Di cosa parlano gli altri 7/12

Di letteratura, realtà e guerra

Se dovessi cominciare la rassegna di questo mese – la prima dopo l’estate – con un emoticon, non avrei dubbi: 😱. E no, non voglio esprimere un urlo di lotta interiore, angoscia esistenziale o sensazione di alienazione. Né offrire una rappresentazione visiva, potente e tormentata, dell’ansia esistenziale umana, a un tempo personale e collettiva, come farebbe un banale Edvard Much. No, questo è un urlo di semplice sorpresa: veramente qualcuno si ostina ancora a credere che la letteratura possa cambiare la realtà?

 

Cinquecento anni di disimpegno

 

Illustrazione di Tim Enthoven tratta dall’articolo ‘Why Culture Has Come to a Standstill’ di Jason Farago, pubblicato sul New York Times il 10 ottobre 2023.

 

D’altra parte, il nostro secolo – come spiega un critico del New York Times – è il meno innovativo, per le arti, degli ultimi cinquecento anni (“cinquecento”, mica cotiche!). E perché – si chiede, quindi, lo stesso critico – la cultura si è fermata? «We are now almost a quarter of the way through what looks likely to go down in history as the least innovative, least transformative, least pioneering century for culture since the invention of the printing press.» Postilla, poi, che questo non è necessariamente un male. Sospiro di sollievo? Non so… non sarà un male, forse, però ci dice che la cultura è diventata statica, indifferente all’innovazione stilistica e concentrata più che altro sul contenuto, riflesso di una sorta di stallo culturale e mancanza di progresso e trasformazione. Insomma, non sembra che si possa giubilare per l’ottimismo.

Qualcuna di queste riflessioni, a dir la verità, si trovava già nel saggio/pamphlet di Walter Siti Contro l’impegno, in cui si criticava il “neo-impegno” nella letteratura contemporanea, concentrato su temi come i migranti, l’orgoglio femminista, l’Olocausto e i bambini in guerra, mentre ignora volutamente gli aspetti formali dell’arte letteraria. Secondo Siti, infatti, la letteratura con un’agenda politica o sociale non è veramente letteratura.

Parlare di letteratura e società, d’altra parte, porta a una constatazione tanto deprimente quanto ineluttabile: «La capacité de la littérature à modifier le réel est plus que jamais mise en doute, en partie à cause de la part modeste, pour ne pas dire dérisoire, qu’elle occupe dans l’espace et le débat publics». Ecco, sono le parole di Alexis Buffet il quale, nell’ultimo numero di En attendant Nadeau, si interroga sul potere dell’arte letteraria di esplorare e modificare la realtà. Buffet analizza diversi lavori che utilizzano la letteratura come mezzo per navigare attraverso dilemmi morali ed etici, sottolineandone il ruolo cruciale nel «questionnement éthique ou politique». Gli autori discussi, tra cui Frédérique Leichter-Flack, Justine Augier ed Emmanuelle Loyer, contribuiscono a riaffermare quello letterario come uno strumento squisitamente esistenziale, e centrale nella comprensione e nell’interrogazione delle nostre coscienze e della realtà in cui viviamo.

 

La guerra dei mondi

Diciamolo, però: non è certo facile, in questo contesto storico e internazionale, eludere il sociale, l’etico, il politico per darsi al solo dibattito formale. L’urgenza del momento ci porta tutti sulla guerra in corso in Medio Oriente, probabilmente il più grande conflitto che abbia coinvolto Israele dalla sua nascita, con grosse implicazioni globali. La guerra è penetrata nelle conversazioni quotidiane, nelle aule universitarie e nelle piattaforme social, spesso portando con sé anche una marea di disinformazione.

Illustrazione di Jedi Noordegraaf / Ikon Images, usata per l’articolo ‘On the responsibility of intellectuals’ pubblicato sul New Statesman

 

Qualcuno si è interrogato sul ruolo degli intellettuali in questa situazione. Sul New Statesman, per esempio, George Scialabba discute il ruolo cruciale che questi hanno di fronte al conflitto, sottolineando la necessità di una coscienza critica indipendente dalle correnti politiche dominanti. Scialabba critica soprattutto la reazione delle università e degli intellettuali di fronte alle prese di posizione degli studenti, invitando a un dialogo aperto e a una riflessione più profonda sulle radici del conflitto. Analizza anche il ruolo di Israele, Hamas e Stati Uniti, promuovendo una visione che incoraggi soluzioni pacifiche e giuste, guidate da un pensiero intellettuale critico e responsabile.

Anche il Los Angeles Times ha mostrato in che modo il conflitto sia stato vissuto intensamente nei campus universitari, luoghi tradizionalmente dedicati all’indagine aperta e alla libertà accademica, sottolineando come la guerra abbia elevato le tensioni, influenzato il dibattito e compromesso le relazioni interpersonali.

Il New Yorker, dal canto suo, racconta dettagliatamente una forte controversia scatenata a Harvard da una lettera degli studenti che incolpa Israele per gli attacchi di Hamas, e che ha scatenato una tempesta di critiche e doxxing globale. L’amministrazione di Harvard ha cercato di gestire la situazione, ma, ancora mentre scrivo, persistono tensioni e sentimenti di isolamento tra gli studenti e i gruppi coinvolti.

