Prima giornata
Gli stivali fanno rumore. Il suono della plastica sull’asfalto si ripete sempre uguale a ogni passo, sembra che il tempo sia scandito da questo fastidioso-martellante-insistente-viscido gracchiare. Sta camminando da quattro ore, è stanco e ancora non gli è riuscito di darsi una risposta. Diletta sembra riposata, perfino più riposata di quando erano partiti, il suo viso è rilassato, l’espressione non cambia mai, nemmeno nei tratti più ripidi e faticosi. Lui vuole urlare.
Perché siamo venuti? Perché decidere di fare così tanta fatica. Deficienti.
Smettila. Sei tutto un perché, come i figli di Angelo.
Vaffanculo Angelo, vaffanculo i figli di Angelo, vaffanculo questo cammino.
Hanno entrambi riso. Poi è passata un’altra ora, nessuno dei due ha parlato e lui vuole ancora urlare. Poco fa si sono messi seduti su una panchina di un cortile privato, li hanno cacciati. Sono adesso sotto un albero alto e grosso, è uscito il sole. Ha smesso di piovere, fa caldo e lui vuole urlare per questo caldo. Nel frattempo, si è dimenticato del rumore degli stivali. Stanno mangiando un panino che non sa di niente eppure è buonissimo.
Certo che mia mamma è così.
Tua mamma è anche altro, cioè è così con te ma con me no.
Perché con te si contiene. Ho fame di dolce.
E indica l’uvetta di lei.
L’uvetta la tengo per quando saremo stanchi.
Perfetto, sono stanco.
Sono ripartiti: hanno percorso chilometri, finito l’acqua, litigato perché lui beve più di lei, pianto ricordando il gatto di lei che faceva le fusa e sembrava parlasse. Lui ha bestemmiato molteplici volte ma sceglie sempre, come attributi a Dio, solo parole che suonino comiche. Hanno riso anche delle sue bestemmie.
Stanno montando la tenda in questo esatto momento e due secondi fa Leonardo si è accorto di aver dimenticato i picchetti, teme che dirlo a Diletta…
Okay, passami i picchetti, metto prima quelli dalla mia parte che qua è molle.
Non ho i picchetti.
Porco dio Leo!
Ridono.
Seconda giornata
Durante la notte la tenda si è spostata. La sera prima Leonardo aveva impostato la sua sveglia prima di quella di Diletta, così da fare le cose con calma. Non è bastata quell’ora di anticipo che lei è già pronta, con la stessa faccia riposata di ieri. Lui sembra un morto, ancora non ha messo in ordine lo zaino, ancora non si è lavato i denti.
Se fossi venuto da solo, sarei già tornato a casa.
Se fossi venuta da sola, sarei già arrivata.
Sono partiti e hanno camminato fino al primo paese, piccolo-alto-bagnato. Sono fermi adesso sotto un portico di travi di legno, c’è un odore di soffritto che mette loro fame, ma per mangiare devono aspettare la metà della tappa. Dove sia esattamente questa metà a lui non è chiaro, è Diletta a gestire le tappe. Seduto in questa sedia di cemento Leonardo è in vena di piangere e filosofare, lei no. Ripartono immediatamente. Sono le undici e trenta antimeridiane di martedì, tutto è nudo-ripido-isolato e qualcos’altro che Leonardo non sa. Sente l’inarcarsi della mente.
Sto bene.
Dilé…
Il telefono di lui suona, Diletta riconosce la suoneria.
Lo senti?
Mi chiama ma io non rispondo mai.
Lei contrae la fronte e non ribatte.
Quasi mai si, più mai che quasi, ma non vorremmo mica parlare del…
No, appunto.
