Secondo il Rapporto annuale ISTAT 2023 da poco presentato, gli indicatori che riguardano il benessere dei giovani (18-34 anni) in Italia sono ai livelli più bassi in Europa: lo scorso anno quasi un giovane su due (47,7 per cento) ha mostrato almeno un segnale di deprivazione in uno dei domini chiave del benessere: istruzione e lavoro, coesione sociale, salute, benessere soggettivo, territorio. Nella fascia 25-34 si arriva alla multi-deprivazione in due o più di questi ambiti. Per coloro che entrano nella fase adulta della vita e che si trovano ad affrontare tappe cruciali – l’ingresso nel mercato del lavoro, l’uscita dalla famiglia di origine, l’inizio di una vita autonoma, la formazione di una unione, la scelta di diventare genitori – il loro raggiungimento è sempre più un percorso a ostacoli.
Il Rapporto continua: «La reazione messa in atto negli ultimi decenni dalle generazioni che via via sono entrate nell’età adulta è stata il posticipo delle tappe fondamentali. D’altra parte, la precarietà e la frammentarietà delle esperienze lavorative e la scarsa mobilità sociale hanno contribuito a compromettere le opportunità di realizzazione delle aspirazioni di una larga parte di giovani e a scoraggiarne la partecipazione attiva a vari livelli, politico, sociale, e culturale».
Insomma, sembrerebbe che i giovani abbiano opposto, alle richieste sociali dell’adultità, la stessa risposta dello scrivano Bartleby al suo datore di lavoro: «Preferirei di no».
Lo scenario che si sta profilando è quello di una generazione di padri che sta meglio rispetto ai figli, situazione inedita nella storia.
Abbandonando il terreno delle statistiche, viene da chiedersi: che cosa hanno fatto i nostri genitori di diverso rispetto a quello che stiamo facendo noi? Risposta loro: hanno lavorato. Cosa che, a quanto pare, non starebbero facendo i millennial; o per lo meno non starebbero facendo abbastanza. In prima battuta si potrebbe rispondere che già solo la possibilità di avere un lavoro non è più diffusa come ai loro tempi, né gli stipendi sono paragonabili, anche e soprattutto se commisurati al carico di lavoro. A ciò va aggiunto il fatto che la preparazione richiesta oggi per svolgere mansioni poco o mediamente qualificate è incommensurabilmente maggiore rispetto a quella che fu richiesta loro. Effettivamente ai loro tempi con sedici anni, sei mesi e un giorno di lavoro una donna sposata e con figli (vent’anni se uomo) poteva smettere di lavorare per ricevere una pensione vitalizia, mentre oggi non solo ciò non è più possibile, ma è proprio la possibilità di avere una pensione in futuro, per chi oggi ha trent’anni, a essere a rischio.
A ben altre latitudini, negli Stati Uniti, si è tentato di dare una rappresentazione letteraria di questa condizione da parte di Halle Butler con La nuova me, pubblicato da Penguin Books nel 2019 e tradotto per Neri Pozza da Annalisa Di Liddo quest’anno. Siamo lontani dall’Italia e dal suo sistema pensionistico, ma il modello di sviluppo della società e le dinamiche sottese non sembrano essere poi così diversi: una trentenne di Chicago dal fumoso profilo professionale inizia a lavorare grazie alla mediazione di un’agenzia interinale come assistente receptionist presso lo showroom di un’azienda di arredi. Afflitta da una depressione latente, si chiede se «l’abisso senza fondo del tempo indeterminato» potrà essere una soluzione alle sue angosce oppure sarà il colpo di grazia inferto a una vita lavorativa fin lì fallimentare: sarebbe condannata a un lavoro scarno sia dal punto di vista retributivo che della soddisfazione personale. Millie, la protagonista, si muove in un ambiente di relazioni professionali e personali anodine e prive di spessore: colleghe radical che non si accorgono della sua esistenza, un’unica amica, Sarah, troppo concentrata sulle proprie miserie lavorative per poter offrire ascolto e quindi supporto all’amica e un ex fidanzato di cui non sente la mancanza. È solo con la mamma, unica tra i parenti ad aver diritto di parola, che il rapporto sembra farsi autentico: con lei la protagonista ha buon gioco nel «posticipo delle tappe fondamentali» (ISTAT) perché si de-adultizza, abdica momentaneamente alla sua adultità senza subirne le conseguenze, e la madre l’accoglie a braccia aperte:
Andiamo al centro commerciale e nel parcheggio dice qualcosa per mettermi in imbarazzo, tipo “adesso mamma si occupa della sua piccolina”. Io sbuffo e dico “Okey mamma”. Come prima cosa mi compra un cappotto nuovo, poi un completo da ufficio e un paio di Clarks. Poi andiamo da Gap e mi prende un paio di jeans, due maglioni e un completo guanti e cappello coordinati. Entriamo ai grandi magazzini e mi compra una crema antietà da notte e un rossetto. Poi dice che, benché non sia un salone degno di una grande città, se voglio tagliare i capelli mi può portare da Marisa alla scuola per parrucchieri Paul Michele. La lascio fare. Dopo andiamo da Target, dove mi prende un pigiama e della biancheria intima nuova. Sono tutta nuova.
D’altro canto, le figure maschili latitano, l’universo costruito da Butler è interamente femminile: non si capisce se sia un bene oppure no.
