I ragazzi sono spietati

I ragazzi sono spietati. Spietati e leggeri, nei loro sorrisi più dolci, quando arrivano nella casa vuota e la riempiono di versi innocenti; corpi agili e lunghi capelli in cui sogno di affogare.

Sono uscito in cortile – controvoglia – e li ho salutati; mentre mi sistemavo gli occhiali e mi abituavo alla luce del sole, una mattina di un paio di giorni fa. Hanno detto “Salve, saremo i suoi vicini per le prossime due settimane”. Ho sorriso, credo. Ci ho provato. Si sono slacciati i sandali, prima di sparire; li hanno gettati vicino al tavolo di plastica; si sono infilati dentro casa. Ho provato a dormire – dopo una notte insonne – ma continuavo a sentire le loro voci; sottilissime voci affilate rivolte verso di me. Mi giravano intorno nella penombra, così ho rinunciato a dormire. Sono andato alla finestra: li ho visti correre verso gli scogli, dove si sono sdraiati a prendere il sole. In quel momento ho percepito, dopo mesi, la presenza del mio sesso sconvolto dalla solitudine.

I ragazzi passano intere ore immobili sugli scogli ad ascoltare la voce del mare. Il mio sesso vorrebbe slegarsi da me per strisciare altrove, magari sugli scogli, insieme ai ragazzi.

Di ritorno dal mare, i ragazzi hanno bussato alla mia porta. Mi sono infilato un paio di calzoni e ho dato un’occhiata allo specchio del bagno, prima di aprire. Avrei dovuto evitare: ero impresentabile. Fuori c’era Julia: sorrideva già prima che aprissi. Aveva le gambe intrecciate; in punta di piedi, roteava il corpo lentamente, come se fosse impaziente. E sorrideva. Ha detto “Facciamo una grigliata, stasera: è il benvenuto. A proposito, io sono Julia. Piacere”. Poi è corsa via, agitando la mano. Non ho detto niente. Forse ho annuito; non ne sono sicuro. C’è voluto un lungo momento prima che richiudessi la porta. Ho versato il caffè, sul tavolo in cucina, e il sorriso di Julia era ovunque. Era un pensiero infelice, perché lo sovrapponevo all’immagine che avevo intravisto nello specchio: la mia faccia. L’idea di slacciarmi i calzoni e farmi una sega mi ha sfiorato per un breve istante. Ma non ero pronto alla vista del mio cazzo. Così ho rinunciato e ho bevuto il caffè. Ho afferrato il quaderno e ho disegnato gli scogli fuori dalla finestra; poi ho disegnato il corpo di Julia, in compagnia di due ombre sconosciute.

Tutto il resto si disperde nel disordine, tranne questa tensione insopportabile. Si concentra e assume varie forme, una più letale dell’altra. A tratti vuoto, poi lama, o, ancora, fuoco. Mi rende impossibile qualsiasi pensiero chiaro, a cui dare seguito, con un gesto sicuro. E tutto instabile e confuso, non c’è pace né tregua.

I ragazzi erano riuniti in cortile, intorno a un tavolo di plastica, dove chiacchieravano amabilmente mentre bevevano da bicchieri di carta. Julia si è alzata di scatto e mi ha versato del vino bianco. Nadia abbracciava Thomas mentre seguiva la cottura della carne sulla brace. Mi hanno accolto con un sorriso; poi Julia mi ha invitato a sedermi. Erano già ubriachi e, alle loro conversazioni inconcludenti, intervallavano qualche passo di danza, seguendo il ritmo di qualche riff degli anni ’70.

I ragazzi riconoscono il mio disagio, accettano il mio silenzio, mi rivolgono domande senza contestare le risposte vaghe con cui rispondo balbettando.

Dopo qualche bicchiere, ho iniziato a rilassarmi. Ho chiesto a Julia cosa facesse nella vita. Ha risposto “Faccio l’infermiera; è un bel lavoro, ma non è facile”. In altre parole, passa notti intere ad accudire vecchi incontinenti. Thomas e Nadia lavorano per una multinazionale. Ho spiegato loro che faccio l’illustratore freelance. Ho taciuto il resto: la solitudine, il senso di sconfitta che mi accompagna o, meglio, mi tiene ostaggio e mi rende impossibile ogni gioia.

