A proposito di una neoplastica teosofia produttiva

«Son texte est extraordinairement compliqué, par endroits même obscur. Il utilise une terminologie incompréhensible. Et c’est pourquoi, à ce tour, rares sont les auteurs qui se sont risqués à en résumer le contenu.» – Hans Janssen

«I believe that Neo-Plasticisme is the art of the foreseeable future […].» – Piet Mondrian

Entrava in quel luogo nello stesso modo degli altri: penetrando una bolla di petrolio inodore e insapore, il nero davanti e dietro, sopra e sotto; lei avanzava.

Avanzava di poco, per salutare: quel corpo alla reception le sorrideva come le volte passate, le consegnava la piantina per orientarsi, a lei come agli altri – corpi che nel nero intravedeva appena.

Andavano tutti verso la riunione, in cerca del blu.

La piantina mostrava i neri, densi corridoi nei quali si muoveva – le linee verticali e orizzontali – e poi gli sprazzi, di colore primario o defraudati dal colore, bianchi – i rettangoli – lì dove c’erano uffici, sale riunioni, set. Dicotomie.

La geometria della ditta era perfetta come i volti e la struttura fisica di chi la mandava avanti.

Gli impiegati lì dentro erano una ventina, i corpi prendevano posto in un blu privo di mobilia – a volte in un rosso, in un giallo – assumevano uno alla volta una posa geometrica appropriata, la loro carne posizionata a terra e ripiegata nel rispetto delle proporzioni auree, nel rispetto del nervo ottico di ciascuno dei colleghi.

Lei rappresentava il posto di lavoro del suo condominio, indossava il corpo femminile ed elegante acquistato con la partecipazione di tutti gli inquilini e quel giorno le toccava lavorare mentre gli altri avrebbero riposato nelle loro case disconnessi dalla realtà produttiva.

Era la ditta stessa che produceva il riposo, la dicotomia prevedeva che al lavoro si contrapponesse sempre e solo il tempo libero, erano i co-inquilini all’interno dei corpi che, a rotazione, recitavano nelle commedie dove gli stessi corpi erano i protagonisti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, senza invecchiare. Questo produceva la ditta e questo guardavano tutti quando a lavorare dentro al corpo era il vicino di casa.

Lei, quando era il suo turno, faceva recitare al corpo battute più forti e sagaci: erano chiare la sua elevata preparazione artistica e l’esperienza maturata sul campo e nel settore. Quando era invece il turno di altri inquilini – e cioè tutti gli altri giorni del mese – in generale il corpo taceva, faceva da spalla agli altri corpi gestiti da altri condomini in altre città. A registi e produttori piacevano entrambe le attitudini: idee sì, ma non così spesso, evitare di rendere un personaggio antipatico perché sovraesposto. E così quel corpo riusciva a lavorare in quell’impresa ormai da quasi un decennio, come tutti gli altri corpi. La trama della serie andava avanti.

Le piaceva la filosofia del lavorare poco per lavorare tutti, conseguenza del grande sviluppo tecnologico del decennio passato. Bastava un giorno ogni tanto e poi sarebbe toccato agli altri inquilini, bastava quel giorno e si sarebbe mantenuta per il mese o giù di lì. La stanza come il corpo, la pagava il condominio tutto. Il cibo non le mancava. Le piaceva, e quando riposava restava chiusa in casa a guardare la televisione, come tutti gli altri. Non poteva mancare nemmeno una puntata – nemmeno un frammento – o avrebbe perso il filo della trama. La sua interpretazione ne avrebbe risentito.

E poi – come ogni inquilino – lei era inadeguata alla vita reale. Nessuno usciva dalla propria stanza, nessuno conosceva la città dove vivevano. L’unica città era la piantina del receptionist, ogni trenta giorni. E ogni trenta giorni la sfida intellettuale e produttiva, quel vincolo contrattuale cui apparteneva e a cui voleva dare tutta se stessa, grata a quello che solo il comune sforzo professionale poteva garantire: la produzione di tempo libero, concentrata come tutti a evitare il collasso della società.

