Fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, i rapporti tra erotismo, letteratura, arte e cultura sono al centro di un dibattito denso e costante che coinvolge molti e molte intellettuali. Una selezione di questi interventi è stata raccolta in Erotismo e letteratura – Antologia di scritti militanti (1960-1976), a cura di Giuseppe Carrara e Silvia Cucchi (Mucchi, 2022), da cui pubblichiamo un testo di Parise, originariamente scritto nel 1975, ma pubblicato postumo solamente nel 2001 e un testo di Arbasino, originariamente uscito su “L’ulisse”, 1970.

 

Goffredo Parise – Aborto e omosessualità

Dopo il bellissimo intervento di Alberto Moravia sull’aborto in risposta a Pasolini c’è ancora poco di «ragionevole» da dire. Bellissimo articolo soprattutto là dove il «sentimento» non ragionevole del nostro maggiore (e alternativo) razionalista così si esprime: «… non sono come Pasolini per il controllo delle nascite: sono per l’abolizione, cioè per restituire il mondo alla natura e ricominciare tutto daccapo. E questo perché mi pare che, come tante altre specie oggi estinte, per esempio i grandi rettili dell’era mesozoica, l’umanità ha sbagliato strada e si è cacciata in un vicolo… perché continuare?…». Ora, il sentimento leopardiano del razionalista Moravia così scrivendo non ha forse inconsapevolmente, o forse, proprio razionalmente in omaggio alle istituzioni umane finora vigenti, tenuto conto di una frase, dall’apparenza discreta, in realtà rivoluzionaria o scandalosa, che è il centro del pensiero e il perno dell’articolo non scandaloso di Pasolini; il perno anche del suo tipo di razionalismo, che non è affatto distorto e sofisticato, dunque illogico come dice Moravia e come può apparire agli intellettuali che si scandalizzano: bene l’asse portante e rotante di tutta la sua lunga e spesso oscura trattazione sul coito (non sull’aborto). La frase è molto breve e appare di sfuggita: dice: «tecniche amatorie diverse».
Ora, le tecniche amatorie diverse a cui si riferisce Pasolini non sono altro che l’omosessualità. Cioè l’aspirazione ad una maggiore soddisfazione, molto più alta diffusione o «liberazione» (operativa) dell’omosessualità: a livello numericamente così elevato tra gli uomini tale da formare una terza sfera sessuale e non minoritaria, che non appartenga né al maschile né al femminile, cioè ai due poli primari che costituiscono la diffusione della specie; ma appunto all’o­mosessualità. È chiaro che le «tecniche amatorie» omosessuali non portano ad alcun risultato geneti­co, ad alcun tipo di riproduzione; elevando la società omosessuale ad una terza società sessuale, per così dire, ad una terza forza biologica, si ottiene la riduzione automatica (ipotetica, ideale) di natalità. Anche Carlo Emilio Gadda era del parere che l’omosessualità rappresentasse un freno «naturale» all’aumento della popolazione: capovolgendo il dogma per cui l’omosessualità è «contro natura». Non era mai giunto ad ipotizzare una intera società omosessuale alternativa così vasta e potente da formare un freno apprezzabile allo sviluppo demografico mondiale; Gadda era un razionalista dell’Ottocento, non un teologo del 1975; era però empiricamente sulla strada. Su questa strada si è mosso, anche lui inconsapevolmente, per sentimento del suo proprio razionalismo, Pasolini. Peccato che l’abbia detto con troppa discrezione, con troppo timore minoritario, e di sfug­gita. Ma egli non soltanto l’ha detto, confortando la dizione con l’analisi-lapsus del coito politico, ma lo stesso Moravia lo conferma quando scrive: «… egli (Pasolini) non sembra rendersi conto che non ci so­no due risposte cattoliche, la sua e quella della Chiesa, alla questione oggi dell’aborto e ieri del divorzio, bensì una sola. Perché se non si è con la Chiesa in questo come in altri problemi, allora bisogna essere dalla parte delle scienze umane…». Ora, esaminando la risposta di Pasolini che Moravia definisce cattolica, si vedrà che essa è una risposta cattolica che la Chiesa non può dare, non per negazione di fondo, per negazione teologica (l’omosessualità non può forse, anch’essa essere cattolica?) ma perché contrasta con le sue istituzioni, con le sue leggi per così dire igieniche, le leggi del consorzio umano che condanna o tutt’al più, oggi, tollera l’omosessualità come un vizio o una deviazione mentale e psichica. Sotto questo aspetto, la terza via, così discretamente solo accennata da Pasolini ma così illuminante tuttora sul suo pensiero è per sua stessa natura al di fuori della Chiesa conservatrice e al di fuori delle istituzioni degli uomini e delle società di tutto il mondo, anch’esse conservatrici, non per questo meno reale e rivoluzionaria. Insomma Moravia che, con il suo «sentimento» della ragione illuministica giunge ad essere così radicale da accettare disperatamente e storicamente l’ipotesi di una specie umana in estinzione; non giunge tuttavia a un meno radicale, meno poetico ma non meno reale «sentimento» (quello di Pasolini) che suggerisce nell’omosessualità di massa la risposta ai drammatici interrogativi posti dall’aumento demografico del mondo.

