Isabella

«Isabella, tesoro, tua zia è tanto infelice.»

Così, con la solita litania, era cominciata la lunga notte precedente, come tante altre prima ancora.

«Isabella, stella, tua zia va a buttarsi sotto al treno.»

E anche se la zia si fosse alzata, dopo aver declamato tragicamente il suo intento suicida, Isabella sarebbe rimasta a letto. Sospettava infatti che mai e poi mai zia Lamberta avrebbe rinunciato a calcare il palcoscenico delle sue tutt’altro che intime sofferenze. Lamberta, dal canto suo – in questo uguale al resto della famiglia – non era certo così ingenua da confidare in alcuna forma di felicità dopo la morte.

Era una notte tra sabato e domenica come tante e Isabella, per accontentare sua madre, era scesa nella grotta per dormire con la zia, che a cena si era lamentata appena più del solito di soffrire di attacchi di solitudine. La grotta era in realtà ormai da qualche anno una deliziosa taverna, completamente rivestita di un legno luminoso. Era stato il padre di Isabella l’artefice della trasformazione, ed era riuscito a concludere i lavori appena prima di partire soldato. Il rivestimento in legno, diceva, avrebbe protetto l’interno dall’umidità del terreno e dal vento salmastro che arrivava dritto dal mare, attraversando la spiaggia, e si imbatteva subito su quelle uniche due case, come costruite dal lato sbagliato della ferrovia. Ne aveva ricavato un ambiente accogliente, con un grande tavolo per i pranzi di famiglia, fresco nelle afose giornate estive e con l’affaccio direttamente sul giardino, cosicché i bambini di ogni età, quelli che già c’erano e quelli a venire, avrebbero potuto scorrazzare liberamente avanti e indietro. Poi Luigi era stato chiamato al fronte, lasciando sola la piccola Isabella con la mamma e la zia. Non c’erano più stati grandi pranzi di famiglia, né erano arrivati nuovi bambini a popolare la casa. Isabella, cresciuta in fretta, aveva presto imparato a far su e giù dalle scale per controllare la zia, che era scesa ad abitare da sola nella grotta spinta da un teatrale desiderio di autonomia. Lamberta in pochi anni era riuscita a trasformare la taverna in una sorta di triste e merlettata casa di bambola, piena di ninnoli e pizzi inamidati appesi alle pareti, che soffocavano ogni centimetro quadrato di quel legno un tempo pieno di vita e di progetti. «La bomboniera del suo matrimonio mancato…» – Isabella l’aveva sentito dire così spesso da sua madre.

Non le avrebbe mai riferito che tutte le notti che passava nella grotta iniziavano così, e proseguivano poi fino al mattino con una serie di pianti a dirotto e proclamazioni improvvise di infelicità. Nel mezzo, solo brevi silenzi – occasioni preziose per prendere sonno. Era convinta infatti che la zia la considerasse una spettatrice perfetta, piccola e impressionabile, e che quel copione si ripetesse proprio per questo, per far arrivare alla madre la testimonianza di quanto fossero autentiche le sue sofferenze. Isabella, da bambina qual era stata, coglieva nella zia soltanto capriccio e voglia di attenzione, e aveva deciso che avrebbe fatto di tutto per alleggerire la madre dalle inutili preoccupazioni per la sorella – non potendo aiutarla, suo malgrado, a fugare i brutti pensieri sulla sorte del papà. Anche quella notte dunque, sebbene detestasse farlo, aveva acconsentito a scendere per vegliare su quell’adulta così immatura che le era capitata per zia. Come sempre, per distrarsi aveva iniziato a far di conto. Aveva contato quanti treni passavano, quanti secondi ci mettevano, aveva pensato di poterne calcolare la velocità e fare una classifica, confrontando l’intensità dei suoni, ma tenere a mente i rumori si era rivelato troppo difficile, e infine si era addormentata.

