronza di ieri sera dovevo solo riposare e non sarei stata utile per altro. Ieri, infatti, abbiamo invitato i nostri amici a vedere la casa nuova, nonostante ci siano solo sei sedie, un tavolo e un vecchio divano. Ma finché i nostri amici non avessero visto la casa non sarebbe mai diventata davvero la nostra casa. E così sono venuti nonostante la paura del tutto fuori controllo che ha Gregor del Covid e il rischio di farli mangiare in casa fosse agli occhi di Dalgo altissimo data la sua paura del tutto fuori controllo delle blatte: si potevano generare delle molliche, e quelle molliche avrebbero potuto attrarre le blatte. Lui ne aveva già trovate due morte e questa cosa lo aveva gettato nel totale scompiglio.

Fatto sta che io avevo bevuto troppo e ho dunque passato il pomeriggio, senza alcuna pretesa di produttività, sdraiata a letto a vedere una serie adolescenziale di successo e di pochissimo valore, ma che ha generato in me un certo e profondo turbamento. Ha infatti riportato la mia attenzione al mio passato, alla mia adolescenza, ricordandomi ciò che da tempo ho notato e contro cui cerco di combattere: la perdita irrimediabile della memoria. Sto iniziando a non ricordare più nulla. Nulla dei primi amori, di quegli eccitamenti, della disperazione, dei segreti, dei dettagli di quella che era la mia vita prima che diventasse la mia vita attuale. Eppure fino a qualche tempo fa ricordavo ogni cosa, e mi sentivo così vicina alle vicende del mio passato. Ho sempre creduto che non avrei dimenticato, che i genitori non comprendono i figli perché non hanno vissuto le loro stesse esperienze e non perché dimenticano, e invece sto dimenticando. Forse proprio quel bagaglio di esperienze così ricco, nella sua sregolatezza, sta rendendo difficile alla mia memoria trattenere ciò che è successo e come l’ho vissuto. 

Mentre vedevo i ragazzi del telefilm fuggire in case al lago per assecondare un’eccitazione, un desiderio di interezza, che ricordavo esattamente di aver provato, ricordavo di essere anch’io fuggita, di aver detto piccole bugie ai miei genitori, tutto nel segno del clitoride: ma dove mi ero nascosta? E con chi? Ripercorro mentalmente le case dei miei amici, le case di vacanza che so esistere davvero: ma quanto viene dalla memoria e quanto da ciò che è rimasto come grottesca rappresentazione di un momento sulle nostre bacheche di Facebook? Sto percorrendo a menadito il filo conservato dei fatti del passato quando mi accorgo che ormai le puttane sono ovunque. 

Un po’ inquietata, ma neanche troppo, raggiungo via San Gregorio. Dalgo è in cortile per non infastidire i tre ragazzi che stanno stuccando le parenti e coprendo i segni dei bambini dei precedenti inquilini. 

“Ne hanno trovato un altro”, mi dice.

“Un altro di cosa?”, gli chiedo anche se già lo so.

“Un altro scarafaggio. Era enorme amore: marrone, non nero. Se sono marroni significa che si riproducono più in fretta”.

“Io invece ho avuto come l’impressione che a Milano a luglio ci siano solo puttane”.

“Dobbiamo chiudere tutte le fessure con lo stucco”.

“Lo faremo, amore, te lo prometto”.

“Comunque se ieri sera non mi dicevate che era uno scherzo, e io trovavo uno dei quei cosi in giro per casa, mi prendeva un colpo. Morivo davvero”.

Dalgo si sta riferendo allo scherzo che gli hanno fatto ieri sera i nostri amici. Consci del suo terrore degli insetti e ritenendo questo fatto un’opportunità irrinunciabile per fare un bello scherzo, hanno comprato un pacco di insetti di plastica. Erano animaletti lunghi dieci centimetri e larghi cinque, del tutto inverosimili. Quando Dalgo è sceso per andare a prendere le pizze li abbiamo nascosti in vari punti della casa. Il loro piano era questo: quei mostri dovevano rimanere nei loro nascondigli potenzialmente per giorni, in attesa che Dalgo li trovasse. Ma poi, io per prima, e di seguito tutti gli altri, abbiamo pensato che sebbene quegli insetti fossero del tutto inverosimili, avrebbero potuto comunque spaventarlo troppo, così lo abbiamo avvisato delle trappole disseminate per la casa.

