Indice
La selezione di Andrea
Prima di battere i tasti
Alzarsi dal letto è difficile. Alzarsi dal letto il lunedì mattina, farlo con l’idea di doversi immischiare alla fauna dei mezzi pubblici per raggiungere il proprio angusto luogo di lavoro nell’hinterland milanese, ancora di più. Alzarsi dal letto, aprire il computer e mettersi a scrivere, in confronto, sembrerebbe la sequenza di azioni più facile del mondo. Eppure non è così, neanche per alcuni degli autori e autrici – di vario genere – più affermati degli Stati Uniti, che in un articolo di Literary Hub (https://lithub.com/six-writers-on-procrastination/), hanno condiviso la propria esperienza con la procrastinazione che precede l’atto creativo.

Io stesso, prima di elaborare questo testo privo di qualsiasi pretesa, ho dovuto attraversare diverse fasi di evitamento e negazione di ciò che il me del passato si era proposto di fare: ho cambiato finalmente le lenzuola, piegato i vestiti da tre giorni sullo stendino, trovato la parola del giorno su Wordle, aspirato i pelucchi lasciati dalle ciabatte in cucina, portato giù il sacchetto dell’umido ormai aperto sul fondo, perso due partite a scacchi con l’apertura viennese. Tutto ciò pur di non sedermi davanti al computer a battere tasti. Se non mi fossi legato alla scrivania avrei anche potuto preparare la colazione al mio coinquilino, pesargli la creatina da mescolare col latte, uscire sul balconcino e guardare il cantiere sotto casa mia illudendomi che inalare polveri sottili potesse ispirarmi, come se le bestemmie, i clacson e le sirene delle ambulanze fossero le muse del ventunesimo secolo.
Le testimonianze raccolte da Literary Hub confermano che le attività propedeutiche alla scrittura sono potenzialmente infinite: George Saunders strimpella per un po’ la chitarra, Andre Dubus III sfoglia le notizie di Google, Taffy Brodesser-Akner scrive qualcos’altro da ciò che si era programmata quel giorno e così via. Ognuno di loro, però, una volta sublimata la paura di tornare al proprio vecchio angusto luogo di lavoro, una volta aperto il file Word e scritto le prime parole, di solito retoriche e banali – come “Alzarsi dal letto è difficile” – ecco che realizza quanto ciò che ha scelto di fare provochi piacere, come una dipendenza che alimenti il proprio ego o che faccia realizzare che forse battere tasti al computer è più soddisfacente di portare giù la spazzatura.
L’abusata frase di Dorothy Parker: «Odio scrivere, amo aver scritto» dice già tutto dell’atto in sé, ma non considera i momenti precedenti, quelli in cui ci si forza di trovare quel qualcosa – l’ispirazione, il coraggio, l’autostima – che consenta di formulare due pagine o due righe o due parole quantomeno accettabili. Anna Hogeland, per esempio, per connettersi al mondo artistico visita mostre di scultrici astrattiste. Ci ho creduto e ci ho provato anch’io andando alla mostra di Munch al Palazzo Reale ma, più che quella di scrivere, mi è venuta voglia di ammazzarmi. Però questa è un’altra storia.
Generazione analfazeta
Inizierò con un’altra ovvietà: per scrivere bisognerebbe prima leggere. O, almeno, saper leggere. Purtroppo sono considerazioni tutt’altro che scontate nel panorama attuale, letterario e non, tra pochi anni dominato dalla Gen Z (nati tra la fine degli anni Novanta i primi anni Duemiladieci) che non sembra affatto incline alla lettura. Il problema, suggerisce Rose Horowitch in un articolo su The Atlantic (https://www.theatlantic.com/newsletters/archive/2024/11/books-briefing-gen-z-reading-books-waste-time/680586/), potrebbe non risiedere nella mancanza di interesse da parte dei giovani, ma nella cultura stessa: i libri, semplicemente, non sarebbero più così rilevanti. Tra le innumerevoli cause e concause possibili, spiccano la riduzione della soglia di attenzione a causa dei social, la preferenza per altre forme di intrattenimento e il declino dell’editoria.
L’articolo non offre risposte convincenti e si limita a riportare un questionario condotto tra gli universitari nel 1971 e nel 2015, i cui risultati restano piuttosto ambigui: se i Baby boomer (nati tra il ’46 e il ’64) indicavano come obiettivo principale degli anni di studio quello di “sviluppare una filosofia di vita significativa”, l’82% degli Zoomers considera gli anni dell’università meramente strumentali a raggiungere il benessere economico.
Io, orgogliosamente membro della Gen Z, mi chiedo – oltre a cosa significhi davvero “sviluppare una filosofia di vita significativa” – quale sia il margine di responsabilità che ci ha lasciato il sistema che ci ha preceduti, quanto valga, nel mondo del lavoro odierno, aver letto tutte le note di Infinite Jest e come si possa parlare di letteratura senza che sembri una passione da gobbi incel hikikomori o, all’estremo opposto, una sorta di rito iniziatico per elevarsi allo stato del Buddha.
Se nemmeno The Atlantic offre risposte, non lo farò neanch’io. Preferisco concludere con una riflessione, che conclusiva non è: vedendo l’affluenza alle presentazioni di Emmanuel Carrère, forse, per stimolare un minimo di curiosità, basta essere affascinanti come lui. E, magari, evitare di citare le note di Infinite Jest a sproposito, specie se – come il sottoscritto – non lo si è letto fino in fondo.