Pasolini è stato troppo discreto nel non dire con maggiore chiarezza e coraggio e apertura, la sua «via da seguire». Ma è giunto il momento di parlare e non sottacere: di parlare e di scrivere dell’omosessualità come una realtà e come una realtà non soltanto sessuale in costante aumento. L’omosessualità fino a questo momento è stata lasciata in disparte nel suo peso diciamolo pure politico, non si sa per quali ragioni, dalla stampa e dal pensiero attivo di tutto il mondo. Essendo una stampa e un pensiero che, per quanto liberi, obbediscono inconsapevolmente, per abitudine biologica prima ancora che storica, alle istituzioni e ai dogmi che invece, come dice bene Moravia, si usurano, si depauperano, decadono, muoiono. Dire per esempio che l’omosessualità è non soltanto una realtà (e non una realtà distorta come direbbero le istituzioni) ma una realtà che, maggiore si fa la tolleranza da un lato e la pressione vitale dall’altro, sempre più naturalmente si sviluppa. L’intelligente non detta ipotesi sociale (e politica) di Pasolini, detta però mille volte nei suoi film e nei suoi libri, è quella, appunto, di una «diversa società» sessuale, al di fuori dell’istituto biologico e sacrale maschio-femmina, e quindi al di fuori della riproduzione della specie: appunto una società omosessuale. Questa ipotesi biologica che concorda con il mutamento (e non necessariamente con la fine) della specie umana, non nasce affatto da un uso distorto e sofistico della ragione; al contrario, da una ragionata osservazione pratica della realtà in cui viviamo, che può riassumersi in: più omosessualità meno figli. Ora questo non può essere un pensiero cattolico, e nemmeno un pensiero laico (quello dei radicali, per intenderci) ma un pensiero che in parte coincide con il pensiero cattolico (non sopprime una vita già in atto) e in parte con il pensiero laico e progressista (il mutamento delle cose nella società, perfino nella specie). Resta da vedere perché Pasolini ha solo sollevato, ma non agitato, la bandiera della terza forza biologica e alternativa. Forse perché ne soffre ancora psichicamente, le segregazioni «minoritarie», come egli dice, molto più probabilmente, secondo me, perché in un artista e in un uomo politico (e istituzionalmente politico) come Pasolini insorgono motivazioni che non sono più soltanto biologiche, sull’argomento, ma si fanno per la «forza delle cose», teologiche. L’ipotesi sociale e politica, di una terza forza alternativa, sessuale e politica, all’alluvione demografica nel mondo (l’omosessualità) non può e non deve essere soltanto razionale e razionalista ma, dati i problemi che investe, si fa naturaliter filosofica e teologica. È un immenso cumulo di istituzioni primarie che vanno a gambe all’aria, a cominciare dall’istituto del coito a quello della famiglia, a quello dell’intera società in cui viviamo. Senza un conforto teologico non è possibile sostenere anche solo l’idea di una simile rivoluzione. Pasolini, come altri, persegue la strada dello scandalo teologico, prima ancora dello scandalo biologico, dunque sociale, dunque politico. Non si dimentichi che l’omosessualità ancora considerata come minoranza, e come tutte le minoranze ai loro albori poggia le sue rivendicazioni e le sue conquiste su piani morali e finalità ben più alte che quelle semplici e operative del «diritto alla sopravvivenza». Senza «diritto di conquista» non c’è diritto di sopravvivenza. E il diritto alla conquista si ha soltanto se sorretto non soltanto da una lotta sociale e politica, ma soprattutto da finalità teologiche. Bisognerebbe sapere quali sono gli dei e gli idoli a cui la teologia omosessuale, nella sua rivoluzionaria ascesa, obbedisce. E quali sono le nuove leggi da essi imposte. Ma questo è argomento che esula dal presente dibattito. Qui manca la mia personale, e altrettanto teologica convinzione, così lontana dalle programmazioni burocratiche sull’aborto. Io non sono, d’istinto, per la legalizzazione dell’aborto per le ragioni già scritte da Moravia, da me citate all’inizio di questo articolo. C’è una fatalità, nelle cose, c’è, come dico per la terza volta, una «forza delle cose». Tuttavia sono, istintivamente contro l’aborto non per le motivazioni di Pasolini, né per quelle della Chiesa cattolica. Non per le leggi, vecchie o nuove, sull’istinto del vivere, quanto viscerale e ogni giorno commosso abbandono alla forza delle cose, alla forza della vita.