“Il magico mondo degli insetti, così si chiamava la confezione”, ha detto Gregor, un po’ afflitto che lo scherzo non fosse andato come voleva lui. 

Veniamo interrotti da Morgan che ci avvisa che i lavori sono finiti e loro se ne stanno andando. Saliamo finalmente in casa con le pareti bianchissime. L’animo è leggero, siamo entrambi molto felici. Tutto procede per il meglio fin quando io armeggiando sul balcone faccio cadere il cesto con le mollette sul terrazzo di sotto. Subito entro in casa agitata e incerta sul da farsi. Ne parlo anche a Dalgo: dobbiamo forse avvisare gli inquilini del primo piano? Facciamo finta di niente? 

Non facciamo in tempo a prendere una decisione che qualcuno suona alla porta. Timorosa vado ad aprire e mi appare davanti una donna, sembra venuta da qualche luogo lontano, ha i fianchi larghi e i capelli stopposi, indossa un tubino fucsia e ha una sigaretta in mano. Capisco subito che è una puttana e che è infuriata.

“Lei è la nuova inquilina?”

“Sì… sì sono io. Oddio, insomma, siamo noi. Lui è mio marito”, mi volto verso Dalgo che mi guarda terrorizzato.

“Allora insomma, se le cadono le cose sul mio terrazzo lei deve venire subito a dirmelo! Io ho quattro figli, un sacco di nipoti che vivono con me. E se uno di questi bambini ingoia per sbaglio una delle schifezze che lei lancia sul mio terrazzo come fosse una discarica?”

“Be’… Mi scusi ma non le volevo lanciare. Sono cadute per sbaglio.” Dentro di me mi rassereno: ha parlato di bambini, ottimo. Allora non ci sono solo prostitute a Milano. Improvvisamente mi sento molto meglio.

“Per sbaglio? Ah! Lo so come siete fatti voi giovani, siete degli strafottenti!” Mi fissa e getta la cenere proprio sopra il mio tappetino, “Non avete educazione!”.

“Mi scusi signora, ma i suoi figli ora sono qui a Milano?”

“Cosa c’entra se sono o non sono qui a Milano?”

Ha ragione, cosa c’entra? Ma io devo confermare o smentire la mia teoria sulle puttane e quindi devo insistere.

“Così per curiosità, sa ci piaceva presentarci a tutti i condomini.”

“Ah! Non ci sono, sono tutti al mare. E buona fortuna: sono tutti al mare. Chi vuole che resti a luglio a Milano?”

Ora il terrore mi invade davvero. La sensazione avuta poche ore prima in strada trova conferma, e inoltre non ho avuto questa impressione per la prima volta oggi. 

Qualche giorno fa ero alla X, il mio supermercato preferito in assoluto al mondo. Fatto il solito giro, in cui non compro quasi nulla e che faccio per puro piacere, mi sono diretta verso le casse con il carrello pieno di cazzate. Vado dritta alla cassa numero quattro dove in genere trovo il mio cassiere di fiducia, gentilissimo, veloce, con gli occhi pieni di cocaina. Dalgo mi aveva fatto notare che era in assoluto il miglior cassiere che potessi scegliere e aveva ragione. Trovarsi faccia a faccia con i suoi occhi chiari, quasi trasparenti, pieni di terrore, è quanto di più rassicurante si possa avere in una città confusa come Milano. Anche gli stessi assidui frequentatori di Via Melzo, da Paolo del Picchio ai vari poeti che vi abitano, spingendo la loro esistenza sulla caratterizzazione precisa di un’individualità forte, non danno alcun conforto di consuetudine, sebbene si possa sempre contare sulla loro apparizione.

Fatto sta che quel giorno, alla cassa numero quattro, lui non c’era. Alla cassa c’era una donna con la pelle giallastra, lo sguardo spento. Il trucco pensante sugli zigomi e la matita nera per provare a tenere insieme gli occhi cadenti. I denti gialli e alle dita degli anelli vistosi. Poi al polso la traccia di un tatuaggio sbiadito, forse un cuore trafitto, forse un cupido. L’ombretto azzurro e brillante. E le unghie lunghe e finte, che mi guardava annoiata, chiamandomi amore e masticando una cicca. Aveva una stranezza indecifrabile. Già lì, dopo aver comprato, come nei migliori thriller americani, scotch e sacchi neri della spazzatura, birra e candele di citronella, avevo percepito che a Milano stava succedendo qualcosa a cui non avevo mai assistito. E per un attimo nella luce spenta degli occhi di quella donna mi era sembrato di riconoscere gli occhi del ragazzo della cassa quattro.

