A destra e a sinistra della porta oscillavano palloncini rossi, come grappoli di pendoli rovesciati, che scaldavano a malapena il paesaggio bagnato dell’inverno. Se fossi passato lì di fronte avresti sentito una musica di pianoforte, ovattata e lontana, una melodia molto nota ma impossibile da riconoscere per via dell’ottimo isolamento acustico degli spessi muri di tamponamento, costruiti a regola d’arte dal padrone di casa Luigi Atzori. Se poi fossi entrato, incapace di proseguire per la strada senza prima aver riconosciuto il brano, avresti visto Eleonora di spalle dentro il suo maglione rosso, e in silenzio l’avresti ascoltata suonare e la musica ti sarebbe sembrata perfino più dolce di quella che era, perché appena oltre la soglia ti avrebbe avvolto un tepore di rottura col dicembre che era fuori. Tutto merito dell’isolamento termico a cui Luigi Atzori aveva ambito con tutta la scienza e tutto il cuore che aveva, e che rendeva quella casa così accogliente.

Eleonora suonava per il figlio di sei anni, gli dava le spalle con la faccia piena di pianto, sei anni proprio quel giorno, com’era cresciuto in fretta, mentre aspettavano gli invitati alla festa di compleanno e mentre Luigi era a ristrutturare le case di altra gente.

«Mamma, per che ora hai invitato tutti?»
«Le sei» si interruppe lei per rispondere, senza voltarsi. Il metronomo invece continuava a oscillare e a dar le battute ai respiri dissonanti della mamma e di suo figlio, uno rotto e uno limpido. Dopo qualche secondo in cui le stagioni si alternarono Eleonora si era già ricomposta, fingendo uno sbadiglio, con la scusa di stropicciarsi gli occhi stanchi aveva asciugato le lacrime e il muco nella manica del maglione, e si era finalmente girata a guardare il bambino. In quell’istante si era accorta, lucidamente, che nell’ultimo anno suo figlio era diventato brutto.
«Ti va di suonare una canzone facile facile con la mamma?»
Si trattava di ripetere sempre la stessa nota grave a intervalli regolari, mentre lei si occupava di una melodia tutta azzurra. Andrea, nella superbia infantile di pensarsi utile, assolveva al suo compito per bene. Ma una volta riemerso dall’ipnosi meccanica del gesto aveva iniziato a osservare le mani acquatiche della mamma, a ingelosirsi, a desiderare di impadronirsi dello spazio e di muoversi e sguazzare. In quel suo primo atto di ribellione era evaso dal perimetro del tasto, mandando fuori tempo sia il silenzio che la musica e dando vita a un rumore senza faccia che per lui doveva assomigliare alla libertà. Eleonora era una donna paziente, e con un sorriso benevolo si era fermata, in attesa della fine di quella piccola rivoluzione. Si ricacciava però qualcosa giù per la gola, un po’ come se tentasse con tutte le forze di infilare un tappo alla bottiglia di un prosecco frizzante appena agitato e stappato. Il suono era irritante e lei aveva distolto lo sguardo, ma tutto in salotto si era confuso in un impasto di squarci familiari, quadri e fotografie e tappeti e orologi che la stavano guardando con gli occhi omertosi di un sarcofago. Quando aveva dipinto quel quadro? Dove aveva scattato questa fotografia? Il mare e basta non era più un indizio chiaro. Era prima o dopo essersi trasferita a Is Conis per andare a vivere con Luigi Atzori? Mentre il bambino stava insistendo sui tasti, Eleonora chiuse gli occhi, prese un respiro, e avvertì l’istinto di starnutire. Particelle di calce e di gesso le solleticavano il naso, le pungevano gli occhi, ma il soffitto era intatto e non si riuscivano a vedere crepe o spaccature. Suonarono alla porta che non erano ancora le sei, e il campanello della provvidenza pose fine all’ammutinamento musicale. Il piccolo, euforico per l’inizio della festa, corse alla porta e tentò di aprirla con le braccia tese e i piedi quasi dritti, ma era ancora troppo basso per raggiungere il pomello. Andò la mamma con sollievo e sommessa gratitudine. Mattia, Alessio, Martina, Serena…erano arrivati gli amichetti e si erano introdotti in casa in fila indiana, e ognuno di loro sembrava a Eleonora più bello del suo Andrea, perché avevano la bellezza rassicurante delle cose che non ci riguardano. Poco dopo arrivarono i fratelli di Luigi, le loro mogli, i loro figli, portando con sé pacchetti incartati e sorrisi. I parenti erano tutti acquisiti per Eleonora, perché lei veniva da fuori e la sua famiglia non partecipava alla loro vita tanto quanto quella del marito. Ma tutti l’avevano sempre fatta sentire a casa fin dall’inizio, e lei ne era grata.

«Dai, Nora, suonaci qualcosa» esortavano.