Scrivere (di sesso) è cringe
Se togliamo le parentesi, il titolo sembra tautologico quasi quanto “dire cringe è cringe”. Non sembrano dello stesso avviso The Guardian (https://www.theguardian.com/books/2024/oct/30/sex-writing-feeld-magazine-the-erotic-review) e Lucy Knight, che ci informano che il vento sta cambiando, che una letteratura “alta” erotica è alle porte e che la rivoluzione avverrà, tra le altre, grazie a Feeld, l’app di incontri punto di riferimento per poliamore e kink che ha inaugurato da poco la propria rivista letteraria. Ora rimettiamo le parentesi e pensiamo a quando abbiamo fatto leggere alla nonna il nostro primo temino o il primo racconto o il primo libro. Non mi viene in mente termine migliore di “cringe” – il che è sicuramente una deformazione generazionale – per descrivere la sensazione di disagio e imbarazzo che si prova in quei momenti e che sarà centuplicata se il primo racconto o il primo libro (sperando non il primo temino) conterranno riferimenti sessuali più o meno espliciti, fighe e cazzi che ricorrono più spesso di quello a cui è abituata la nonna con le sorelle Brontë.
Susan Sontag in The pornographic imagination sosteneva che il canone letterario dovesse includere opere esplicite. Quanto esplicite? Walter Siti e i suoi palestrati si troveranno di certo tra i classici del futuro, ma già ora il marchese De Sade – esiste qualcuno più esplicito di lui? – è relegato agli angoli ciechi delle librerie insieme forse ai fumetti hentai, a causa proprio della sua spregiudicatezza che oscura alcuni picchi poetici raggiunti mentre descrive simpatiche rimpatriate orgiastiche vagamente incestuose. Per definizione il canone è soggettivo e arbitrario, una foresta composta solo da sequoie senza neanche un filetto d’erba cipollina, e per questo va aggiornato continuamente se non vogliamo che distrugga tutto come una monocoltura.
Ben vengano allora iniziative come quella di Erotic Review, rivista storica tornata in formato cartaceo che sta considerando di lanciare un premio per celebrare “la scrittura che da molte prospettive diverse esplora il desiderio”; o quella dell’attrice Gillian Anderson, che nell’antologia da lei curata Want raccoglie le fantasie sessuali di 174 donne, già un best seller; o quella stessa dell’app Feeld. Altrimenti si tornerà a parlare di sesso in modo velato ma, proprio perché è l’argomento senza veli per antonomasia, sarebbe un peccato. Viva la lussuria, abbasso la censura.

La selezione di Danilo
Il lungo inverno
Se l’inverno, per molti, è solo una stagione di passaggio tra un’estate e l’altra, per altri è il momento in cui si vive davvero. È questa la prospettiva che emerge dalle raccomandazioni di Kathy Baum, curatrice delle novità della storica libreria Tattered Cover di Denver, raccolte dal New Yorker.

Tra i titoli proposti spicca What I Ate in One Year di Stanley Tucci, un memoir costruito come un diario che intreccia ricette, aneddoti di viaggio e ritratti di convivialità. Ma anche Clean di Alia Trabucco Zerán non passa inosservato. Si tratta di un romanzo che affronta il divario di classe con una narrazione incentrata su una domestica cilena coinvolta in un crimine.
La selezione si arricchisce con opere che sfidano le convenzioni di genere: Every Arc Bends Its Radian di Sergio De La Pava, un noir dal tono crudo che sovverte i cliché del genere, e Crush di Ada Calhoun, un romanzo che indaga il desiderio femminile e le complessità della vita matrimoniale.
Voci ai margini: Periferia di Diana del Ángel
Diana del Ángel, poetessa messicana al suo esordio nel racconto, pone la letteratura al centro con Periferia (Almadía, 2024). La raccolta di quattordici racconti alterna realismo e fantastico, esplorando con uno stile incisivo le sfide e le contraddizioni della società contemporanea. Come scrive Atenea Cruz su Letras Libres (qui il link all’articolo), l’autrice parte da situazioni comuni – una lezione di yoga, il trasporto pubblico, una relazione fallimentare – per trasformarle in scene di un teatro dell’assurdo, dove il reale si piega al fantastico.
La scrittura di Del Ángel, ereditata dal suo lavoro poetico, è nitida e tagliente. Racconti come Relatividad de los caminos richiamano la tradizione fantastica latinoamericana, evocando Amparo Dávila e Juan José Arreola, mentre Consideración sobre la espiritualidad de los antiguos mexas si distingue per la sua satira pungente del mondo accademico.
L’ironia – sottolinea sempre Cruz – è l’arma principale dell’autrice: demolisce il rischio di melodramma e restituisce alle storie la loro forza narrativa. Gli archetipi della letteratura messicana – dal sicario alla donna precarizzata – si muovono in un contesto dove l’assurdo rende visibili le dinamiche invisibili della marginalità.
Lucy: un passo verso l’umanità