Piove ancora, gli stivali hanno ricominciato a fare rumore ma oggi gli danno meno fastidio di ieri. Forse percepire il tempo attraverso i suoi passi sta iniziando a piacergli. Eppure, non ha proprio voglia di prendersi sul serio. Non vuole credere che camminare sotto litri di pioggia, sprofondando dentro al fango a ogni passo, lo stia facendo diventare migliore. Diletta, invece, ci crede. Non che non abbiano mai camminato per così tanto prima d’ora, entrambi hanno passato tre quarti della vita coi piedi poggiati sulle discese e sulle salite di qualche montagna. Montagna è la loro casa, soprattutto ora che non ci vivono più. È la durezza delle loro ossa, ma è anche la morbidezza dell’aria fredda-secca che sfigura le loro espressioni e fa delle loro pupille una piccola pallina di carta. Montagna è stata educazione e li ha ammaestrati. Anche adesso li ammaestra e li educa.
Ferma.
Lei non si ferma.
Ferma!
Leonà, dai però. Ci fermiamo tra un’oretta.
Lui è qualche metro dietro di lei, stanno fiancheggiando una strada asfaltata. Prima di parlare Leonardo aspetta il passare di una macchina piccola-rossa-lenta. Allora si gira verso il bosco, Diletta fa lo stesso.
Un cane!
Riprendono subito a camminare, passano molte ore. Raggiungono la fine della tappa. La tela fine della tenda filtra la luce del tramonto e la rende accecante, Leonardo è disteso sopra il suo materassino. Sospira girandosi verso Diletta, lei lo guarda, si alza e va verso le docce. Lui ha fissato la luce del sole per troppo tempo, le palpebre gli si aprono e chiudono in piccoli spasmi. Starnutisce. Si raggomitola e si addormenta. Poco dopo sente un rumore di cerniera che si apre e tante piccole gocce sbattere contro il nailon della tenda.
Le docce hanno solo acqua fredda.
Che culo.
Ma fredda piacevole!
È sera tardi, hanno passato l’ultima mezz’ora parlando. A entrambi mancava avere del tempo da poter passare insieme. Stanno giocando, Leonardo si è alzato dal materassino e, con una torcia in testa, sta ballando. Diletta, seduta, lo guarda muoversi e scrolla le spalle. Ascoltano “Good old fashioned lover boy”.
Madonna!
Si!
Terza giornata
La cerniera dello zaino di Diletta è incastrata, un piccolo pezzo di stoffa ferma il cursore. Leonardo la deve aiutare. Qualcosa, in quel gesto, gli ricorda…
A Capodanno, era pieno di gente al bar. Quando è finito il tredueuno, io avevo un vassoio in mano, ero distante dalla gente sotto la tivvù. Mi sono sentito così solo Dilé.
Leonardo…
Lo so lo so, però i feel the void ultimamente.
Sì, stai forzando le situazioni.
E?
Diletta non si spiega oltre. Vanno avanti per un paio di metri senza dire nulla, Leonardo non si sente soddisfatto.
Quindi?
Leonà, no momenti di autoanalisi ah?
Se non mi autoanalizzo adesso, mentre sono isolato in mezzo alla merda, finisco…
Diletta agita la borraccia, è vuota.
Scheiße! Controlla che ci sia il bar.
Lui ha sentito un solletichio freddo salire lungo la schiena, ma non gli va di farci caso. Butta un occhio sulla mappa, il bar è a tre chilometri.
È chiuso.
Perché?
Mette via la mappa, si ferma e si aggiusta la linguetta degli stivali.
Perché?
Teniamo l’acqua per i momenti crisi.
Dammi la mappa.
Lui non ci pensa proprio, lo zaino pesa troppo e l’ha appena rimesso sulle spalle.
No, è chiuso.
Sono adesso davanti al bar, si sono fermati di fronte alla vetrina. Entrambi si stanno specchiando. I loro pigmenti sono accentuati per il caldo e per il sudore, le vene sulle braccia di lui sono in rilievo. Si piace. Si piacciono. Ricominciano a camminare. Passano tre ore. Ora Diletta ha la bocca piena.
Un po’ secco.
La voce di lei è impastata. Leonardo si alza, va verso un supermercato incastrato tra due palazzi grandi-sproporzionati. Compra un vasetto di pomodorini secchi da duecentosettanta grammi.
