Sceso di casa, litigo con Gustavo per colpa del capitalismo. Non parliamo mai di politica e neanche stavolta. È una questione gnoseologica: lui sostiene che gli unici a sapere cosa sia il capitalismo sono quelli che sanno come funziona. Io sostengo che gli unici a sapere cosa sia il capitalismo sono quelli che ne vivono gli effetti.
Gli dico: «È come dire che chi sa come funziona una pistola sa cos’è una pistola. No? È chi si becca il proiettile che sa cos’è una pistola».
Mi fa: «Altrettanto».
«E no! Non altrettanto. Secondo te sa più cos’è un bruco chi lo studia per anni o un bruco che campa venti giorni?»
«Altrettanto!»
Il sorriso sereno, retroilluminato dai sacchetti psichedelici dei noodle, mi fa alzare la voce: «Sei sempre così qualunquista. Il bruco cresce, mangia, si muove e ha paura come un bruco! Il bruco fa la cacca come un bruco. Muore come un bruco. Il bruco è un bruco!»
Non dice niente e sorride. Vuole solo i miei soldi. Allora mi inalbero e gli do le spalle. Le mie braccia diventano rami e prendo tre Coca Zero dal frigo.
«Ne prendo tre perché su siamo in due».
«Altrettanto!»
Gustavo dice solo “altrettanto”. Non l’ho mai sentito dire altro a parte i prezzi delle cose. Qualche volta l’ho sentito mormorare le somme, col più sottinteso, ma euro sempre riportato – quattro euro cinquanta, due euro, un euro venti –, per lui la valuta è più importante del linguaggio formale e, visto quanto vale un taka al tasso di cambio, non posso biasimarlo. «Matematica di base più specchio riflesso. Basta questo per vivere all’estero. Eh, Gusta’?»
Non si chiama davvero Gustavo, ma Omar. Ho chiesto alla moglie il perché, l’unica volta che l’ho vista, e mi ha detto che i cinesi lo fanno, si scelgono nomi italiani: Cristina, Marco ed Elisabetta, perché i loro sono difficili da pronunciare. E allora loro due hanno pensato “perché i cinesi sì e i bengalesi no”? Lei, per esempio, ha scelto Carlotta Rachele Fedrigoni. Le ho detto che Omar però è facile da pronunciare. Mi ha risposto: «Altrettanto!»
Gustavo mi sorride ancora. Lo saluto sventolando il dorso della mano – un po’ De Sica un po’ Elisabetta II – e attraverso la strada facendo degli sgambetti mentali alle macchine per farmi passare. Accenno un saltello inutile per darmi l’abbrivio. Vuol dire che comincia a far freddo. Faccio scivolare le asole del sacchetto di plastica dalla mano al polso per accendere una sigaretta. Ne fumo un terzo e mi si avvita un pensiero in testa: devo sapere perché proprio “altrettanto”.
Butto la sigaretta nella griglia di un canale di scolo, in una sorta di greenwashing percettivo – se non la vedo sull’asfalto, maciullata dalla suola, non l’ho mai davvero buttata – e rifaccio i miei sgambetti sulle strisce per tornare da Gustavo.
Gustavo non è mai sorpreso di vedermi. Non lo sarebbe neanche se rientrassi quattro volte in un’ora e ventisette minuti (è capitato solo una sera: Francesca era andata a una seduta di armocromia neuronale al Dipartimento di Fisica del Politecnico e io mi ero cimentato in una degustazione di patatine da tutti i continenti, senza pairing).
«Ciao, Gustavo!» Se c’è qualcosa che so fare bene è sembrare sempre io quello strano, in ogni situazione.
Gustavo sputacchia le bucce di alcuni semini grigiastri e mi sorride di nuovo. Ho idea che sia molto serio quando non lo guardo.
«Volevo chiederti: perché proprio “altrettanto”?»
Sta per rispondermi “altrettanto”. Lo so. Lo sento. Lo voglio. Gustavo è lo svitato che compare per un minuto nelle sitcom, dice la sua battuta e tutti ridono.
«Devotolli giugno».
Ok. Calma. Ha detto le sue prime parole, anche se non hanno senso. Cosa c’entra giugno se siamo a ottobre?
«Cosa?»
«Devotolli giugno!»
Mi emoziono come se mi avesse detto “mamma”: «Dai! Provaci ancora!»
Smette di sorridermi e tira fuori un volume giallastro. Guardo il libro, guardo lui, guardo di nuovo il libro. È il Devoto-Oli Junior.
«Devotolli giugno!»
Non fa una piega. Sono costretto a ripeterlo sommessamente, i pensieri si attorcigliano, mi escono dalle tasche: «Devotolli giugno».