Per i ragazzi il mondo è un luogo luminoso fatto di promesse. Per me ogni luogo è un angolo buio arredato di specchi impietosi.

La serata è trascorsa così, tra sorrisi e discorsi impersonali. Quello che si dice un successo. Quando sono rincasato, ho pensato alle gambe di Julia, nel tentativo di masturbarmi. Il cazzo era mezzo duro, e ne è venuto fuori un osceno riassunto della mia tristezza.

La presenza dei ragazzi ha un effetto benefico sui miei nervi. Li sento ridere e scherzare. Parliamo in silenzio, divisi da una parete oltre la quale intuiamo i nostri corpi rannicchiati. Mi sento meno solo, e qualche volta riesco a dormire. Poi sento uno slancio che mi suggerisce di raggiungerli sugli scogli, ma inizio a sudare, torno sui miei passi, mi sdraio sul letto e rinuncio ai miei propositi irrealizzabili. Va bene così. Disegno i capelli di Julia, così mi calmo, sono lunghi, li immagino morbidi, caldi. Basta questo pensiero a narcotizzarmi, così riesco a chiudere gli occhi, e senza accorgermene dormo profondamente per ore. Quando mi sveglio, fuori è buio. La sera è calma; si estende nel tempo e nello spazio e contiene tutti noi, intenti a nasconderci nel buio, o sufficientemente sfacciati da uscire a celebrare la vita. Affacciato alla finestra, osservo i ragazzi, poi spariscono e mi dispero. Ma tornano sempre nella cornice della finestra, per rassicurarmi e dire “Siamo qui, Hector. Non temere”.

Così passano i giorni. I ragazzi continuano a correre verso gli scogli, poi di nuovo in cortile, dove organizzano aperitivi a cui partecipano gli sconosciuti incontrati durante il pomeriggio. Il mio quaderno è diventato un altare consacrato ai capelli di Julia, alle sue gambe, e al suo sorriso. Lo allargo in ogni direzione. La mia creatività consiste nell’ingrandire un dettaglio finché raggiunge proporzioni colossali e diventa, così, irriconoscibile. La mia fantasia malata produce mostri, ma forse questo è vero per ogni atto creativo.

Non ho dormito, ho pensato tutta la notte ai ragazzi, alla loro imminente partenza. E io rimarrò solo, sempre più solo. Ho deciso di raggiungerli sugli scogli: voglio osservare il corpo di Julia sul granito incandescente. Il suo sorriso beato ride di me, dei miei passi incerti. Nadia e Thomas nuotano al largo; si perdono nella luce del sole, riflessa sulla superficie del mare. “Ciao Julia”, dico. E mi osservo scendere verso di lei, mentre mi osserva con una mano sugli occhi, per decifrare i miei contorni e rispondere con un sorriso. Un bel sorriso che si capovolge; mi implora; dice “No, Hector”; e rispondo – o penso – “Si, Julia. La tensione si risolve nel sangue”. Si risolve nella tua testa spaccata, nella corsa sfrenata di Thomas, mentre Nadia grida e rischia di affogare. Il mio sesso si agita, reclama una parte da recitare nel disordine. Ragazzi, la tensione si risolve nel sangue. Lo so, sembra ingiusto. Thomas mi afferra e dice “Cazzo, Hector”; si gira verso Julia, la prende tra le braccia. Stringo un sasso tra le mani. Ne misuro il peso, i contorni irregolari, la superficie ruvida. Lo lascio cadere sugli scogli, dove rotola fino al mare. Si immerge nell’acqua torbida. Lo osservo adagiarsi sulla sabbia. Mi sento più leggero – o più pesante – del solito.

Non so dire. Ad ogni modo sto bene. Penso “Generare mostri è una condanna”. E poi “Essere un mostro è un destino persino eroico”. Me l’avete insegnato voi, ragazzi.

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