 

Alberto Arbasino – Eros e Thanatos oggi in Italia [1]

Eros e Thanatos, le due forze che sospingono selvaggiamente l’uomo per buona parte della psicanalisi, saranno istinti – Impulsi – forse opposti (Freud, Kinsey, la Santa Sede), o probabilmente intrecciati (Sade, Baudelaire, Bataille). Portano magari alla Riproduzione, e insieme alla Consumazione, di se stessi e degli altri. Agiscono come se la propria Natura fosse l’albergo spagnolo delle metafore: chiunque vi porta ciò che vuole, o ciò che può. Si comportano bizzarramente nei confronti della Vita; e più ancora, nei confronti del Vitalismo. Mescolano Piacere e Sofferenza in tutte le proposizioni pensabili… Dunque ogni società li colpisce con tabù pittoreschi e abbondanti interdetti, offrendo come conseguenza una vastissima scelta di trasgressioni. Ma interdetti e tabù variano con scarti così folli, da rispecchiare infine in misura fin troppo ampia le manie e i deliri e le indulgenze del milieu che li emana o li accetta.

Cominciamo con le parole. Qui la serie di Eros (chiavare, scopare, ecc.) è sempre stata molto più copiosa e più varia della serie di Thanatos (ammazzare, uccidere, ecc.) Ma tutti i termini della prima sono costantemente colpiti da rigorose interdizioni, mentre i termini della seconda appaiono socialmente e culturalmente accettabili, in qualunque contesto parlato e scritto.

Al contrario, l’atto definito dal termine interdetto (serie di Eros) non viene affatto censurato dalla società, che riprova invece, e gravemente, l’atto a cui si riferisce il termine – consentito – della serie di Thanatos.

Basta confrontare tre coppie di esempi:

1) A. si lascia sfuggire, chiacchierando il termine scopata, riferito ad altri. Viene (per lo più) riprovato.
2) B. pronuncia, chiacchierando, sempre riferendosi ad altri, il termine uccisione. Nessuno, mai, lo rimprovererà per la sua sconvenienza.
1) A. comunica, in prima persona: «oggi ho fatto cinque scopate». Suscita (generalmente) ilarità, bonarietà, ecc.
2) B. dichiara, anch’egli in prima persona: «oggi ho ucciso cinque persone». Provoca, costantemente, orrore, raccapriccio, ecc.
1) A., parlando nuovamente d’altri, racconta con dovizia di particolari una scopata eseguita da C. viene nuovamente riprovato.
2) B., parlando egualmente d’altri, illustra un’uccisione eseguita da C., con tutti i particolari. Assai raramente sarà rimproverato.

(Nei due ultimi esempi, ha scarsa influenza la circostanza che i due racconti non si fondino sulla testimonianza diretta, bensì sulla cronaca dei giornali o su altre fonti mediate).

I tabù sociali

Le follie manifestate da questi tabù sociali si complicano subito, con vistose insensatezze, qualunque aspetto ne venga considerato.

Ogni società è tutt’altro che compatta. Dunque taluni gruppi o individui possono manifestare un vivo interesse – e altri, un vivo fastidio – per tutto ciò che riguarda la scopata: sia l’altrui, sia la propria. L’uccisione altrui sembra incontrare invece una diffusa, generica indifferenza, a meno che l’interesse dei mass media non la promuova a bestseller, come se si trattasse di un fidanzamento principesco o di un divorzio tra stars.