Domenica mattina, al risveglio, zia Lamberta non era nella grotta. Era piuttosto insolito che non l’avesse sentita alzarsi, che non si fosse accorta dei meticolosi preparativi che ogni giorno la tenevano impegnata a lungo prima di uscire. Isabella non ricordava di averla mai vista con un capello fuori posto, persino quando appariva solo a lei, con quella lunga camicia da notte stretta e coprente fino al collo – come se dovesse nascondere un segreto in petto. Se in camera sua, al piano di sopra, Isabella si alzava ogni mattina inebriata dall’odore morbido del caffè sul fuoco, quando dormiva nella grotta era la fragranza aspra del profumo della zia a farle aprire gli occhi, lasciandola ogni volta frastornata. Zia Lamberta, seduta al tavolo da toletta di fronte a un grande specchio, le appariva immersa in una nuvola, una miriade di goccioline visibili in controluce – così tante che a Isabella quasi passava la voglia di contarle –, che vagavano ovunque, impregnando pizzi e merletti, e arrivavano fresche e pungenti fino alle sue guance. Isabella strizzava gli occhi, appena aperti, e ogni giornata cominciava con quello stesso fastidioso bruciore. Eppure l’odore delle arance scaldate dal sole era così dolce, pensava, l’odore che arrivava dall’albero dietro casa, cresciuto proprio accanto ai binari della ferrovia. Com’era riuscita la Slava – così la chiamavano tutti – a estrarne un’essenza così tremenda?

La Slava era l’unica vicina in quel piccolo quartiere di due sole case affiancate, a ridosso della spiaggia. Era venuta dal mare, si diceva, e arrivando doveva aver visto, nell’ordine: la striscia di spiaggia, la casa costruita da Luigi, i binari del treno e poi una fila completa di case dall’altro lato della ferrovia – a Isabella piaceva molto fare elenchi ordinati. Chissà perché si era fermata subito, proprio lì. La casa della vicina era sorta così in fretta accanto alla loro che suo padre raccontava di essersene accorto solo da un giorno all’indomani. Isabella non gli credeva naturalmente, sapeva bene che per costruire una casa ci volevano troppi uomini, troppi mattoni perché si potesse sbrigare l’intera faccenda in una notte. Ma a Luigi piaceva molto lavorare di fantasia – almeno tanto quanto a lei piaceva far di conto – e la Slava aveva davvero un’aria così misteriosa che solo Isabella, tra tutti i membri della famiglia, aveva saputo resistere alla tentazione di attribuirle un qualche potere magico. La prima a cedere era stata, neanche a dirlo, zia Lamberta, che la Slava aveva preso a ben volere, e che era l’unica ad essere accolta regolarmente in casa della vicina. Era stato in occasione di una delle sue ultime visite che la zia aveva portato in omaggio un cestino di arance. Qualche giorno dopo, aveva fatto ritorno alla grotta recando a mo’ di trofeo una minuscola boccetta di olio concentratissimo. “Tanto sforzo per un odore così schifoso”, era quello che aveva pensato Isabella avvicinando il naso alla boccetta, ma non si era azzardata a dirlo ad alta voce. “Tanto sforzo per così poca sostanza”, era stato il suo secondo pensiero, vista la minuscola capacità della boccetta rispetto alla capienza del cestino, partito pieno e riportato indietro vuoto. Ma, almeno su questo, aveva dovuto riconoscere in seguito di essersi sbagliata. La boccetta durava da troppo tempo: la stagione delle arance era finita da un pezzo, a quanto sapeva la Slava non si era più cimentata nella preparazione alchemica dell’estratto, e la zia di certo al mattino non lesinava sulla vaporizzazione di quell’olio, che pure, nonostante tutto, sembrava non finire mai. Profumata o meno, sta di fatto che Zia Lamberta quella mattina sembrava essere uscita di casa di nascosto, e per Isabella quel suo non fare rumore non poteva che essere stato intenzionale. 

Si stropicciò gli occhi, quasi sorpresa di non dover temere l’invasione delle goccioline di profumo sospese nell’aria. Si alzò dal letto accanto a quello della zia, e uscì dalla grotta per salire al piano di sopra.

«Isa, piccola, non sale anche la zia?»

Isabella aveva appena messo piede in casa. Affrettò il passo, raggiunse la cucina dal lato opposto dell’ingresso, con affaccio sulla ferrovia, salutò la madre con un bacio e le disse che no, quando si era svegliata la zia non era né nella grotta né fuori. Si sforzò, come poteva, di riferire la notizia senza alcuna apprensione, sentendosi in verità almeno un poco responsabile.

«Che strano,» disse subito Alberta «a quest’ora la domenica è già qui che scalpita per andare a messa». 