Apre il libro e mi indica il lemma. Non riesco a capire se il suo indice sia sporco o no. È molto strano. È strano anche che le unghie degli altri mi facciano così schifo, mentre le mie le tormento di continuo.
L’indice di Gustavo è ancora lì, su altrettanto. La prima definizione recita “Nella stessa misura di quanto detto prima”. Non leggo le altre. Gli chiedo: «Ma sai cosa vuol dire?»
Scuote la testa.
«E perché lo dici sempre?»
Mi guarda; poi, come un mago, fa spuntare un altro libro. È un dizionario di bengali. O una raccolta di scarabocchi molto ordinati – non è la stessa cosa?
Gustavo cerca una voce e me la mostra. Annuisco ormai esausto; non saprò mai cosa c’è scritto. È il segno bengalese per “altrettanto”? E come fa a saperlo?
«Altrettanto?»
«Altrettanto».
«E come fai a saperlo?»
Gustavo tace, schiude le labbra, trasale. Il dubbio esplode nel suo occhio destro.
«Non ne hai uno italiano-bengali?»
«No».
«Bella rogna».
Passiamo la mezzora successiva a fare il gioco dei mimi. Ho bisogno che Gustavo conosca un paniere di parole base prima di consultare il devottolli giugno. Occupo la scena tra lo scaffale delle salse e quello delle patatine. Gli mimo, nell’ordine: prendere, lasciare, camminare, saltare, sorridere, amare, arrabbiarsi, picchiare. Mi accorgo che mimare i verbi è molto più facile che mimare sostantivi e aggettivi. Fantastico sul Nobel che vincerò grazie a questa scoperta. Devo muovermi con la logistica: chiedere ferie, prenotare voli per Stoccolma, comprare guida, scegliere cosa mangiare. Cosa devo portare? Forse il cappotto è un po’ troppo. Forse stare leggero mi farà confondere tra i locali. Sono schiavo anch’io della repulsione generazionale per un normale viaggio da turista: no albergo, sì casa; no monumenti, sì passeggiate; no centro, sì quartiere hip lontanissimo. Questo è il minimo indispensabile. Poi c’è la ciliegina: avere un basista locale. Se italiano, trenta. Se del posto, trenta e lode. Poi si torna, si dicono cose come “no, ma noi eravamo a Williamsburg”, “praticamente c’è questo posto che non conosce nessuno, ci vanno solo i local: non lo trovi nelle guide”; “no, ma io non ho mai visto il Louvre”; “per fortuna avevamo Gunter. L’hai conosciuto Gunter, sì? È venuto a Milano per il FuoriSalone”, “ma guarda che in realtà ’sta cosa che gli inglesi guidano a destra non è proprio vera vera”. Sono confuso. Adesso mi odio.
Mi vibra il bacino: è Francesca.
«Dove sei finito?»
«In una lezione d’italiano per stranieri».
Mette giù. Gustavo capisce e ficca tra i denti un’altra manciata di semini. Lo saluto di nuovo, stavolta senza mani.
Trovo Francesca sul divano. È arrabbiata, ma non abbastanza da litigare. Apro due delle tre lattine e provo a spiegarle perché sto leggendo il Quohelet, altra deformazione radical-nerd di cui sono schiavo: fingere di godersi la Bibbia come fosse un Harmony. Non coglie il mio entusiasmo: lo accetta come si fa con un figlio storpio.
In tv c’è Un giorno in pretura. Un giorno molto strano, pare. Un uomo ha ucciso sette persone in tre ore, ma ne voleva uccidere solo una. È andata così: Marito (nome di fantasia) non sopporta più Moglie (nome di fantasia) perché́ sono tre anni che insiste per andare in crociera. Marito non vuole. Moglie si fa mandare brochure da tutte le compagnie: le infila nei libri, nelle riviste, nelle scatole dei biscotti. Comincia a girare per casa in costume, mette in scena una serata danzante, vomita di proposito dal balcone e poi dice “torniamo in cabina”. Marito non ne può più. A sentirlo adesso sembra esagerato, ma nessuno di noi è mai stato nei panni di Marito. In lui cresce una pulsione omicida. Dapprima l’immaginazione è lasca, sfocata; poi le forme e i colori dell’omicidio diventano sempre più nitidi. Prima sulle scale, poi in garage, poi in cucina col veleno. Le fantasie sfumano velocemente in un piano preciso. Marito ha un’idea: farà fuori Moglie e darà la colpa a Suocera (nome di fantasia). Marito ha sessantadue anni, è un uomo del Novecento, per questo il suo piano è incentrato su un espediente vintage come le impronte digitali. Aspetta che Suocera vada a trovarli, ammazza entrambe e poi usa le dita di Suocera sul posacenere con cui ha fracassato la testa di Moglie.