La nozione astratta (di scopata, e di uccisione) Deve fare i conti innanzitutto con la carenza quasi universale di una scala comparata dei valori. questo si riflette già nell’incertezza terminologica.

Esempio: una scopata è più (o meno) ‘brutta’, ‘cattiva’, ‘grave’, ‘antipatica’, ‘spiacevole’, ‘odiosa’, ‘noiosa’, ‘irritante’, ‘graffiante’, ‘imperdonabile’, ‘inammissibile’ di una uccisione?

Se è più brutta, più cattiva, più grave, perché allora viene punita più lievemente?

Se invece è meno grave, meno antipatica, meno spiacevole, perché mai, a differenza dell’uccisione, non puoi venir nominata col suo nome, ma solo attraverso perifrasi?

Si inseriscono qui due abnormità istituzionali che caratterizzano la disciplina concreta dell’atto di Eros e dell’atto di Thanatos.

Il primo è ripetibile, sulla stessa persona. Il secondo porta invece con sé conseguenze irreversibili. Ma la circostanza che alla scopata ci sia sempre un rimedio, mentre all’ uccisione no, ha scarsissima rilevanza nella pratica.

Grande importanza rivestono invece i moventi: in quanto, in base al principio de «il fine giustifica i mezzi», forniscono un ricco assortimento di «eccezioni alla regola» nel caso dell’uccisione, e nessuna nel caso della scopata.

L’uccisione, infatti, viene consentita incoraggiata e approvata se compiuta in numerosissime fattispecie: impulsi militari, istinti patriottici, spinte sportive, motivi ideali, movenze religiose, suggestioni oratorie, ordini autoritari, eccitazioni pulsionali, rettorica marittima, poetica coloniale, tradizione aviatoria, provocazione politica, difesa di astrazioni consolidate dall’uso, ecc.

La scopata, invece, non gode di nessuna giustificazione. Non si celebra, né si apprezza, la scopata per la Patria, per la Chiesa, per l’Onore, per ordine dei Superiori, per restare sulla corazzata che affonda , per salvare l’aereo di linea, per difendere Casa Savoia invocandone il nome al momento del climax, per non svelare i piani dello Stato Maggiore, per non rivelare il nome dei congiurati, per acquistare alla Nazione nuove terre da dissodare o nuovi giacimenti da sfruttare.

Anzi, come ognun sa, i codici alleviano l’uccisione per cause cervellotiche capricciose fino a renderla un reato incomparabilmente più futile della scopata aggravata dei propri fini istituzionali, cioè la causa di libidine.

Passando a considerare la rappresentazione specifica dei due atti di Eros e Thanatos, si nota subito una flagrante contraddizione nella prassi. Viene infatti consentita senza alcuna titubanza la rappresentazione dell’atto irrimediabile dell’uccisione, mentre si avversa tenacemente, e da più parti, la rappresentazione dell’atto rimediabilissimo della scopata. Di conseguenza, anche le locuzioni che li definiscono seguono la medesima disciplina (senza la minima rilevanza per la ben diversa pesantezza delle rispettive conseguenze).

Esempio:

– «Ti sei riempito il corpo di piombo!» «Impicchiamo lo a quell’albero!» «Fate fuoco!» «Bilancio della giornata: cinquanta morti e cinquecento feriti!» (Si tratta qui di frasi permesse, normalmente accompagnate dalle immagini relative).

– «T’infilo un dito nel culo!» «Vieni qui che ti scopo» «Tutto in bocca» ecc. (Si tratta invece di frasi proibite, accompagnate da rigorose interdizione delle immagini relative).

In questo settore la causa primaria del disordine dei deliri va ricercato nell’incertezza persistente intorno a una questione fondamentale: la rappresentazione di un gesto ha come effetto diretto di spingere lo spettatore a effettuare quel medesimo gesto al più presto? Oppure funziona come valvola provvidenziale che fornisce uno sfogo vicario alle emozioni della stessa serie?

Nel primo caso, tutte le rappresentazioni del gesto di Thanatos andrebbero rigorosamente vietate, per sempre e a chicchessia.

Nel secondo caso, andrebbero energicamente incoraggiate le rappresentazioni del gesto di Eros, da parte di una società che tende a vietarlo nella pratica quotidiana, o settimanale. E naturalmente, quanto più una società si dichiara e si vuole moralistica, tanto più pressante dovrebbe risultare un tale incoraggiamento.