Isabella sedeva silenziosa. Aspettò che la madre le riempisse una ciotola di latte e ci versasse un puzzo di caffè – così le diceva sempre suo padre, e ogni mattina le strappava una risata per quella parola buffa e fuori posto. Rimase come sempre affascinata, mentre guardava quel goccio di liquido scuro e fumante che colorava man mano tutto il bianco della sua colazione. Anche Alberta non disse più nulla e rimase ferma con lo sguardo fisso, fuori dalla finestra. A Isabella parve di poter contare i secondi necessari perché ogni brutto pensiero passasse sul quel viso un po’ quadrato, facendolo scuro. Pensieri meno giocosi di quel puzzo di caffè, rapidi e affilati come i treni di passaggio. 

Alberta

«Va bene, mamma.»

Alberta detestava chiederlo alla sua bambina, ma più passava il tempo più sentiva che la Guerra, assieme al suo adorato Luigi, le aveva portato via ogni energia, lasciandola andare avanti a motore spento, senza più essere in grado di accelerare. Mentre se ne stava seduta alla finestra della cucina a ricamare e guardare i treni, pensava spesso a come la sua giovinezza fosse stata animata da una spinta continua e da una speranza instancabile; a come avesse davvero creduto che persino Lamberta, sua sorella, nata scontenta, avrebbe un giorno finito per godere della loro abbondanza di allegria in quella casa sul mare che Luigi aveva deciso di costruire. Poi il suo Luigi era partito, Lamberta aveva pianto, ogni giorno sempre un po’ di più, e su di lei sola gravava il compito di riempire quella casa – ormai troppo grande, dalla grotta al piano di sopra – di gioia e di risate, anche per la piccola Isabella. E così, da quando una volta era stata proprio Isabella a proporsi, tenere compagnia alla zia per la notte era diventato un compito della bambina. Quella sera, subito dopo aver visto la figlia allontanarsi tenendo la zia per mano, le era spuntata tra i pensieri una domanda improvvisa: si era chiesta se in fondo avere figli non servisse anche a questo, ad alleggerire il carico di responsabilità di cui a malapena ci si accorge quando si è giovani e si hanno spalle larghe, e che rischia invece di spezzare una schiena già curvata dalla preoccupazione e dall’età che avanza. 

Ma ciò che più aveva convinto Alberta del buon effetto di questa prima delega di responsabilità alla figlia, era che solo su Isabella le lamentele della zia sembravano non avere presa: doveva essere per via di quel modo tutto suo che la piccola aveva per capire il mondo. Di quella inesauribile curiosità, che l’aveva portata a sfinire il padre di domande, non appena si era scoperta abbastanza grande per poterne formulare, e di quella sua ostinazione nel misurare le risposte. Agli occhi della figlia, era come se la tristezza della zia non avesse motivo, e non meritasse quindi troppa attenzione. Per lei invece, che non aveva mai davvero cercato i motivi nascosti nelle cose, quel fardello ingombrante era in parte anche suo, non foss’altro che per una ragione di sangue, e solo raddoppiando la posta di felicità in gioco nella sua vita avrebbe forse potuto trovarvi rimedio, per la sorella e per sé. 

Quella notte tra sabato e domenica Alberta dormì peggio del solito. Le parve persino che passassero più treni, diretti chissà dove, con chissà quali passeggeri. Chissà, soprattutto, quando sarebbe passato il treno che avrebbe riportato a casa Luigi. Si alzò alle prime luci dell’alba, si affacciò per consuetudine alla porta della cameretta di Isabella, che pure aveva passato l’ennesima notte nella grotta con la zia. Scese in cucina, si sedette alla finestra e cominciò a ricamare. Alberta non ricamava mai seguendo un disegno, piuttosto secondo i giochi di luce che le fronde dell’albero di arance e le tende di pizzo proiettavano sul tondo bianco e teso del telaio. Erano il mattino e la sera, quando il sole era più basso, quando non aveva ancora iniziato o appena finito di preoccuparsi di tutti, a regalarle i disegni migliori. 

Lamberta

«Non dire così, zia.»

Povera stella, pensava Lamberta, così piccola e già così furba. Per quanto Lamberta sembrasse sempre troppo occupata a far mostra del proprio dolore, ciò non toglie che fosse ben in grado di vedere, e soprattutto prevedere, il dolore degli altri. Era anche questa sua dote, unita a una spiccata capacità di essere scontenta, a non lasciarle alcuna speranza. Lamberta sapeva che Isabella avrebbe avuto sempre troppe domande, senza mai riuscire a raccogliere tutte le risposte. Sapeva che Alberta, per quanta energia ci mettesse, non sarebbe riuscita a piegare il corso degli eventi a suon di risate e colpi di scopa per spazzare via le foglie secche in cortile. Di tutto questo si dispiaceva, ma – non poteva essere altrimenti – soprattutto per sé. Perché se neanche per la nipote e per la sorella era prevista un po’ di pace al mondo, allora a maggior ragione lei, nata con quella terribile macchia, non poteva aspirare a guarire. Lamberta sapeva anche che lamentarsi non avrebbe cambiato le cose in alcun modo, ma aveva col tempo sviluppato una forma di opportunismo, seppur involontario, e non avrebbe più potuto rinunciare all’attenzione che finiva per guadagnarsi, specialmente da parte di chi le voleva davvero bene.