Quei sacchi che avevo comprato, per parlare ancora di memoria e di passato, non servivano per un cadavere umano, ma li avrei riempiti dei pezzi del cadavere della casa dove avevamo vissuto gli ultimi cinque anni della nostra vita. La casa dove era successo tutto per la prima volta, e dove tutto era cambiato. Quarantacinque metri quadri dopo i quali o Porta Venezia o la vita, dopo i quali nessuna città era possibile al di fuori di Milano. Eppure, non avevo mai visto Milano il 22 luglio, e non sapevo che si sarebbe riempita di puttane.

“Ce ne dobbiamo andare, ho paura. Potresti diventare una puttana anche tu”. Dico a Dalgo dopo aver chiuso la porta quasi in faccia alla prostituta.

“Hai visto quella lì? Quella non si lava da mesi, ecco perché abbiamo la casa piena di blatte. Ho capito. È più grave di quanto sembra Berenice, vengono da dentro non da fuori”.

“Una blatta. Perché continui a dire che abbiamo la casa infestata dalle blatte? Una blatta abbiamo trovato. Solo una”.

“E una l’ha trovata il tipo delle pulizie. Dobbiamo smontare la cucina, chiamare Morgan, e fargli stuccare tutte le fessure del pavimento. Le blatte bisogna fermarle finché si è in tempo”. 

Mentre parla con me vedo che scrive qualcosa al cellulare. Alterna: la ricerca dei prodotti più avanzati per il genocidio degli scarafaggi e messaggi a nostri amici che hanno avuto una volta una blatta in cucina e ci hanno mandato una foto, e ora ci dispensano un sacco di consigli. Lui queste cose le ricorda perché è terrorizzato dalle blatte come io sono terrorizzata dagli aerei, dal lavoro a tempo indeterminato e da tante altre cose. La lista delle cose che mi terrorizzano mi terrorizza, ma non ho paura degli scarafaggi perché sono cresciuta in campagna.

“Quando vivevo a Urbino dovevi vedere cosa trovavamo in cucina. Ogni estate c’era l’invasione delle locuste. Ce n’erano centinaia sui davanzali delle nostre finestre. Giuditta ci gettava sopra l’alcol e poi gli dava fuoco con l’accendino”.

Lo faceva davvero: la visualizzo quando mezza nuda per il caldo giocava alla piccola piromane sui davanzali della casa di Paolo Uccello. “Berenice”, mi diceva, “basta che li bruci”, ma io ero sempre troppo sfatta. Le chiedevo acqua e biscotti e poi vomitavo nel water. Mi buttavo in doccia e dopo tre minuti ero di nuovo tutta sudata, perché a luglio a Urbino si muore di caldo alcuni anni. Il mio secondo anno di università si moriva, mancava l’aria. Avevamo mezzo metro di vasca in casa, una cosa minuscola. Eppure quando le altre non c’erano passavo tutto il tempo là dentro, a guardare il soffitto.

“Le locuste non sono la stessa cosa degli scarafaggi. Gli scarafaggi e le blatte fanno davvero schifo”.

“Ma scarafaggi e blatte sono la stessa cosa”.

“Io capisco la tua posizione, non voglio dire che non la capisco. C’è tanta gente che dorme tranquilla anche se sa che la notte nella sua cucina si aggirano le blatte, perché tanto non le vede. Ma io no: io ho questa fobia. Me l’ha attaccata mia madre”.

Mentre parla mi sembra che le sue ciglia diventino più lunghe e che la sua bocca si faccia più rosea e carnosa. Sono proprio io uno di quei personaggi dei film dell’orrore che non scappano quando sono ancora in tempo?

Non sarò io quel personaggio.

“Senti amore io credo che a Milano a luglio ci siano solo puttane, forse assassine. E se restiamo qui, se ora restiamo, lo diventeremo anche noi. Sicuro al cento per cento”.