Da una confusione a unaltra

Da questo grosso pasticcio si sviluppano quindi numerose confusioni ulteriori:

Si confondono erotismo e pornografia, col pretesto di distinguerli, partendo cioè dal principio che l’erotismo sia destinato alle classi facoltose in edizione di lusso accessibili solo ai dirigenti, ai benpensanti, alle élites, mentre la pornografia viene consumata solo dei meno abbienti, e comunque in confezioni di massa.

Si confondono l’erotismo e l’attività sessuale, col pretesto di definirne le sfere rispettive, presupponendo che – a parità di funzionamento quali «strumenti di conoscenza» (Bataille) – sia vero erotismo o più erotismo l’attività speculativa e libresca dell’individuo non bello e non sexy che si limitano (sventati!) a scopare scopare e scopare senza riflettere. Così, come il vero viaggiatore lavorerebbe soprattutto sulle carte geografiche senza uscire di casa.

Si effettuano – nel costume – traslati addirittura cervellotici, come quando (ad esempio) l’espressione «che chiavata!» gradualmente abbandona il suo significato originario ben preciso per assumere connotazioni successive di disdetta («ho perso il treno!», «ho perso la macchina!», «ho perso la partita!», ecc. ecc.) fino a denotare l’esatto contrario, cioè: «non ce l’ho fatta!» (con riferimento specifico a un episodio sessuale)[2].

Si finisce per addossare – accanitamente in tutte le lingue: ‘buggerare’, ‘buggerata’, ‘buggerone’ (it.); ‘bugger’, ‘buggery’ (ingl.); ‘bougre’ (franc.); ecc. ecc. – chissà perché, proprio ai Bulgari, l’origine di quelle pratiche sodomitiche già tanto cospicuamente fiorenti nell’Ellade classica e nella Roma caput mundi, assai prima dell’età d’oro di Sofia.

L’erotismo in Italia, oggi

Tuttavia, l’erotismo non esiste, nell’Italia moderna. Quantunque se ne discorre a sovente, e goffamente, non sembra esistere né a livello di costume, né sul piano della cultura.

Non ne costituiscono prova, infatti, né sintomo:

né la presenza di talune opere letterarie artistiche risalenti normalmente al Cinquecento (Aretino, Baffo, Giulio Romano) e da allora generalmente inaccessibili;

né la tradizionale, disinvolta bisessualità della classe proletaria e della classe ricca in numerose regioni (Lombardia, Veneto , Emilia, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Sicilia);

né la costante febbrile repressione sessuale della classe piccolo-borghese, aggravata da innumerevoli tabù perbenistici, dalla coabitazione familiare, dal controllo esercitato full time dai vicini e dei conoscenti, dai drammatici assilli dell’uscita, del rientro, della chiave di casa;

né i frequentissimi assalti alle bimbette da parte dei bruti nella regione piemontese;

né quei grandi sfoghi periodici e collettivi di energia omosessuali inconscia (o piuttosto, involontaria) che vengono provveduti dalle partite di calcio;

né il carattere della manifestazione statisticamente più frequente della sessualità nazionale, cioè il breve sommario incontro fra l’uomo e la prostituta dietro il cespuglio o dentro l’automobile;

né l’ interminabile chiacchiera sul sesso, sostitutiva del rapporto sessuale anche più rudimentale;

né la sovraeccitazione durante i lunghi periodi d’astinenza, capace di risolvere in ‘fiasco’ ogni rarissima chance;

né la cospicua presenza dei travestiti, in qualunque città italiana grande piccola, generalmente in azione a gruppi, e sottoposti a frequentazioni intense da parte di due categorie ben precise:

– giovani proletari, sempre in comitiva, per lo più legati da vincoli di parentela (fratelli, cognati, cugini), e in piccola cilindrata;

– professionisti borghesi di mezza età, dall’aspetto severo; sempre in media cilindrata; sempre con gli occhiali; sempre soli.

In quanto al Pensiero, né la saggistica scientifica né l’invenzione artistica né l’attività artigianale sembrano aver prodotto, da molte generazioni, in Italia, opere erotiche paragonabili ai capolavori inglesi e francesi del Settecento, dell’età vittoriana, della Belle Époque, e neppure avvicinabili all’ efficientissima hard core pornography dell’America contemporanea. Due sole eccezioni: D’Annunzio e Puccini, in precario equilibrio (Il piacere, La Tosca) tra volonterosità e perfidia.