È entusiasta, frenetico, impaziente: tutti daranno la colpa a Suocera. Ma chi ha ucciso Suocera? Il panico assale Marito. Marito assale il vicino. Lo ammazza, lo porta in casa e usa le sue impronte digitali sul coltello con cui ha ucciso Suocera. E così via. Marito non ci pensa nemmeno più: scende per strada, ne accoppa un altro e ne ruba le impronte. L’escalation omicida diventa un rito amministrativo. Va avanti così con altre tre persone, loro malgrado dotate di dita. Finalmente, qualcuno chiama la polizia: Marito scompare nel nulla. Lo prenderanno tre settimane dopo, al porto di Brindisi, coi pantaloni alla zuava.
M’intrattengo per ascoltare la fine della storia, ma va troppo per le lunghe e decido di uscire in balcone per fumare un’altra sigaretta. Le ultime parole che ascolto, pronunciate dal PM nell’arringa finale, recitano più o meno così: “…e infine, con oltraggiosa ironia, Marito si reca al porto di Brindisi e s’imbarca beato su una crociera di tre settimane: Il Cairo, Mar Rosso, Turchia, Grecia”.
Le sigarette che fumo in balcone sono diverse da tutte le altre. Non fanno male solo ai polmoni, ma anche alla testa. Sento il bisogno di annunciarle ogni volta – “esco a fumarne una” – e lo faccio, quasi sempre, quando penso che Milano mi sputerà via come una cosa tra i denti. Un’erbetta che si ostina a restare tra gli incisivi dei bastioni e i molari della periferia. Una piccola fibra di pollo che non è al suo posto, ma nessuno è ancora riuscito a schizzare via con la lingua. Una persona, un uomo, io: avvinghiato a una vita che non merito, da cui temo sarò presto scacciato. Cosa che accade ogni mezzora, più o meno.
Penso a Marito in crociera. Arriva in cabina, infila con calma i vestiti sulle grucce. Dorme un’oretta. Fa un bagno caldo. Mette la giacca buona e scende per la cena nel gran salone. Millefoglie ai frutti di bosco: i lamponi hanno lo stesso sapore dopo che hai ucciso tua moglie? Dolorosamente, sì.
Poi conosce Cinzia, anche lei è sola. La crociera gliel’hanno regalata i figli. Il giorno dopo s’incontrano per caso. Si danno appuntamento per il giorno dopo ancora. Cinzia non sa nulla, sulla nave non guarda la tv. Passano il resto della vacanza insieme. Marito prova brividi che non sentiva da tempo: si sente in colpa perché si è fatto l’amante. Poi ci pensa e non si sente più in colpa. Arriva l’ultimo giorno; infine sbarcano. Marito non riesce a salutare Cinzia come si dovrebbe. Lo prendono all’ultimo gradino della scaletta e lo portano direttamente a Un giorno in pretura.
Finita l’elucubrazione, accendo la sigaretta e mi siedo. Quando sono qui, penso molto. Almeno penso. A volte provo a fare small thinking: passo dal meteo alla disposizione dei mobili in sala, spesso decido cosa mangiare domani. Lo faccio per distrarmi, per avere qualcosa da googlare, guardare, swipare, leggere, commentare, twittare; in buona sostanza, per respirare. È inutile. La metà che non controllo riesce sempre a pensare a quello che vuole lei: alla cosa incastrata tra i denti, al futuro, a sopravvivere e a non restare solo.
Quando la sigaretta finisce ne vorrei un’altra. A volte me la concedo. Un’altra boccata di fumo tra tante di mefitico ossigeno. Stavolta no, rientro subito. Mi siedo. Sfioro il culo di Francesca con il mio. Mi sento al sicuro, come a Natale. Francesca si addormenta. Cambio canale, spengo la tv, mi godo il momento. Le carezzo la guancia, non riesco mai a non farlo. Lei sbuffa, forse si risveglia. Irrompe un sassofono: viene dalla TV, ma la TV è spenta. Me la faccio sotto, Francesca si sveglia e se la fa sotto anche lei, solo perché io me la son fatta sotto. Accendo la TV e il sassofono continua ad andare, arriva da una replica di Cucine da incubo. Quando smette, Cannavacciuolo sta presentando il restyling del ristorante. Un signore sdentato piange, i figli lo consolano. Da quel che vedo, doveva rispondere allo stereotipo di duro-dal-cuore-tenero. Il modo in cui rifanno i locali mi fa sempre vomitare. Prima del restyling, ogni ristorante è bruttissimo a modo suo; dopo, è solo brutto, ma sempre allo stesso modo, come partorito dalla coscienza collettiva di una coppia che è stata a Copenaghen lo scorso weekend.