Per prima cosa sarebbe corsa dalla Slava a chiedere aiuto, l’indomani mattina. L’olio essenziale di arance era finito, e quella fragranza le si era così attaccata addosso che senza non si sarebbe più sentita la stessa. Come capita spesso agli infelici, Lamberta temeva che una piccola variazione del suo quotidiano, un gesto in meno, un odore differente, avrebbero potuto avere ripercussioni imprevedibili. Non le piaceva nulla della sua vita e, proprio per questo, nulla doveva cambiare. Non era più stagione di arance, è vero, ma sapeva che la Slava non l’avrebbe delusa e le avrebbe proposto un altro rimedio. La sua eleganza, la sua solitudine, la sua aria leggera e calma, nonostante il peso del passato che portava sulle spalle, l’avevano conquistata sin da subito. Come avrebbe voluto essere così anche lei, invece di sentirsi costretta a far rumore, a scalpitare in scena, perché nessuno vedesse cosa c’era dietro il sipario delle sue camicette a collo alto, abbottonate fino all’ultimo, delle vestaglie con il bavero merlettato e rialzato, del bordo delle lenzuola afferrato e stretto all’altezza del mento anche durante il sonno. E così la notte era passata in un attimo, perché il mattino le riservava un compito troppo importante. Si alzò in silenzio, evitò che la piccola Isabella si accorgesse di lei, e sgattaiolò fuori dalla grotta. 

Era fuggita allo stesso modo, anni prima, all’alba del suo matrimonio mancato. Vasco non avrebbe potuto cambiare il corso della sua infelice esistenza. O almeno Lamberta non ci aveva creduto abbastanza da confidargli, col cuore in mano, che sposando lei non avrebbe avuto una donna qualunque al suo fianco, ma una donna unica e diversa. 

Alberta

«Mamma, dai, vedrai che la troviamo a messa.»

Eppure Alberta sentiva che c’era qualcosa di strano nell’aria. Per quanto si sforzasse di apparire calma agli occhi della figlia, i ricordi di quella mattina di parecchi anni prima avevano già cominciato a riaffiorare alla sua memoria. Lo sguardo di delusione di mamma Stella, primo fra tutti. 

«Stasera, Albertina, quando tua sorella dormirà fuori casa, anche io farò sonni tranquilli, per la prima volta da quando è nata

La preoccupazione che aveva accompagnato sua madre dalla nascita di Lamberta era poi stata la sua, e così doveva essere, perché lei e la sorella, per quanto diverse in tutto, erano inaspettatamente venute al mondo insieme. Così era iniziata la giornata del mancato matrimonio di Lamberta, e si era conclusa con quello sguardo, con quelle parole rassegnate – «Neanche stanotte, Albertina, neanche stanotte

Alberta e Isabella si prepararono e raggiunsero in una mal celata fretta la chiesa del paese. Lamberta non c’era, ma erano arrivate un po’ in anticipo – fece subito notare Isabella – tanto valeva mettersi comode e aspettare, senza pensarci troppo su. Si sedettero in fondo, come d’abitudine, dove in pochi avrebbero notato Alberta andarsene, circa a metà funzione. Don Giovanni, al quale dall’altare i peccati non sfuggivano neanche tra i banchi più lontani, aveva ormai smesso di ripetere a quella sua parrocchiana un po’ testarda che una messa a metà non valeva certo come una messa intera agli occhi del Signore. Ma Alberta proprio non ce la faceva a restare fino alla fine. Più volte aveva provato a spiegarlo al sacerdote: le veniva un prurito alle mani giunte in preghiera, come se le dicessero spicciati, Albertina, c’è un sacco da fare fuori, non tenerci qui intrecciate e immobili a puntare verso l’alto, facci prendere una scopa, una padella, il collo di un pollo, o meglio ancora, il braccio che Luigi ti offre all’uscita, è lì che ti aspetta, sul sagrato, via, insomma, fuori di qui, facciamone qualcosa di questa domenica che non sia star qui a odorare incenso.

