È stato un bagno di sangue. Guardare il cielo scolorare fino al viola, al blu della notte, e poi sparire.
A un angolo di strada, in questa notte lunga, c’è una casa elegante, fatta di grossi blocchi di pietra squadrati. Non so però la casa di che colore sia veramente. So solo il colore che ha di notte, tutte le notti, tutte le notti. È viola scuro, vinaccia, amaranto, così sembra, color del vino greco. E di balcone in balcone è cinta da gallerie di rampicanti rigogliosi che devono esser verdi, lo credo bene, cose vive, ma che di notte appaiono scolpiti, impastati a un buio vegetale. Anche ora, in mezzo al temporale che squarcia i cappotti e scuote di nausea i grandi abeti, i rampicanti sono duri contro il vento e contro il cielo, immobili, e sembrano loro a tenere insieme ogni pietrone.
Una volta avevo una casa, poi è venuto il vuoto. Ora di casa ne ho un’altra, ma è sempre la stessa. Qui ho vissuto con una persona che adesso non c’è più. Questi muri allora non erano che il nostro contenitore. Che fossero nudi, che ogni cosa fosse grigia, che la luce fosse poca e mancassero le tende, il gas, l’acqua calda: non aveva alcun significato. Avevamo bisogno solo di un coperchio sopra le nostre teste, di uno scrigno. E poi di una finestra per schiuderci e respirare, inspirare, espirare, ricominciare…
Ora che sono solo, invece, solo in questa scatola nel mondo, vedo. Vedo e ricordo. E mi stupisco. Ogni cosa intorno a me è muta o analfabeta: non si esprime, è reticente. In questo quadrato sulla mappa ho vissuto per due anni con una persona che ora non c’è più e non un dettaglio si è conservato nel tempo e nello spazio, non un’idea che adesso mandi un po’ di luce.
I secondi piovono, un tic e un tac alla volta; è un temporale d’inezie dispetti pizzicotti. È la minutaglia delle cose insignificanti che viene giù dal cielo, il monsone inarrestabile del tempo che trascorre senza lasciar tracce. Ma poi, lentamente, goccia a goccia da terra iniziano a levarsi le escrescenze d’una eternità che si coagula: rigurgito di stalagmiti come sbarre di galera, e la prigione del tempo di colpo diventa così orrendamente tangibile.
Io in un giorno faccio in tempo a morire cento volte. Due anni come si possono immaginare?
Fuori dalla trigonometria del mio carcare – il tempo, l’altro, i muri – il mondo tuttavia va avanti: dal cielo continua a piovere. Poiché infine è questo. Il mondo è solo tempo, pioggia che cade. E anche io in realtà vado avanti. Ma non ho voce in capitolo. Non ho dato il mio consenso, non ho firmato nessun contratto. Eppure l’arma bianca del tempo continua a traversarmi, qui, nello stomaco. Potrei anche sedermi a terra, mollare tutto, lasciarmi cadere, ma il tempo non smetterebbe d’usarmi violenza.
Allora serve che un lato ceda, che esploda un vincolo, affinché la sadica geometria che mi costringe si spezzi. Uno dei vertici deve lasciarsi annegare, e il mondo deve rifare il suo ingresso da quella bocca di tomba.
E alla fine è successo. Dalla bocca morta del tempo è risalita un’altra creatura. E adesso i miei muri splendono: sono incapaci di tacere. Io non faccio altro che guardarli – ne avrò una cura infinita. Ma dovesse formarsi anche solo l’intenzione di una misera crepa, lo giuro, demolirei questa maledetta topaia una volta per tutte, ingannerei anche il tempo.