Francesca si riaddormenta e io, per pietà – e per stare da solo – la sveglio e la porto a letto. Portare vuol dire solo camminarle di fianco e inciampare nella coperta che si porta addosso. Poi torno in sala, mi arrendo alla voglia di quella seconda sigaretta. Per non perdermi l’unica parte che mi piace del programma, resto in piedi sull’uscio e sputo fuori il fumo. Lo chef racconta il menu, si vedono i piatti per benino e uno per uno: zoom-in, zoom-out, zoom-in, zoom-out; poi tutti assaggiano e pigliano amichevoli mazzate dallo chef.
Quando ognuno ha finito di declamare quanto succulento sia il carré d’agnello, equilibrati s’uniscano i gusti di ombrina e friarelli e delicata si presenti la tarte tatin, spengo e raggiungo Francesca in camera da letto. Questa camera di compensazione, fra il momento in cui Francesca va a letto e il momento in cui ci vado io, c’è sempre. Può durare da due minuti a qualche ora, ma c’è sempre. Mi sdraio sulla coperta, ancora vestito, le faccio due moine, la guardo. Francesca è fatta così: ha i capelli rossi, la pelle bianca e le guance enormi. Il profumo più buono del mondo si trova nel centimetro tra guancia sinistra e collo. Il secondo più buono si può apprezzare a destra. Gli occhi sono lunghissimi e quando ride non ce li ha. Soffre di questa cecità binaria: non può ridere se vuol vedere né vedere se vuole ridere. Parla tanto e lascia tutto ovunque. Ha una terrificante intelligenza, per lo più emotiva. Non unisce i puntini, li capisce. Ti legge nel pensiero, ma non te lo dice perché si sente in colpa. Fa tutte queste cose anche mentre dorme, così adesso ho paura a starle accanto. La possibilità che possa sbirciare nella mia testa, in certi momenti, in certi pensieri, mi terrorizza più di essere accoltellato in via Padova da uno qualsiasi. Al più, preferirei che fosse lui a leggermi nel pensiero e Francesca ad accoltellarmi. Improbabile.
Mi tiro su e torno in sala. Non ho sonno. Sono sempre felice di non avere sonno. Vado in balcone. Non posso vedere l’insegna di Gustavo, ma il neon blu che incornicia la porta si riflette distorto nel finestrino di una Clio. Quasi mi commuove. E se fossi stato io Marito? Avrei ammazzato Moglie? Se fossi stato in ogni secondo di ogni ora di ogni giorno della sua vita, sarei arrivato allo stesso punto? Sarei stato diverso, se avessi vissuto esattamente gli stessi imbarazzi, traumi, ricordi, sogni, illusioni? O un determinismo idiota e cieco non avrebbe fatto differenza tra me, lui o chiunque altro?
Quasi voglio bene a Marito. Se ci penso, voglio bene a tutti. Perché avrei potuto essere tutti. Perché potrei essere tutti. Perché sono tutti. Sono Marito, che vuole solo essere lasciato tranquillo. Sono Moglie, che voleva solo andare in crociera. Sono Francesca, che voleva solo leggere nel pensiero. Sono Gustavo. E devo scendere a dirglielo.
Imbocco per l’ennesima volta la via per l’uscio – E se fossi Gustavo? Mi guarderei entrare ancora una volta, di fretta per nessun motivo, inconsciamente borioso, superiore. Me ne fregherei, sorridendo. Vivo in una casa a Rozzano con altre sette persone. Scendo divorando i gradini, ne manco uno, la testa mi finisce tra le scapole. E se fossi Gustavo? Terrei i piedi al fresco, potrei cambiare nome quando voglio, sgranocchierei semini tutto il tempo. Crederei ciecamente in un Dio invece di cercare significati dappertutto. Sento il clack del portone, lo scarto, corro verso la strada. E se fossi Gustavo? Se entrassero nel mio negozio centinaia di persone che si credono migliori, che mi parlano lentamente e ad alta voce come fossi un minus habens, solo perché non so la loro lingua? Solo perché letteralmente ho meno. Loro non avrebbero mai il coraggio di aprire e gestire un negozio in Bangladesh, di trovare i fornitori e gestire la contabilità a Dacca, Khulna o Rajshahi.
Attraverso senza pensarci, entro così di corsa che devo frenare per non schiantarmi sul frigo. Gustavo non c’è, la sedia è vuota – E se sono Gustavo? – sto disimparando a parlare. Forse sono Gustavo. Mi siedo sul suo sgabello. Sul mio sgabello. Apro il devotolli giugno, poi sento una voce: è Gustavo, viene da me, tirandosi su la zip: «Oh! Negozio mio!»
«Altrettanto!»