“Non è a Milano. A Porta Venezia, solo qui.”

Usciamo in strada e si schianta di caldo.

“Perché non parli più?”

“Ma se parlo sempre. Sto uccisa dal caldo. Non posso fare questo trasloco ora. È troppo caldo amore. Sono 35 gradi. Ci sono le blatte perché ci sono 35 gradi di merda.” Ora faccio una cosa che faccio sempre perché so che gli piace: prendo il cellulare e leggo il meteo delle città che amiamo.

“Amore: a Vienna 22 gradi!

A Berlino: 21 gradi!

Pensa che scialo. 

A Ischia, 28 gradi. E domani piove anche! Ah che bello sarebbe stare a Ischia con la pioggia”.

“Guarda non me lo dire”.

Intanto tutti i sushi “all you can eat” in cui proviamo a trovare posto per mangiare sono pieni. E tutti i tavoli sono pieni di puttane che ci osservano minacciose. 

Forse il mio problema con la memoria dipende dal fatto che all’università fumavo le canne. E anche al liceo un po’. Forse. O forse dipende dal fatto che ho smesso di scrivere ogni cosa.

Ad esempio le poesie: ne scrivo poche. Un po’ perché sto dentro alla vita che vivo, e ho imparato che non ho il diritto di strumentalizzare le cose, le persone e soprattutto me stessa. Utilizzare la vita per scrivere. Un po’ perché vivendo a Milano vedo poco spesso il cielo e il tramonto. Però in questa casa nuova si vede un botto di cielo e anche il tramonto, quindi chissà. Fatto sta che non ricordo più nulla, e anche il passato che fino a poco tempo fa ricordavo, non lo ricordo più. Svanito. Però questa cosa delle puttane a Milano la voglio scrivere: così mi ricorderò tutto. Il caldo, il nostro primo trasloco. Via Lecco così com’è piena di vita. 

“Mi sa che non troviamo un cazzo di posto”, mi dice mio marito.

“Mi sa di no”.

“Oggi chi sei Berenice o David?”

“Oggi non so chi sono. È troppo caldo. E credo che Milano sia piena di puttane”.

Passiamo davanti ai poster giganti per Raffaella Carrà. Ai soliti bar di Via Lecco e ci beviamo una birra fredda al Red Caffè. 

Ci siamo rilassati, abbiamo quasi dimenticato le reciproche preoccupazioni quando a Dalgo squilla il cellulare: è Gregor, il nostro amico che ha paura del Covid. Allarmato dalla chiamata – perché avrà chiamato? Avrà forse saputo qualcosa in merito alle blatte? Forse tutta Milano è infestata dal terribile morbo? – mette il telefono in vivavoce. Ed eccola subito la voce del nostro amico: “Avete sentito cos’è successo ad Adone?”, ci chiede. Noi ci guardiamo: no non abbiamo saputo nulla. “Ma come è possibile? Ne stanno parlando tutti i giornali.” Tutti i giornali stanno parlando di qualcosa successo al nostro amico Adone? Com’è possibile? Ma soprattutto: cos’è successo? Niente, stava portando a spasso il cane in via Padova quando all’improvviso alzando gli occhi al cielo per controllare se avrebbe piovuto o no, ha visto un oggetto strano, stranissimo. Un oggetto che non aveva mai visto prima. Ha subito allertato gli altri passanti: “Guardate! Sono gli alieni”. Ma gli altri non sembravano vedere nulla di strano. Dopo un po’ hanno iniziato a burlarsi di lui, ma lui insisteva perché lo vedeva chiaramente quell’oggetto davanti ai suoi occhi. Lungo, dalla forma fallica, due ali e una coda, che si librava alto nel cielo. “Ma Gregor, stai forse dicendo che Adone ha visto un areoplano?” “Esatto, era proprio un areoplano. Potete crederci? Un aeroplano passava sopra il cielo di via Padova in un giorno qualsiasi di luglio. Non è domenica oggi, e non è neppure settembre, eppure era lì, amici. Adone mi ha raccontato tutto: era bellissimo, fiammante e dentro, voi non ci crederete mai, ci saranno state almeno cinquanta persone. Tutte chiuse lì dentro. Allora Adone si è spogliato, come preso da un’illuminazione, e si è sdraiato a terra. Nudo. E ora ne parlano tutti i giornali.”