L’invasione russa dell’Ucraina, più di un anno e mezzo fa, ci aveva già mostrato come la disinformazione giochi un ruolo cruciale nel modellare la percezione pubblica dei conflitti e, di conseguenza, l’atteggiamento dell’Occidente nei loro confronti. Anche in questo caso, si mostra come una forza pervasiva in grado di influenzare profondamente la percezione del conflitto in corso a Gaza. Il Washington Post evidenzia come una vasta gamma di contenuti, tra cui immagini e video, siano stati diffusi sui social media, risultando spesso falsi o ingannevoli, alimentando un’atmosfera di violenza e diffidenza. Il Guardian, invece, critica i doppi standard presenti nei media e nella politica, suggerendo che contribuiscono a creare una narrativa distorta e a impedire una comprensione completa delle dinamiche del conflitto. Altre riflessione, come quelle di ABC News e NPR, mettono in luce il ruolo dei social media nella propagazione della disinformazione, mostrando come vecchi video e clip da videogiochi vengano utilizzati per diffondere notizie false o fuorvianti sul conflitto. Un’ulteriore analisi esplora le sfide specifiche della ricerca sulla disinformazione nella regione araba, discutendo l’impatto della censura, della sorveglianza e di altri fattori sulla raccolta e la segnalazione di informazioni false nel contesto del Medio Oriente.

 

Post-fascismo e fascistizzazione continua

L’epoca del post-qualcosa, illustrazione a cura di Galápagos.

Intanto, mentre in Argentina l’estrema destra di Javier Milei perde terreno, Letras Libres ripubblica un’intervista del 1982 a Ernesto Sabato. Originariamente apparsa su Vuelta, prestigiosa rivista diretta da Octavio Paz, in questa intervista, Sabato riflette sulle sfide e le complessità che l’Argentina ha dovuto affrontare, condividendo le sue impressioni personali e il suo punto di vista unico come scrittore, piuttosto che come esperto economico o sociologo.

Allo stesso tempo, mentre in Polonia l’estrema destra torna (si spera) all’opposizione e dopo che in Spagna Vox ha visto svanire tutti i suoi sogni di gloria franchista, su Revue Esprit, Pierre Zaoui propone la categoria di “fascizzazione” per descrivere un processo complesso e pervasivo che, influenzando il linguaggio, manipola i desideri e gli affetti delle persone nella società contemporanea.

Categoria interessante con la quale tuttavia si troverebbe certo in disaccordo Emilio Gentile, il quale, in un’intervista rilasciata a Le Grand Continent, distingue chiaramente tra il fascismo storico e le estreme destre odierne, sottolineando l’unicità del fascismo come “religione politica” nei regimi totalitari. E chiosando: «Oggi viviamo in un’epoca senza creatività nel linguaggio, si parla solo di post: post-modernismo, post-industriale, post-democratico; credo che sia un’epoca incapace di comprendere i fenomeni nuovi e, non sapendo come interpretarli, usa il prefisso “post”. Siamo l’epoca del post-qualcosa. Ma saremo sempre posteri di qualcosa, perché è la vita che è sempre postera.»

 

Post-cinematografia

Probabilmente, secondo alcuni, siamo anche in un’era post-cinematografica, visto che, ancora sul New York Times, A.O. Scott, (ex) (o post) critico cinematografico, si chiede se abbia ancora senso andare al cinema. «Parlate di cinema e prima o poi qualcuno si lamenterà che non li fanno più come una volta,» afferma notando come la morte dell’arte cinematografica sia stata annunciata varie volte nella sua storia. Nel 2023, poi, ha riacquistato vigore il dibattito su streaming vs. cinema tradizionale. Alcuni film potrebbero ravvivare l’interesse verso le sale cinematografiche (CBC), tuttavia, l’attrazione crescente verso le piattaforme di streaming guadagna terreno, con illustri registi come Guillermo del Toro e Martin Scorsese che preferiscono Netflix per i loro nuovi progetti (IBC). Nonostante ciò, successi al botteghino come Barbie, Oppenheimer, o la commedia horror M3GAN dimostrano che il cinema tradizionale potrebbe ancora rivendicare un suo spazio unico nel cuore del pubblico (Vanity Fair).

Il Post-Cinema, illustrazione a cura di Galápagos.

 

Poesia o barbarie

Su Nexos, troviamo Poesía y barbarie (2): Mahmud Darwish, canciones para dos extranjeros che illumina l’uso manipolativo della poesia nel conflitto israelo-palestinese e critica l’uso da parte del primo ministro Netanyahu di alcuni versi di Hayim Nahman Bialik per giustificare la guerra. Ci propone, poi, la vita e opera del poeta palestinese Mahmud Darwish, del suo amore impossibile e il suo esilio volontario, così come la sua lotta per liberarsi dai pesi politici e simbolici, esplorando temi di amore, esilio e resistenza in mezzo al tumulto del conflitto etnico.

L’articolo Scrap Irons of Painful Mercy pubblicato su Poetry Foundation ci immerge nell’universo di Calvin C. Hernton, poeta afroamericano influente ma non pienamente riconosciuto. Hernton, attraverso la sua poesia potente e resistente, ha navigato i tumultuosi mari della politica di sinistra e dei diritti civili durante la Guerra Fredda, diventando un bersaglio dell’FBI. L’articolo celebra il suo viaggio, dalla lotta contro le ingiustizie razziali alla sua capacità di sovvertire le narrazioni canoniche americane, offrendo una visione intima e critica del suo impegno costante a sfidare i confini violenti di razza e genere.

Su The New York Review of Books di questo novembre, Pankaj Mishra ci parla libro February 1933: The Winter of Literature di Uwe Wittstock, in italiano Febbraio 1933. L’inverno della letteratura, tradotto da Isabella Amico di Meane e Giovanna Targia, e pubblicato da Marsilio. Il libro esamina la rapida ascesa al potere di Hitler e il conseguente declino della democrazia e dei diritti civili in Germania, attraverso le esperienze di scrittori e intellettuali come Joseph Roth e Thomas Mann, alcuni dei quali anticiparono la catastrofe, mentre altri esitarono, con conseguenze fatali.

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