Caotica, sporca, ma vissuta, se questo può costituire un’attenuante.
Non era uno schifo lasciato a se stesso da chissà quanto tempo, a macerare all’umido e all’arsura e al gelo delle stagioni che si susseguono, non c’erano muffe stantie né odori di putrefazione, né colonie di formiche intente nei loro saccheggi di Stato, sebbene non mancassero briciole e residui alimentari sparsi più o meno ovunque, secondo quelle distribuzioni statistiche delle quali i libri accademici contano dimostrazioni e confutazioni. Senza dubbio era più o meno tutto in disordine, difficilmente potevi trovare qualcosa al posto giusto e quando capitava veniva spontaneo, anche ai più posati, di prenderla e spostarla di lì. Non si poteva incolpare nessuno di quella deriva entropica, o forse si poteva incolpare tutti, che però è più o meno la stessa cosa. Quando ogni cosa è fuori posto, viene naturale contribuire in qualche modo al disordine, un gesto solidale con l’attitudine della casa, un piccolo rito di devozione agli spiriti del luogo.
E in ogni caso, il sentimento diffuso era di un qual certo orgoglio, quasi ideologico, nei confronti del caos entro cui si conduceva la vita di tutti i giorni, e rimettere a posto era considerata un’eresia sacrilega, non tanto perché andasse contro le leggi della casa, ma perchè andava contro le ben più autorevoli leggi dell’universo. L’entropia aumenta sempre e tende al suo valore massimo … Non siate dunque così scorretti da tacciare gli inquilini d’essere dei mediocri rustici sempliciotti: non dico fossero degli intellettuali fatti e finiti, ma quella trasandatezza era il rivolto d’una profonda consapevolezza, un rivolto orribile, senza dubbio, come quando un calzino colorato e con qualche tenerissimo disegno cucito sopra nasconde un interno di fili pazzi divelti e esplosi in un brutto trip di acidi, però ecco… in ogni caso era gente che si faceva delle domande, e cercava di darsi delle risposte. E pure di vivere di conseguenza, cosa, peraltro, tutt’altro che diffusa tra fior fior di cervelloni.
Direte: ma non è forse il senso stesso della vita, questa pazza odissea senza speranza contro l’entropia? L’ordine che emerge dal caos, l’autopoiesi delle forme, la spensierata combriccola del carbonio con tutti i suoi compagni di merende, così tenaci e assidui, che sognano di restare per sempre amici e di fare grandi cose, che niente li separerà, che staranno per sempre insieme e nulla potrà scalfire il loro legame, beh, poi però arriva il momento di lavare i piatti, e guarda un po’… si dileguano sempre tutti. E chi siamo noi per biasimarli?
In fondo i proprietari di casa avevano in testa una convinzione tutto sommato razionale e giustificata: che opporsi a quella fondamentale verità dell’universo era tempo perso e fatica sprecata, e che tanto valeva lasciarsi andare alla deriva, se poi la vita e tutto l’equilibrio che si porta appresso si fosse rivelata non una assurda e spietata contingenza delle stelle ma un germe intrinseco al tutto, beh … allora quell’equilibrio si sarebbe fatto vivo da solo, in maniera spontanea e naturale, e a forza di non rimettere apposto, le cose si sarebbero ritrovate magicamente in un nuovo ordine, senza alcun legislatore dall’alto ad imporre funzioni e allestire spazi.
Però, ecco, ogni tanto la spazzatura veniva buttata, i piatti ad un certo punto finivano e dovevano essere rigovernati, e capitava persino che la scopa cambiasse di posto, cosa che suggeriva che qualcuno doveva averla usata (certo che poi seguiva anche la legittima domanda: ma usata per fare cosa, esattamente? le risposte erano sempre diverse e imprevedibili). Fatto sta, che ogni tanto, per qualche strana congiunzione astrale, sotto la benevola luce della Luna e il transito di Mercurio nella casa della Vergine, qualcuno, segretamente, puliva.
Sia chiaro, tuttavia, che la cosa non veniva mai dichiarata e nessuno si vantava né recriminava d’essere il solo a pulire, perché era chiaro che un gesto d’approvazione nei confronti dell’ordine e del pulito avrebbe segnato l’inizio della fine di quella spontanea anarchica convivenza, e così tutti sapevano e tutti facevano finta di niente e tutti, in segreto, pensavano che sì, c’era proprio bisogno di un po’ d’ordine.
Saremmo però disonesti a nascondere l’innegabile presenza di alcune divergenze di opinioni relative a certe politiche interne, peraltro di primissimo rilievo, in relazione, per esempio, a quei grandi problemi dei nostri giorni, quali la sicurezza dei confini e l’accoglienza dello straniero. Come in ogni parlamento che possa chiamarsi tale ( ossia pieno di gente strutturalmente incapace sia di dibattere che di decidere le cose giuste da farsi) si saltava a piè pari l’idea di accogliere e ci si azzuffava solo sulla questione della sicurezza dei confini, e così attorno ad essa gli animi si scaldavano e i vocabolari si colorivano e le finestre sbattevano, perché proprio le finestre erano al centro della diatriba, quelle cazzo di finestre che devono stare cazzo chiuse, diceva l’uno chiudendole, si cazzo muore di cazzo caldo, diceva l’altro, aprendole, e così via, apri chiudi, apri chiudi, in un crescendo di rabbia e tensione che solitamente finiva con la vittoria del secondo, non perchè il primo abiurasse le sue posizioni ma più semplicemente perchè la finestra finiva per rompersi, e quando una finestra si rompe, solitamente, diventa perfetta a tenere aperto e pessima a tenere chiuso.