Il 24 novembre 1974, in una remota valle dell’Etiopia, l’antropologo Donald Johanson e lo studente Tom Gray scoprirono il primo frammento di quello che sarebbe diventato uno dei fossili più iconici della paleoantropologia: Lucy, un’Australopithecus afarensis di 3,2 milioni di anni fa. Come racconta Denise Su su Sapiens, Lucy cambiò per sempre la nostra comprensione dell’evoluzione umana.
La scoperta di Lucy confutò l’idea che il cervello umano si fosse evoluto prima della postura eretta. Piccola, con un cranio poco più grande di quello di uno scimpanzé, ma con una struttura ossea che mostrava chiaramente un’andatura bipede, Lucy dimostrò che camminare eretti fu il primo passo verso ciò che definiamo “umano”.
Nei cinquant’anni trascorsi dalla sua scoperta, Lucy è rimasta al centro della ricerca sulle origini umane. Ha ispirato nuove spedizioni e metodologie, consolidandosi come punto di riferimento per comprendere l’anatomia e l’evoluzione dei nostri antenati. Le sue ossa – con il femore inclinato, la colonna vertebrale curva a S e il bacino corto e arcuato – raccontano una storia di adattamento e resilienza che continua a influenzare la paleoantropologia moderna.
Lucy rappresenta un punto di svolta nella paleontologia: dimostra come l’evoluzione umana si sia sviluppata attraverso adattamenti progressivi e fondamentali, a partire dalla postura eretta.
Fadaise e ideale: il pensiero contro le fandonie

Bertrand Russell – si sa – non ha mai fatto sconti né alla superstizione né al fanatismo, e i suoi Essais impopulaires, recentemente tradotti in francese da Bernard Kreise per Les Belles Lettres, lo confermano. Come racconta Pascal Engel su En attendant Nadeau, Russell smaschera con sarcasmo caustico le credenze più assurde che l’umanità riesce a produrre quando lascia che il desiderio e l’emozione prendano il posto della ragione.
Tra gli scritti più celebri della raccolta emerge An Outline of Intellectual Rubbish, tradotto come Un aperçu des fadaises intellectuelles, un catalogo impietoso delle “fandonie” che attraversano la storia umana. Engel sottolinea come l’ironia mordace di Russell si coniughi con una fiducia incrollabile nella ragione e un sincero impegno per la sofferenza umana, rendendolo un raro esempio di intellettuale capace di combinare sarcasmo e idealismo.
Il pensiero di Russell si cristallizza in una formula lapidaria: «Non è desiderabile accettare una proposizione senza una ragione per credere che sia vera». In questo principio, che acquista particolare risonanza nell’attuale panorama di teorie cospirative e falsità virali, Engel individua uno strumento cruciale per decifrare le complessità contemporanee.
Interiezioni: tra parole e silenzi
Le interiezioni sfuggono alle regole convenzionali del linguaggio: sono esplosioni verbali che irrompono nel discorso, manifestazioni immediate di emozioni che la sintassi non riesce a contenere. Nell’analisi di Valentin Kalinov per l’European Review of Books, questi elementi primitivi del linguaggio – ah, oh, eh – emergono come testimonianze crude di affetti, desideri e dolori che resistono alla codificazione linguistica.
Kalinov intreccia riflessione filosofica e sensibilità poetica per rivelare le interiezioni come frammenti essenziali dell’esperienza umana condivisa. Le sue osservazioni catturano questi suoni ancestrali nel loro manifestarsi: «Ah, il croco! Oh, la morte!». Sono schegge sonore che perforano il tessuto ordinato del linguaggio, oscillando tra intimità ed estraneità, tra il calore domestico e la desolazione della solitudine.
Nella loro natura indisciplinata, le interiezioni si rivelano strumenti unici per sondare l’indicibile: evocano memorie remote, pulsioni sotterranee, illuminazioni fugaci. Mary Oliver le descrive come «warbling ceaselessly unanswered» – un canto incessante senza risposta, che incarna la tensione perpetua tra esprimibile e inesprimibile.
L’indagine di Kalinov illumina le trasformazioni del linguaggio nell’incontro con l’ineffabile. Rivela come la nostra esistenza sia punteggiata da questi «ah» e «oh» primordiali, cristallizzazioni sonore dell’esperienza umana che persistono nelle pieghe del discorso.