Ma no, non voglio annoiarvi, aveva risposto lei. Se volete potete mettere una playlist, connettetevi alle casse. Che bello, Andre, zia Giusy ti ha regalato un maglione, adesso sai che cosa mettere a Natale. Sei contento? Posso offrirvi un bicchiere di prosecco o aspettiamo che rientri Luigi? Sarà qui a momenti.
«Come va il lavoro, ce n’è?» aveva chiesto zio Mario, che di lavoro parlava volentieri da quando era andato in pensione. Pure troppo, quel bonus 110 per rifare le facciate ha proprio dato una bella spinta all’industria, oltretutto Is Conis è molto più bella adesso, così colorata. Prima era imbarazzante con quei muri tutti scrostati. Luigi è sommerso di lavoro, ha pure preso due ragazzi come apprendisti perché da solo non ce la fa. Non è mica vero che i giovani non hanno voglia di lavorare, quando le condizioni che gli offri sono buone. Luigi li paga dieci euro all’ora, assicurati e tutto, senza contare gli straordinari.

«Eh, magari fossero tutti come lui.»

Mentre gli adulti conversavano amabilmente, i bambini apparivano e riapparivano, percorrevano le stanze della casa in senso orario e antiorario, facevano esplodere i palloncini, inventavano giochi e infastidivano il chihuahua di zia Carla, che abbaiava tremante in tutta la sua impotenza. Andrea aveva deciso di esibirsi di fronte a quella platea con il brano che aveva appena composto, ed erano seguiti elogi e previsioni di un futuro di grande pianista, perché guarda che dita lunghe e sottili, quelle sono le dita di un pianista. Eleonora si era incantata sui capelli unticci del cognato, che aveva la testa e le spalle ricoperte di forfora incolore. In realtà, tutti avevano la testa forforosa e la stanza era piena di polvere, nonostante le pulizie di quella mattina. Il chihuahua fu preso da un attacco di tosse nervosa, ma nessuno sembrò farci caso. Eleonora starnutì due volte, e andò in bagno a sciacquarsi la faccia e a inalare un po’ di Rinazina spray nasale, che era periodo di influenza e raffreddori. Quando ritornò in salotto, il suono della playlist anni duemila e dei bambini che si sfidavano a suon di sonate post-moderne al pianoforte si mescolavano, e la calce e il gesso degli intonaci bianchi stavano scendendo lenti a ricoprire le facce e le cose, e gli squarci familiari risucchiati nell’impasto si erano fatti più confusi di prima. A ben vedere, non c’era un giorno della vita di Eleonora che rimanesse celato allo sguardo degli altri. La faccia gonfia di zia Giusy che esagera con gli alcolici, i souvenir di Roma, gli occhi a ritroso di zio Mario che dorme solo se prende le gocce, quel bambino che ormai non distingueva più da sé. Osservava col tappo di sughero incastonato in gola quelle facce e quei corpi così bianchi, e le ciglia polverose, e la bocca impregnata di gesso sbriciolato che assorbe le parole, mute come insetti che s’ingozzano aggrappati all’antera del fiore, e mentre i muri e i soffitti si sgretolavano in pulviscolo e in detriti più grossi, il simposio monocromo proseguiva a discorrere e il suo bimbo ormai calcificato si era messo a correre e a inseguirsi coi suoi amici di gesso, a gridare e a rimestare il polverone bianco. In quel momento aprì la porta Luigi Atzori, coi vestiti di lavoro già impiastrati di vernice bianca. Un pezzo di soffitto aveva schiacciato il chihuahua, che non si vedeva né sentiva più.
«Luigi, alla buon’ora, adesso possiamo aprire il prosecco.»
«Eh, solo a quello vi servivo.»

Se ti fossi trovato a passare lì di fronte in quel momento, avresti intravisto dalle finestre appese nel buio le ombre dei bambini che si rincorrono tra le luci lampeggianti e i palloncini; avresti sentito, se pure ovattate e lontane, le grida di spavento felice di Andrea che viene acchiappato,  sa che farsi acchiappare è il bello del gioco e che segue pronta la vendetta, e il tintinnio dei bicchieri, il discutere animato di Luigi Atzori e i suoi fratelli, delle cognate tra di loro. Soprattutto avresti sentito Dragostea Din Tei sparata a tutto volume, così alto che l’avresti riconosciuta subito, senza alcun dubbio, nonostante i muri di tamponamento e nonostante l’isolamento acustico, e avresti forse visto anche la sagoma di zia Giusy che balla sudata dopo aver mischiato il mirto con la grappa. Forse avresti desiderato per un attimo di dare un’occhiata e di unirti alla festa, all’improvviso conscio della tua solitaria condizione di passante nel buio e nella pioggia. Ma a Is Conis non ci sei mai passato, e anche se fosse avresti tirato dritto, se pur con la malinconia di chi è escluso avresti tirato dritto, perché non sta mai bene intromettersi nelle cose degli altri.

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