Io e Dalgo siamo sconvolti: un aeroplano a luglio? È davvero assurdo, Milano diventa secondo dopo secondo sempre più pericolosa, più surreale. Nella telefonata Gregor, che si era aggiudicato quest’anno il premio “Il più disturbat*” elargito dalla Regina di Milano Nord, madre dei cani e discendente da una violenta stirpe di crociati che avevano provato tempo addietro a salvare l’Occidente dalla deriva morale a cui era destinato, ci dice che ci raggiungerà di lì a breve, ma noi sappiamo che quel “fra poco” può significare fra ore. Comunque ci mettiamo ad aspettarlo: l’inquietudine ci è tornata addosso. 

È una cosa strana l’inquietudine, è invisibile, e spesso non si capisce a cosa sia attribuibile. Ci sono dei luoghi, dei momenti, delle persone che generano in noi inquietudine, in noi e non in altri, in noi e non sappiamo perché. Come Adone, solo in un caldissimo pomeriggio di luglio in via Padova, aveva sentito il peso, il dramma, di quell’aeroplano che, insensibile alle problematiche del nostro tempo, sfrecciava in cielo portando almeno cinquanta persone verso luoghi vacanzieri. Paradisi tropicali, o paradisi per la piccola borghesia occidentale, neanche troppo belli, che danno però l’impressione fallace di avere il controllo sulla propria vita. Proliferano le compagnie low cost, si moltiplicano i siti che confrontano le offerte per permetterci di fare la vacanza più conveniente, cresce l’etica del lavoro e lo sfruttamento del lavoro che rendono le vacanze sempre meno accessibili e sempre più desiderabili. E allora, di fronte all’evidenza di tutto questo, cos’altro avrebbe potuto fare Adone se non spogliarsi nudo e sdraiarsi a terra?

La notte nel vecchio appartamento è davvero troppo caldo. Dalgo, al sicuro dalle blatte, dorme serenamente. Io torno a indagare i pezzi perduti della memoria. Forse questa progressiva dimenticanza è associabile alla presa di consapevolezza che nel tempo e nell’arco della vita umana non c’è una continuità, né una direzione, né una coerenza: e allora a che serve ricordare? Forse è necessario iniziare a capire che non è più il momento per le nostre piccole vicende private, per la glorificazione delle vite comuni in cui sguazzano i romanzieri contemporanei. Affermare di aver amato e di essere stati amati non è più sufficiente in un mondo che ha esaurito irrimediabilmente le sue risorse. Ci si può solo sentire come Adone, smettere di cercare di ricordare, e piuttosto dimenticare quei bambini che volano verso mete tropicali e verso le loro vite mediocri, mentre altri bambini, a cui l’Occidente non pensa, se ne stanno nelle piscine pubbliche di Milano, e altri ancora più lontani dal nostro pensiero rovistano nelle discariche e frugano con le dita nella terra per estrarre il cobalto che ci serve, oh come ci serve, per glorificare le nostre vite mediocri attraverso i nostri cellulari, per tenere in ostaggio gli altri all’interno della logica del sempre reperibile. Come Adone spogliarsi nudi allora, a luglio, in via Padova, mentre nella città tutti si stanno trasformando in prostitute, anche se nessuno mi crede, mentre la generazione che ci ha consegnato questo mondo devastato, al fresco con i suoi condizionatori, posta immagini della Madonna su Facebook e scrive: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

Il primo bacio? Ce l’ho.

La prima volta? Ce l’ho. 

Ma sono ricordi o nozioni? 

Sono brandelli.

E allora mi metto a scrivere la storia delle puttane a Milano. Questa non la dimenticherò. E guardo Dalgo che dorme così non lo dimentico. Nella marea dei giorni che passiamo insieme. Penso anche per un po’ a smettere di fumare e al suicidio, e poi fumo. E intanto nel vociare di via Lecco si fa l’alba. Torno a letto. Dalgo si muove e il lenzuolo gli scopre il petto.

Sotto la folta peluria delle ascelle ha due tette enormi.

Il terrore svanisce improvvisamente: è il permanere nello stesso stato, non il mutare, che rende la vita spaventosa.

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