Scrivere di Alessandria significa scrivere di nostalgia. La nostalgia di chi da Alessandria è dovuto partire, lasciando indietro un’infanzia che è tanto più rimpianta quanto meno ce la si ricorda. Come André Aciman, che attraverso la scrittura in Ultima notte ad Alessandria tenta di dare un ordine e un senso alla ferita dell’esilio, smarrendosi tra i fatti e la sua memoria dei fatti. In Alibis descrive la vigilia della sua partenza dall’Egitto, l’epifanica ultima sera della sua adolescenza passata a camminare sulla Corniche. In Ultima notte ad Alessandria si chiede se quella sera sia mai accaduta davvero oppure no. Ma andiamo con ordine. André Aciman è sì “quello che ha scritto Call Me by Your Name”, ma è anche un esempio vivente di quanto possa essere etnicamente contorto nascere ad Alessandria. Aciman parla una moltitudine di lingue, tra cui lo spanyolito, che a quanto pare non va assolutamente confuso col ladino dolomitico. I suoi nonni, ebrei sefarditi e ashkenaziti di origini siriane, turche, italiane e romene; in un modo o nell’altro arrivano tutti ad Alessandria e li’ mettono su famiglia. Di estrazione sociale differente, le due nonne si fanno la guerra degli affetti, costringendo il piccolo André a disseminare bugie bianche per tirar a campare senza troppi drammi. Figure matronali intorno alle quali aleggia un’aura rispettivamente di fede e di lusso, la Santa e la Principessa sono dirimpettaie, ed è quindi di primaria e fondamentale importanza che il nipotino non faccia sapere all’una quando fa visita all’altra. Sgattaiolando da un salotto all’altro, André Aciman cresce tra velluti, grammofoni, specchi e nappe. La Principessa allestisce merende intellettuali in cui si fa chiaroveggenza sull’avvenire politico dell’Egitto; la Santa interminabili pranzi di famiglia che culminano in piazzate operistiche capitanate da una schiera di zie zitelle. Finché, in una manciata di mesi, tutto si smonta. La crisi di Suez del 1956 e le politiche nazionaliste di Gamal Abdel Nasser spingono all’esilio gli ebrei e gli stranieri in Egitto. Da allora, Aciman non si libererà più del virus nostalgico e vorrà sempre essere altrove. Da liceale a Roma vuole essere a Parigi, in Francia sogna a New York, a Manhattan rimpiange di nuovo Parigi. Questa la ricerca angosciosa della sua identità che racconta in Alibis, la cui lettura può procurare un vago mal di mare, se non addirittura una pronunciata tachicardia.

La nostalgia è anche quella di chi ad Alessandria è rimasto per avere una buona postazione da cui guardare e rimpiangere la propria Itaca. Come Konstantinos Kavafis. Greco nato ad Alessandria, decanta la cultura ellenica interrogandosi sulla ricerca di significato nella modernità. Per quanto i ritratti possano darmi torto o ragione, Kavafis lo penso di altezza media, con una cospicua pancetta e un’aria sorniona, nato già anziano nelle fattezze ma eternamente giovane nello spirito. Capace di scherzare con un robivecchi come con un ufficiale, lasciandosi canzonare dal primo e senza che il secondo si accorga di essere vilipeso. La fama l’ha raggiunto da morto, concedendogli la vita senza sbalzi di un impiegato governativo che ha passato le ore del pomeriggio negli “hawa baladi” (cafè popolari) e quelle della sera a far poesia – le due più famose su Alessandria sono Il dio abbandona Antonio e La città. Lo immagino affacciarsi dalla porta della sua villetta (oggi museo) nel quartiere di Attarin, percorrere le viuzze strascicando vagamente i piedi e farsi strada senza fretta, un buongiorno alla volta. E quando il sole è calato e la caciara di pedine dei backgammon nei caffè fa il rumore di un motore a scoppio, Kavafy ha ormai raggiunto la sponda del Mediterraneo. Appollaiato sulla terrazza del Metropole Hotel, continua a gustare senza mai saziarsi le scene comiche e strazianti della quotidianità dell’Egitto di fine Ottocento. Kostantinos osserva, ride, commenta, a strapiombo sull’affollatissimo slargo tra Mahat al Raml (la stazione “della sabbia”), la via dei commerci e quella che porta al lungomare. Le mogli degli imprenditori escono cariche di pacchetti dalla pasticceria Délice, la più antica di Alessandria, mentre uno straccione con una gamba in cancrena si trascina in un cumulo di rifiuti lungo il marciapiede. Il khamsin, vento che dal Sahara spazza la sabbia verso il mare, si scontra con la brezza greve del Mediterraneo. E sotto, gli egiziani e i kawaga litigano, costantemente e voracemente, in qualunque lingua conoscano o possano far finta di conoscere, dai tempi di Cleopatra ad oggi. «Wallahi al-aathim, lo giuro su Dio onnipotente, ya pascia», si sdilinquisce un macellaio, mentre un rigattiere sul suo carretto si spolmona urlando «vecchia!» (diminutivo di “la roba vecchia”), per raccattare tutto ciò che la gente non vuol più.
La nostalgia. Di chi dopo aver vagabondato, ad Alessandria ha trovato un porto pacifico, uno dove osservare e raccontare le vite di qualcun altro. Come fa Lawrence Durrell nel suo (maledetto) Quartetto di Alessandria che io, reduce da una pseudo-frequentazione piuttosto travagliata, sono stata fisicamente incapace di finire. Britannico nato in India, Durrell viene spedito a studiare in Inghilterra da bravo rampollo Oxbridge. E invece detesta da subito e visceralmente il Regno natìo, e convince madre e fratelli a migrare a Corfù. Da lì è tutto un vagare mediterraneo: Grecia, Egitto, Rodi, Cipro… torna in Francia e muore. La faccio breve perché tra quattro matrimoni, innumerevoli libri e interminabili elucubrazioni su cosa siano le relazioni umane, Lawrence Durrell è il dubbio che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Di fronte a un qualunque semplice, banale dubbio binario del quotidiano, lui obietta che tutto il postulato è sbagliato e torna a interrogarsi pure sulla sua data di nascita. Infatti ha scritto quattro libri per raccontare la stessa storia dal punto di vista di quattro persone diverse. Quando si dice, farla semplice. L’Alessandria del Quartetto di Durrell è piovosa e auto-commiserante, piena di personaggi estremizzati come marinai ubriaconi, faccendieri corrotti, giovani prostitute tisiche col cuore spezzato e conturbanti ereditiere complessate ma inseguite, accudite e salvate da amanti docili e benestanti. Oltre al profumo della pioggia sull’asfalto rovente, si respirano rimpianto, crudeltà, dubbio. E ancora tanta nostalgia.
Ad Alessandria la nostalgia scorre come un virus invisibile, un’onda che ti investe a tradimento. È assurdo essere nostalgici di una città che non si è nemmeno ancora riusciti a conoscere. E invece con Alessandria va così. Forse perché tanto sai che a conoscerla non ci riuscirai mai. Puoi starci giorni, mesi o anni, ma la lascerai come si lascia un uomo di cui ci si è perdutamente invaghiti ma da cui si hanno ricevuto solo due di picche. Ho fumato le ultime Carella gialle mentre scrivevo. Schiaccio l’ultimo mozzicone, mentre Alessandria si spegne.