Prima che la sua gatta Joni se ne andasse per sempre, Alice l’aveva abbracciata, quasi sparendo in quel pelo lungo e grigio che nel tempo aveva visto scolorire, e le aveva chiesto di dirle qualcosa. Non ricordava niente di quando era piccola, soltanto il suo primo traballante passo, ma era sicura che una volta, una soltanto, Joni avesse pronunciato il suo nome, per poi richiudersi nel suo mutismo di sempre. Alice stringeva Joni e le diceva nell’orecchio: «Ti prego, solo questa volta» mentre suo padre, stranamente rosso, le diceva che dovevano andare. Joni non le aveva parlato, le aveva leccato il mento ed era scomparsa.
La consolò un asino, durante una visita a una fattoria didattica, in seconda elementare. Una maestra aveva detto che era fondamentale che i bambini potessero passare qualche ora in compagnia degli animali, per imparare la loro lingua. Pensando che avrebbe davvero parlato con loro, Alice aveva preparato una lunga serie di domande da porre: che cosa sognassero di notte, ad esempio, o se credessero in Dio. Il padre, la notte prima, sostenendola in questa fantasia e descrivendole le voci delle bestie, non aveva fatto che accrescere la sua delusione. Alla fattoria le galline si limitavano a sbatacchiare le ali qua e là, le capre erano impaurite e ruminavano guardandola da lontano, i gatti erano gli unici affettuosi, ma con lei lo erano ogni volta, e loro, ormai lo dava per certo, non potevano parlare. Poi Alice aveva fatto amicizia con un asino dal pelo a chiazze. Vedendola avvicinarsi, quello inizialmente l’aveva guardata con le orecchie all’indietro e lo sguardo sfuggente, ma lei era paziente. Gli aveva accarezzato il grosso muso evitando i punti ciechi, poi gli aveva grattato il collo con un rametto, aveva conquistato la sua fiducia. Quello era così felice da battere le zampe al suolo.
Soltanto tre anni dopo, durante una nuova gita scolastica, una guida disse che avrebbero visto un sacco di pesci e degli asini dal manto bianco come la neve. «Non sono felici di esserlo, però. Se fossero grigi come gli altri, il sole non farebbe loro così male.»
Alice provò pena per loro e non vide l’ora di poterne accarezzare uno, così imboccò il sentiero rapidamente, stando alle spalle della guida. In fila indiana, con gli zaini in spalla, anche tutti gli altri bambini iniziarono a camminare, come in marcia. Alice guardò il mare e i cespugli secchi, ma quel paesaggio non le piacque. Le ricordava l’Islanda, o come la chiamava sua madre, la luna, ma lì la sabbia era nera, c’erano getti di acqua bollente che salivano da sottoterra, luci fluorescenti che illuminavano la notte e muschio che si arrampicava ovunque, fino ai tetti delle case. Di spiagge gialle e di mari azzurri, invece, ne aveva già visti per una vita intera, mentre un asino bianco non l’aveva ancora incontrato. Si chiese cosa le sarebbe rimasto da vedere, a quel punto.
Greta, dietro di lei, sentì il cuore calmarsi. Nonostante la spiaggia più vicina alla sua casa distasse quaranta minuti di autobus, aveva visto il mare soltanto cinque volte, nei suoi dieci anni. Studiò quelle sfumature di blu e di grigio, il frangersi dei flutti e il ritmo dei suoi passi sulla ghiaia, desiderò il silenzio degli altri bambini e pensò di chiederlo, ma poi tacque. Quando la guida ordinò di non toccare niente, lei iniziò a toccare tutto: carezzò i cespugli dei fiordalisi spinosi e il limonio, prese un sasso luccicante da terra, solo per scoprire che era il tappo di una di quelle birre che vedeva nel frigorifero di sua madre, afferrò la coda di una lucertola che riposava su un arbusto, ma la coda si staccò e quella fuggì. Greta gettò la coda verso la lucertola, senza scomporsi, quasi come per restituirgliela, e rivolse la sua attenzione a un bouquet di boccioli gialli e perfettamente ordinati. Fece per staccarne uno ma un urlo la interruppe, quindi si voltò. Un mare di teste era rivolto nella sua direzione, la guida la guardava con la bocca ancora semiaperta. «Quella che stai per toccare» fece. «È un’euforbia. Vi ho detto di non toccare niente.»
Greta ritrasse di scatto la mano e se la mise in tasca. La maestra la ammonì con lo sguardo, fece per avvicinarsi ma poi ci ripensò e seguì la guida, che intanto aveva ripreso a camminare.
Alice rimase a osservarla e Greta se ne accorse. Staccò una nananthea e se la mise fra i capelli col viso rosso di imbarazzo e rabbia. Alice assaporò quell’imbarazzo come lo zucchero nei rimasugli del caffè di suo padre, e indugiò troppo a lungo. Quando Greta corrucciò le sopracciglia, Alice si voltò prima che la compagna potesse dirle qualcosa e camminò a testa china, senza accelerare il passo.
Poi il vento cambiò. Portò un odore.
Alice lo ignorò, limitandosi a storcere il naso. Mentre camminavano, la maestra si coprì la faccia con la maglietta, chiedendo alla guida se non potessero, per favore, cambiare strada, ma lui rispose che quello era l’unico sentiero che potevano percorrere. L’alternativa era tornare indietro, quindi la maestra continuò a camminare senza ulteriori proteste.
Da lontano, Alice vide un formicaio enorme e seppe immediatamente che era quella la fonte dell’odore. Un cumulo di terra secca piena di enormi formiche che vi brulicavano sopra, proprio in mezzo al sentiero. Più si avvicinavano, più la nausea prendeva Alice dallo stomaco fino alla gola. Solo quando furono abbastanza vicini, la maestra bloccò la guida afferrandola per un braccio.
«Torniamo indietro» disse. «Non voglio che i bambini vedano.»
«Non è nulla di che, basta che diciamo loro di non guardare.»
Gli occhi della maestra incontrarono quelli di Alice, quindi si rivolsero nuovamente alla guida.
«Guarderanno comunque.»
Alice, solo a quel punto, ridefinì i contorni del formicaio. Prima si accorse che quelle che brulicavano non erano formiche, ma mosche, e poi che quello che aveva scambiato per un cumulo di terra era in realtà un corpo, il cadavere di un piccolo asino bianco riverso a terra e divorato dagli insetti.
La maestra fece segno ai bambini di fare dietrofront e loro obbedirono immediatamente.
«Chi è stato?» chiese la maestra alla guida.
«La sete.»
Lui andò in testa alla fila per guidare il ritorno, e lei rimase in fondo. Alice rivolse un ultimo sguardo all’asino, poi la maestra la spinse delicatamente per le spalle e le disse qualcosa. Non riuscì a sentirla, nonostante in pochi parlassero. Il silenzio contagiò anche i bambini in fondo, quelli che l’asino non l’avevano visto, e anche loro tacquero gravemente. L’unico suono udibile rimase la cadenza ordinata dei loro stessi passi, il mare e, appena percettibile, ma ben distinto dalle onde, la voce lontana delle mosche.
Alla fine del sentiero, nella strada verso l’ostello, Alice accelerò il passo e prese Greta per mano. Senza dirsi niente, le due bambine scapparono a vedere il mare.