Alcide

L’unica cosa certa che si sapeva sul conto della Slava era che fosse nata dall’altra parte del mare. Perché a volte è così che si decide tutto: da un lato o dall’altro, e un mare da attraversare in mezzo. Quello che tutti credevano, vedendo quella signora un po’ misteriosa, imponente e stranamente elegante rispetto agli abitanti del paese, passeggiare sola e a lungo in spiaggia, era che fosse la nostalgia per le sue origini a portarla lì, persa nei ricordi d’infanzia, mentre lasciava che la schiuma andasse e tornasse, accarezzandole i piedi grandi e le unghie sempre smaltate di rosso. Quello che nessuno sapeva – calarsi nella vita degli altri è la più difficile forma di immaginazione – era che un mare, quando te lo lasci alle spalle, resta una ferita aperta, e l’acqua salata non fa che bruciare e tenere sveglio il dolore. Ogni mattina all’alba, la Slava scendeva in spiaggia con un fazzoletto a fiori colorati annodato sulla testa, portando con sé un sacchetto di tela. Anche quando la Guerra era agli inizi, quando tutto poteva scarseggiare, non aveva mai smesso di apparire ben vestita e di dividere il suo pane con i gabbiani. La verità era che Alcide – questo il suo vero nome, nonostante fossero in pochi a saperlo – aveva stretto un personalissimo patto di cura con tutti gli esseri viventi. Divideva la casa con il gatto Igor e un’intera colonia felina, dava da mangiare ai gabbiani, e c’era chi giurava di averla vista parlare persino con le piante, comprese quelle dell’orto, così difficili da crescere davanti a quelle due sole case esposte al vento salmastro che risaliva dal mare. E quella stessa striscia di terreno poco fertile, che per Alberta era il campo di una battaglia incessante, condotta con mani callose, per lei era un luogo di confronto, deciso ma amichevole, rigoglioso di accettazione e gratitudine. 

Quella sua aria di pace aveva attirato Lamberta: la Slava ricordava bene la prima visita della giovane vicina, vestita anche lei in modo impeccabile, ma sempre così nervosa. Lamberta non aveva perso tempo e aveva subito preso a parlare incessantemente, per fugare il rischio della riflessione che si annida nei momenti di silenzio. Si era lamentata di tutto: della sua sfortuna, di Alberta, che da piccola, avida di latte, la scacciava dal seno materno, di essere ormai condannata a vivere esposta alla felicità della sorella gemella e del suo nuovo sposo, dei pianti della nipotina nata da poco, che la svegliavano di notte. Alcide aveva ascoltato, paziente, senza dire nulla. Da lì in poi, i loro incontri erano diventati regolari. Una volta a settimana la Slava riceveva in casa la giovane donna, e per quanto l’inizio fosse sempre lo stesso, tutte quelle piccole cause di infelicità quotidiana avevano iniziato man mano a farsi da parte, per svelare una sola grande paura. La paura del rifiuto, l’idea di non sentirsi degna di essere amata per quello che era. La confessione del segreto era arrivata assieme a un cestino di arance. La Slava aveva iniziato a sbucciarle, mettendo da parte la scorza con la parte bianca all’interno. Con un coltello, le aveva meticolosamente fatte a striscioline sottili e messe a essiccare al sole. Tra qualche giorno, aveva detto a Lamberta, sarebbe stato pronto un potentissimo olio. L’avrebbe preparato mettendo le scorze secche a bagno in un distillato alcolico del suo paese d’origine – lo stesso che beveva sempre suo padre. Ne conservava una bottiglia dal viaggio di sola andata che l’aveva portata al di là del mare.

«Vedi, Lamberta, è così che si fa con la sofferenza. Si distilla, se ne estrae soltanto l’essenziale. Altrimenti ci si annega. Si mescola a quella degli altri, se capita. Ed è giusto che ci resti addosso, è parte di noi, diventa il nostro odore. La indossiamo, proprio come un profumo, e non smettiamo mai di attraversare profumate la nostra esistenza.»

Luigi

Mia adorata Alberta, 

ti scrivo ancora, non voglio perdere la speranza. Non ho modo di sapere se le mie lettere ti hanno mai raggiunta, se hanno viaggiato per tutta la lunghezza dei binari che ci separano, non ho modo di sapere come state tu e la piccola Isabella, e penso che sia questo il male più grande della Guerra. Di questa guerra stanca, di cui tutti abbiamo dimenticato le ragioni e l’inizio. Di questa guerra che non ci serve. 

