Come e perché fare una rivista. O anche no

Era il 1º agosto 1914 quando l’Endurance, una bella goletta progettata per attraversare il continente antartico, salpò da Londra per il mare di Weddell. Prima della partenza, vennero stivate cinquemila puntine da grammofono. Laggiù la notte dura tre mesi a meno ottanta gradi: meglio attrezzarsi. Avvistati i primi ghiacci, si scoprì che, per uno sciagurato lapsus postale, a bordo c’erano cinquemila puntine da disegno e solo una scatoletta di puntine da grammofono. Gemiti, grugniti, disperazione. Alla fine è sempre così: scopri di non avere proprio tutto il necessario solo dopo che sei partito. A questo punto ti è concesso scegliere: o torni indietro o ti arrangi. La redazione si è riunita e ha votato, ci arrangiamo.

Quali sono i pericoli in vista, quindi? I soliti, direi. Grandi cattedrali di ghiaccio che hanno già fatto colare a picco spedizioni meglio equipaggiate della nostra. Il solito mercato culturale costipato, ossessivo, con un grave deficit di attenzione. Cinico – come tutti i mercati. Come si fa allora? La rotta? Ottima domanda. La verità è che non lo sappiamo bene. Niente, però, mi toglie dalla testa che una buona rivista, oggi, non debba procedere per manifesti o annunci. Che una buona rivista, per natura, sia un’euristica: una macchina assemblata con il solo scopo di generare domande. Una macchina (una nave) che procede per intuizioni, analogie, approssimazioni, che sa navigare a vista, che sa adattarsi. Se così non facesse, se sapesse già dove andare, starebbe mentendo, starebbe seguendo una rotta tracciata da cartografi di corte, senescenti, mezzi ciechi, convinti che non convenga più esplorare ma navigare sottocosta, in acque sicure. Un punto cardinale, uno solo, ce lo abbiamo. È l’idea che il mare davanti a noi sia sconfinato e tutto da esplorare, che sia abitato da creature tremende e bellissime, che ci siano modi più agili di fare cultura, che si possa convincere chi si è imbarcato con noi che il contenitore sia importante quanto il contenuto, che il modo con cui viene comunicato il messaggio sia importante quanto il messaggio. Che le cose “alte” , “difficili”, “per pochi” in realtà non lo siano affatto, che bisogna andare a caccia di mostri degli abissi, che basta puntargli un bel faro contro perché facciano una capriola e si trasformino in puro stupore.

Ma perché tutto questo? Spesso, intorno all’una di notte di un martedì qualsiasi, con gli occhi rossi per l’abuso di schermi, di Winston e di amari, ce lo chiediamo. In fondo, chi ce lo fa fare? Questa impresa, che ci sta portando molto lontani da casa, esige ogni molecola di ATP che ci rimane a fine giornata, dopo il lavoro, interferisce con i libri da leggere e le passeggiate al parco, con le discussioni a letto con chi amiamo, con i film che non abbiamo più tempo di guardare, con i piatti da cucinare; a tratti ci ossessiona, a tratti ci fa disperare, a tratti sembra di avere un figlio che ti è scappato e adesso è nudo in strada, e tu devi correre a vestirlo perché non muoia di freddo e di prese in giro. Perché tutto questo? Non posso rispondere per gli altri. Quello che posso fare è limitarmi a dare la mia. Una volta (prendo in prestito) i medici raccomandavano ai malati lunghi viaggi, soprattutto a quelli che soffrivano di malattie nervose. Chi non poteva permetterselo, si presume, impazziva. Certo che (prendo ancora in prestito) è più sano non viaggiare, è più sano non tentare nuove cose, non muoversi, accontentarsi, non uscire mai di casa, coprirsi bene, non aprir bocca né batter ciglio, è più sano non respirare. Ma il fatto è che uno respira e viaggia.

All’equipaggio dell’Endurance è toccato sgranocchiare pinguini e cuccioletti di foca a colazione, pranzo e cena, per anni, alla deriva, accampati sulla crosta del nulla artico. Ouch. Vero anche che, in tutta questa incertezza, in questo inverno polare da attraversare, che ci attira e ci spaventa, c’è una stella distante, ma fissa. È la consolazione di aver trovato dei compagni che il viaggio ha trasformato in amici. Forse si diventa amici più facilmente di chi fa fatica o soffre insieme a te. Forse ci siamo semplicemente trovati. Di sicuro ci siamo riconosciuti. Di sicuro gli amici, quelli di una vita, li riconosci in fretta, li riconosci dalla gabbia da cui tentano di evadere, molto simile alla tua.

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