A ben vedere, Millie prova anche ad assumersi la responsabilità di essere quell’adulta che ha sempre sognato (e hanno fatto sognare), ma fallisce; rimane schiacciata dai dettami della contemporaneità capitalista, che, secondo il Mark Fisher di Realismo capitalista, ci incoraggia a pensarci come generatori di profitto e a considerare le altre persone o come strumenti o come ostacoli. Con i suoi dodici dollari all’ora a trent’anni la protagonista capisce di essere sulla via del fallimento personale, nonostante i privilegi avuta da piccola: ha potuto studiare e immaginare di poter diventare la persona che aveva sempre sognato.
La realtà è che la vita di Millie corrisponde al suo lavoro, che le richiede di rispondere alle telefonate da inoltrare agli uffici competenti e di tritare un pacco di documenti, mansioni che svolge con estrema calma e senza particolare meticolosità; la vita di Millie è assolutamente misera. Solo una coppia di personaggi prova a sfuggire a questa logica – «Kim e John si erano confrontati sull’esigenza di escludere maggiormente la vita professionale e quella personale. Avevano parlato del fatto che la vita era più di quello che succedeva in ufficio» – ma è un’apparizione troppo fugace per rappresentare l’indicazione di una vera via d’uscita. All’aggressività del dover essere lavorativo Milie contrappone un un «preferirei di no», una sorta di rifiuto, di accettazione di quell’inerzia (oggi si direbbe quiet quitting) che la porta a fare il minimo indispensabile al lavoro e, come corollario, anche in tutti gli aspetti della sua vita, puntualmente dissacrati dalla voce narrante: nella gestione della casa, al limite dell’agibilità igienico-sanitaria, nella gestione della propria persona («ho un buon odore» ripete spesso, come a convincersi di non essere poi così male), nelle relazioni (amore inesistente, amicizie rarefatte, famiglia solo come luogo di rifugio e cartina di tornasole del suo insuccesso). La sua socialità, per quanto parca, è solo in presentia; manca qualsiasi riferimento alla dimensione dei social network, da cui, viene da pensare, un millennial americano difficilmente può estraniarsi; e questo, in un romanzo che vuol fare dell’aderenza alle condizioni di vita delle persone reali un valore letterario e paradigmatico non è una mancanza da poco (se non altro i personaggi adolescenti e post-adolescenti di Sally Rooney si mandano delle mail).
Dietro alla corazza scontrosa, si intravede lo spettro di una profonda insoddisfazione, il cui gradiente sale sempre più fin quando una mail sibillina non porta la protagonista a pensare di aver svoltato, di poter ottenere davvero l’indeterminato che forse non vorrebbe, ma di cui potrebbe aver bisogno. Perciò si prepara a una «nuova me», che si prefigura come una ragazza «mite e sicura nello stesso tempo», che sa assumersi le proprie responsabilità e farsi artefice del suo destino: «La vita non mi capita e basta, non più; sono io ad averne il controllo».
Il lettore, però, non si fa illusioni, sa già come andrà a finire perché ha accesso al contrappunto delle versione di Millie: il narratore alterna una visione interna, che corrisponde al racconto della protagonista, a una visione esterna, in cui viene assunto il punto di vista (valori e aspettative sulla vita e sul mondo) di altri personaggi collaterali che ce la stanno facendo: Kristin, Kim, Elodie, Karen; quest’ultima, la receptionist, incarna il delirio di onnipotenza (che sarebbe meglio definire di impotenza) del “superiore” – che però è pur sempre inferiore a qualcuno – che esige per il sottoposto un formazione assolutamente non proporzionata alla mansione: per il posto di assistente alla reception vuole stagiste universitarie con una preparazione artistica e nel campo del design.
È probabile che il lettore faticherà un po’ a solidarizzare con la narratrice, depressa, indolente, apparentemente inaffidabile, ondivaga, incapace di prendere davvero in mano la situazione e di affrancarsi dalla tutela dei suoi genitori in pensione che le pagano l’affitto; è però altrettanto probabile che si riconoscerà nel dissidio generazionale con i “vecchi” di oggi e nella problematica accettazione del teorema lavoro-uguale-vita. Ancora: è molto probabile trovarsi d’accordo con quel «preferirei di no» inconsapevolmente opposto da Millie alle richieste del mondo del lavoro, che chiede tanto e dà poco o nulla. Bartleby, nella sua vita precedente, aveva lavorato nell’ufficio lettere smarrite di Washington, finendo anche lui per smarrirsi. Allo smarrimento esistenziale dello scrivano ottocentesco si aggiunge quello lavorativo della millennial del ventunesimo secolo: è il momento giusto per chiedere un aumento? Sono sicuro di voler fare questo lavoro per tutta la vita? Troverò mai qualcosa in linea con quello che ho studiato?
Halle Butler non prova a rispondere, si limita a porre gli interrogativi. Alla fine, concede a Millie, la sua protagonista, solo una tregua, una pausa luminosa nella brumosa angoscia della lavoratrice ormai più che trentenne e forse definitivamente e irrimediabilmente avviata:
Millie spense il computer; salutò Alyssa e uscì dall’edificio, dirigendosi verso la fermata della metropolitana. La brezza estiva stormì tra le foglie nella perfezione più assoluta. Venerdì. Libera e beata. La vasta distesa delle ore dispiegate davanti a lei, le ore infinite tra quel momento e la fine.