Usciva dalla sua stanza solo per andare nei bagni comuni, attraversando i corridoi poco illuminati del condominio. Lo faceva nei pochi intervalli pubblicitari, quando alcuni tra i corpi presentavano prodotti di altre ditte da acquistare a poco prezzo. Come tutti, non acquistava mai nulla. In quei momenti uscivano dalle loro stanze: la luce non riusciva a celare le imperfezioni degli altri così come era sicura non celasse le sue. La sua voce era brutta come quella degli altri e per quel motivo non salutava né veniva salutata. Facevano i loro bisogni in fretta, poi tornavano in camera.

Lei aspettava quel giorno lì del mese – ogni quattro settimane – aspettava le riunioni nella stanza bianca o in quella rossa o in quella blu – come quella volta – le riunioni prima di andare in scena, dove le voci che a turno prendevano parola erano voci educate di soprano, di tenore. Quando poi c’era particolare sintonia nelle idee tra colleghi, la produzione incoraggiava duetti che lei ricordava così belli solo nelle opere di Giacomo Puccini, molti decenni prima.

Erano voci costose che avevano impiegato molte delle risorse dei condomini. Erano le voci che aspettava di udire, l’intelligenza che risuonava, l’armonia plastica tra l’individuo, gli altri individui e l’ambiente tutto.

E quel giorno lì aveva preso la parola lui: il responsabile delle risorse umane, lui che nei gesti rispettava la sezione aurea almeno fino alla quindicesima cifra dopo la virgola. Aveva una voce di basso adeguata al Don Giovanni, voce temuta, acquistata con molti sacrifici. Era con quella voce che il condominio di lui era ora forzato a licenziare il condominio di lei, per il bene della ditta, un male necessario, una manovra inesorabile che se non ora sarebbe arrivata magari in due o tre mesi ma a spese anche di altri tra i corpi lì presenti nella stanza blu. Il suo corpo rappresentava un personaggio ridondante, ormai troppo sfruttato dal regista.

Le comunicava che sarebbe stata sconnessa dalla rete pochi istanti dopo, con l’impossibilità per il corpo di ritornare a lavoro, non in quel momento né nei giorni successivi: per sempre.

Scollegata, ora piangeva nella sua stanza. Doveva uscire e non voleva, eppure era tenuta dal regolamento interno del condominio a comunicare fatti così importanti come l’interruzione del rapporto lavorativo con la ditta. Il condominio consumava molto cibo e molta energia e i risparmi erano quello che erano.

Avrebbero dovuto per prima cosa vendere il corpo e i suoi accessori, gli abiti, il colore così particolare degli occhi, l’odore della carne così naturale e attraente che mai virava in sudore. La voce. Avrebbero dovuto vendere la voce di Montserrat Caballé che nuova era costata quasi come un piano di quell’edificio. Forse avrebbero dovuto farlo un pezzo alla volta, un elemento ogni tanto a un diverso acquirente, evitare il pacchetto completo che avrebbe portato il compratore a richiedere uno sconto.

Avrebbero dovuto vendere tutto e stimare il costo di quello stile di vita: un bagno a corridoio, le stanzette individuali, il lavoro una volta al mese, lussi non da poco.

E poi trovare un nuovo corpo da incarnare più ordinario, grossolano, collegato a un nuovo lavoro sicuramente più grossolano, ordinario ma indispensabile per sopravvivere.

Se ne sarebbe occupata lei, aveva contatti nel mercato secondario delle apparenze, e gli altri inquilini sapevano che era tra le più abili a negoziare. E lei sì, lo avrebbe fatto con diligenza e cura.

Nel frattempo, avrebbe goduto del suo nuovo tempo libero. Avrebbe messo sul piatto un disco di Charleston, si sarebbe tolta tutti i vestiti e avrebbe danzato. Da sola in principio, nel mezzo della propria stanza. Poi avrebbe aperto la porta, avrebbe permesso alle note di uscire insieme a lei, di radunare gli altri, di trascinarli nell’atrio polveroso del condominio e di farli ballare finalmente fianco a fianco, privi di pensieri ma vicini nelle carni e nei fluidi, come se il giorno seguente non sarebbe mai – e poi mai – dovuto arrivare.

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