Vi chiederete, ma non era possibile evitare questa squallida contesa, trovare un qualche compromesso, convincere una delle due parti a rivedere le proprie posizioni? La cosa, ahinoi, non era così semplice: di fatti, le motivazioni della prima posizione, quella più “sovranista”, erano dettate dalla più genuina e inguaribile delle fobie: una spontanea e genetica risposta comportamentale, sotto forma di esasperato ribrezzo e mal celato terrore, al semplice avvistamento di una qualsiasi delle infinite specie di insetti che, nel corso dell’ ere geologiche, avevano avuto la brillante intuizione di intraprendere quel fortunato sentiero evolutivo che passava per lo sviluppo d’un apparato di ali e l’apprendimento della nobile arte del ronzare qua e là. Serrarsi dentro casa era l’unico modo per tenere lontano quelle bestie alate e imprevedibili. D’altro canto, la motivazione, altrettanto legittima e naturale, di chi apriva la finestra lasciando entrare impunemente ogni genere di coleottero e mosca e vespa era, non lo si ripete mai abbastanza, che faceva veramente caldo. E credetemi, faceva veramente caldo. Tanto caldo. Fatto sta che alla fine le politiche di accoglienza avevano la meglio, ma a nessuna delle due parti in realtà fregava niente di accogliere gli insetti, e diciamocelo, neanche agli insetti poteva fregare di meno di essere accolti, e così uomini e insetti si ritrovavano sotto le stesso tetto a inveire contro il caldo e desiderare d’essere altrove, e così esternavano le proprie frustrazioni dandosi noia a vicenda, chi ronzando insostenibili litanie e chi spruzzando gas letali e smanacciando racchette elettriche, e così il corso degli eventi andava avanti, nei suoi cicli di vita e morte, di vespe uccise e risorte, di zanzare assetate di sangue e di fiumi di sudore a proteggere la pelle dalla punture delle zanzare, perchè si sa, che quando arriva l’estate, che tu abbia le finestre aperte o le finestre chiuse, farà sempre un cazzo di caldo e sarà sempre pieno di quelle cazzo di zanzare. E che comunque, quella finestra si sarebbe rotta in ogni caso, non perché gli inquilini fossero delle bestie maleducate e inabili ne perché gli insetti fossero delle bestie alate e temibili ne perché i tempi fossero estivi e insostenibili ma perchè, in fin dei conti, è così che funziona questo cazzo di Universo.
L’unica eccezione verso il mondo microscopico era costituita dai ragni, non tanto perché fossero ben accetti e graditi, certamente non volavano, e questo era un bene, ma non di meno erano guardati con terrore e tenuti a debita distanza. Vi era però una sorta di rispetto di fondo, in quella comune e condivisa aracnofobia, che trovava espressione in quelli che potremmo definire senza eccesso di fantasia dei trattati di non belligeranza, della serie: io non do noia a te, e te non dai noia a me, piccolo ragnetto solitario, e vedrai che potremo convivere senza attriti e fastidi.
Questi erano i patti, e così le ragnatele finivano per popolare ogni angolo e pertugio della casa e là venivano lasciate crescere e ingarbugliarsi, fino a formare una intricata città sopraelevata, con i suoi quartieri e i suoi palazzi, i suoi vicoli e le sue piazze, le famiglie di ragni potevano vivere senza temere sfratti di alcun tipo, e nel frattempo sterminare senza alcuna pietà gli sfortunati insettucoli volanti, e anche questo, in fondo, era un bene.
Le ragnatele sono belle. Alcune volte basta una ragnatela illuminata da un raggio di luce che improvvisamente ci sentiamo meglio e ci ricordiamo della natura frattale del cosmo e della sua bellezza intrinseca e inspiegabile, e per qualche attimo ci convinciamo che il caos che sembra dominare la nostra vita non è altro che un frattale che ancora non è stato illuminato dal raggio giusto, di cui non abbiamo inquadrato la giusta scala, e che forse abbiamo trascurato troppo a lungo di tessere la nostra tela. In quella casa ognuno a modo suo portava rispetto e ammirazione verso i ragni, quei poeti disperati che abbelliscono il mondo senza chiedere nulla, vomitano le loro cattedrali invisibili come un poeta incide la propria anima con le parole, solo che quei filamenti di seta ambigui e poliformi il ragno se li produce da solo, non necessita di penna e inchiostro né di carta e papiro, non ha bisogno di colori o di strumenti musicali.
L’uomo, privato di strumenti, è capace solo a erigere castelli di merda, dipingersi il volto con il proprio sangue, fare dell’espressionismo sputando sulla terra bruna. Forse alcuni bambini riescono a compicciare qualcosa di lodevole ammassando tra di loro le caccole che scavano fuori dall’interno del proprio naso, ma è un’arte breve e invernale, e per di più ripugna la grossa fetta della specie umana.
La sola ragnatela di cui dispone la nostra specie è il nostro canto, così seducente e ripugnante, così opaco e trasparente, così flebile e così pesante, un vento mattutino che porta consigli e odori sconosciuti e che poi se ne va senza lasciare di sé alcuna traccia. Ovviamente in quella casa si cantava, si cantava soli e in compagnia, accompagnati da uno strumento o a cappella, dalla mattina alla sera e poi soprattutto dalla sera alla mattina, e si cantava un po’ di tutto, canti d’amore per i ragni e canti di guerra per le mosche, e canti sacri sul disordine e l’entropia e canti profani e sconci che parlavano di scope, piatti lavati e pulizie e poi anche qualche ballata triste, quando la vita mostrava la sua faccia ordinata e deprimente, e tanti pazzi canti sfrenati quando si calava la maschera e sorrideva, sorrideva il suo caos ed era uno spasso.