Tieni, ammorbidano.
Ammorbidiscono.
Diletta sta sorridendo.
Ammorbidano è una parola pazzesca.
Torna seria. Sta aggiungendo i pomodorini al suo panino secco. Leonardo li mangia direttamente dal vasetto, alternando i morsi. Prima il pane, poi il formaggio, poi un pomodorino intero. L’immagine gli ricorda “Manichini ossibuchivori”.
Dimmi le tue parole preferite.
Leonà…
Comincio io: squisitamente, sollazzo, meraviglia, parnaso, bizzoso, eucaristia amorosa, ricreazione, fantasmagorico, massimamente, prediletta.
Va bene: stillicidio, plumbeo, pingue, esecrando, poiesi, alterigia, vessillifero, auscultare, evangelicalismo, cadauno, lezioso, serico.
Hanno finito i duecentosettanta grammi di pomodorini, a Leonardo brucia lo stomaco. La brace della sigaretta cade a terra muovendosi come fosse viva.
Quarta giornata
Voglio un altro gioco come quello di ieri.
Leonardo si ferma, è divertito. Oggi c’è il sole, è a petto nudo. Lei pure. Camminano come animali ammaestrati ma si sentono randagi. Si siedono, si tolgono gli scarponi. I lacci lasciano la presa e lui si guarda i piedi mentre riprendono spazio. Ha un’erezione ma la ignora.
Okay: cinque cose preferite.
Difficile!
Passami l’acqua. A caso però, vai.
E schiocca le dita.
La parmigiana, i segni, la filosof… no, no… il conoscere…
Tre …
Lei esita, lui schiocca di nuovo le dita.
Marcesina e il mio gatto.
Sei cara!
E le accarezza gli stinchi. Lei schiocca le dita.
Il profumo del fieno d’inverno, la porosità del marmo, il colore dell’erba quando si scioglie la neve, i corpi a contatto quando…
Te l’eri preparata ah?
No, e ne manca una.
Perché non te la ricordi più.
Ridono. Leonardo muove gli occhi come stesse cercando qualcosa.
I pompini!
Ridono. Ripartono. Durante il pomeriggio si accorgono di essere in anticipo rispetto al percorso segnato sulla mappa, vedono un fiume, decidono di fermarsi. Poco fa Leonardo cercava di opporsi alla vischiosità dell’alveo, ora lascia che i suoi piedi scivolino sul muschio che ricopre i sassi. Cade e ricade, respira e trattiene l’aria.
Sono morto!
Diletta sta leggendo.
Hesse è allucinante.
Lui improvvisa uno scatto e la raggiunge.
È “Sull’amore”?
No. “Siddharta”.
Ah, bullshit.
Leonardo!
Lo pizzica sulla spalla, come si farebbe con un bambino.
Sei così beat che non ti sopporto!
Sei così filellena che non ti sopporto!
Non è …
Si! Sei proprio Byron.
Si allunga verso l’acqua come per darle una sberla, gli schizzi freddi bagnano Diletta che si alza saltellando e bestemmia. Entrambi ridono.
Quinta giornata
Leonardo si è svegliato da un sogno: stava in mezzo a un campo largo-vuoto-rosso e aveva sua madre di fianco. Cercavano di magiare le carni di uno struzzo, poi un animale traslucido-nitido-minuscolo li azzannava entrambi. Sua madre si salvava mentre lui moriva.
Bonjour!
Diletta alza lo sguardo. Gli mostra la mappa e muove l’indice come stesse disegnandoci sopra.
Abbiamo quarantasei chilometri.
Sono le otto e venti antimeridiane di venerdì, è tutto nudo-ripido-isolato e qualcos’altro che Leonardo non sa. Sente il distendersi della mente. Lei sistema la corda della tenda. Partono. Dopo alcune ore Leonardo si accorge di star canticchiando. Il ritmo glielo dà il fastidioso-martellante-insistente-viscido gracchiare degli stivali. Oggi quel rumore è gradevolissimo.