La Morte ha una presenza innegabilmente più viva, nella produzione letteraria italiana; tuttavia la sua inferiorità statistica risulta nettissima nei confronti dell’Infanzia liricamente vagheggiata.

Anche il cinema italiano, riguardo all’ Eros, sembra indugiare tuttora intorno al sub-dannunzianesimo casalingo di Annie Vivanti e di Amalia Guglielminetti, oppure alla barzelletta ferroviaria derivata – bene che vada – da Petrolini, oppure alla concupiscenza bambinesca, golosa e indifesa, per il costume nordico-biondo e il sadomasochismo dei fumetti ‘grigi-scuri’.

La canzone italiana, poi, rielabora costantemente i temi dell’abbandono, della partenza, della lontananza, del distacco, del dissapore, del malinteso, del pentimento, del rimorso, dell’incomprensione. Nei casi più avanzati, esplora le possibilità del sarcasmo e dello sberleffo. Ma, a differenza della canzone francese o inglese o americana, qualunque tipo di rapporto sessuale rimane profondamente estraneo a ogni sua esperienza, saldamente ancorata ad affetti di qualità materna e filiale.

Infine, nella vita sociale italiana, l’erotismo risulta praticato da pochi individui a carattere cosmopolita, frequentemente menzionati nelle cronache, ma esercenti un’attività del tutto minoritaria e trascurabile, o addirittura eccentrica[3].


[1] «L’ulisse», 1970, pp. 67-72.

[2] Un esimio collega semiologo, Umberto Eco, mi fa osservare a questo proposito che – generalmente – il transfert semantico attribuendo la connotazione di somma disdetta all’ espressione «che chiavata!» identifica questa istintivamente non già con un rapporto sessuale ‘medio’, bensì con la iattura di chi subisce un amplesso omosessuale improvvisamente del tutto controvoglia. Tuttavia, nella pratica quotidiana media odierna, una simile eventualità si verifica così raramente ai danni di chi adopera quell’espressione con tanta leggerezza (in altre parole: la subisce soltanto chi vuole, cioè colui per il quale essa non rappresenta una iattura, anzi, il contrario) da rendere, semmai, ancora più imbarazzante la prontezza e la frequenza di tale associazione di idee.

[3] Anche gli avvenimenti più recenti finiscono per confermare indirettamente le generalizzazioni qui tratteggiate.

Ad esempio, la mirabolante serie di trouvailles sessuali ‘avanzate’ chi fra l’autunno e l’inverno ha conferito a Torino una posizione di primato fra le metropoli industriali di punta («…si divertiva a spegnere i mozziconi di sigaretta nel sedere del meridionale trasformato in sciantosa a Casablanca e legato al termosifone per subire le cinghiata , a diecimila lire cadauna, più una bottiglia di barolo d’annata, insieme alla mondana dal nome francese rinvenuta sgozzata… ecc. ecc. …i tre travestiti, che convivevano more uxorio smerciando esplosivo agli estremisti in una graziosa mansarda del più puro barocco piemontese, non sono in grado di ricordare le vendite effettuate nel mese scorso, data l’intensità del traffico… ecc. ecc.») viene puntualmente illustrata dal quotidiano locale con dovizia di particolari curiosi, però contemporaneamente massificata al livello del consumo per l’utenza più vasta, mediante l’ accorgimento dell’ inserzione, fra esplosivo e frustata, dell’ invito a rinnovare sollecitamente gli abbonamenti per il 1970 al giornale tipicamente più adatto a circolare fra tutte le mani, dalla bambina alla nonnina.

E ancora, il significativo trionfo all’ultimo Festival di Sanremo della canzone che con più immediata emblematicità cancella l’Eros per proporsi come Inno alla Repressione, fondato su una ricerca di mercato che suggerisce la combinazione dei seguenti elementi:

– l’indifferenza di fronte all’Amore;

– la mercificazione dell’atto sessuale, oggetto di baratto e ricatto;

– il backlash politico seguito all’ autunno caldo;

– il logorio dello slogan fate l’amore, non la guerra e dei suoi derivati;

– il successo di Give Peace a Chanche, come cantilena più che come contenuto;

– la nostalgia della piccola borghesia inurbata di recente per gli impasti dei falsetti corali e notturni nei canti agrari che accompagnano da secoli grandi rituali padani della spannocchiatura, della vendemmia, della monda del riso.

Illustrazioni di Francesco Quadri

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