Ma ci provo ancora, mia adorata Alberta, perché se delle tante lettere che scrivo per non impazzire questa riuscissi a spedirla con un canale sicuro, se soltanto questa ti arrivasse, saprei di averti dato una notizia importante, di averti aiutato a smettere, almeno tu, di combattere una battaglia che non puoi vincere. 

Ti devo raccontare quello che ho saputo di Lamberta. Credimi, mia adorata, tutto quello che ti scrivo è vero – non è soltanto un’altra delle mie storie! Ecco com’è accaduto. 

All’ultimo spostamento del mio reggimento, giunti presso un nuovo tratto di confine – come disegnato fresco su una cartina, apposta per essere difeso! – mi sono imbattuto in Vasco. Lui mi ha guardato, senza riconoscermi – ne è passato di tempo, e il fronte ci ha fatti invecchiare entrambi, molto in fretta. Ma io l’ho capito subito, Alberta. Ha ancora gli stessi occhi, lo stesso sguardo di delusione di quel giorno. È lo stesso che hai tu, a volte, questo vi accomuna: entrambi la amate, e nessuno di voi è mai riuscito a renderla felice. 

Quella stessa sera c’era una sorta di euforia nell’aria – il morale delle truppe va tenuto alto, e ogni tanto si festeggia, nessuno sa bene quale battaglia. Speravo di poterlo ritrovare e ho chiesto a ogni soldato, finché non mi hanno indicato un commilitone solitario, in un angolo lontano dai gruppi più rumorosi. Vasco, stavolta, mi ha subito abbracciato. Le parole sono arrivate in piena, come i fiumi di alcool che scorrevano tra le centinaia di tende del campo. Mi ha chiesto di te, si è detto felice di sapere che ci eravamo sposati, che avevamo avuto una bimba e una nuova casa, e all’inizio sembrava deciso a non voler parlare di lei. Come una diga, pronta a cedere se solo avesse fatto il suo nome. È partito soldato prima di me – e pensare che già io ho l’impressione di star via da sempre! – e mi ha confidato di essersi sentito sollevato quando ha ricevuto la lettera di reclutamento, e non certo perché fosse entusiasta della guerra – lo ricordo così calmo, con tua sorella, così bravo nel saper trattare – ma perché questa, aveva pensato, sarebbe stata la sua occasione per dimenticare finalmente tutto. Su quel “tutto”, la diga è crollata. “Ma perché è scappata” – ha iniziato a ripetere, “Lo sapevo, non aveva più nulla da nascondermi, la amavo, anche così” e spezzoni di frasi di questo genere, Alberta, che non mi permettevano di capire, ma dovevo solo aspettare, dovevo aspettare che lo sfogo delle lacrime arrivasse a valle, restare in silenzio, vedere i segni di tutta la felicità che era stata spazzata via. Lasciargli il tempo di ricomporsi. “Luigi” – mi ha detto – “tua cognata si crede macchiata alla nascita da un’infelicità per cui non esiste rimedio. Ne porta un segno sul petto – un seno bellissimo, credimi, non avrei dovuto ma l’ho visto. L’ho spiata, una sera, ho finto di andarmene e sono rimasto nascosto a guardarla dalla finestra di camera sua, me ne vergogno un po’, ma siamo uomini, tu mi capisci, vero? Il desiderio è grande, ancora più grande quando si ama, ed ero così impaziente, e lei sempre così vestita, abbottonata fino al collo…”. Ti riporto le sue parole esatte, ma vorrei che le avessi ascoltate anche tu, mia Alberta, che avessi visto con i tuoi occhi Vasco e il suo grande amore rassegnato. Ecco, è così che mi ha svelato il segreto di Lamberta. Mi ha chiesto riserbo, mi ha fatto dare la mia parola d’onore, e per me non è una decisione semplice infrangere subito questa promessa, Alberta, ma sono convinto che tu debba sapere. Tua sorella è macchiata per via del suo seno. Un seno bellissimo, a detta di Vasco, ma unico e diverso. Un seno villoso. Coperto da un fitto tappeto di peli sottili, non pochi peli sparsi, ma una miriade di peli – sai a cosa ho pensato subito, Alberta, ho pensato alla nostra Isabella, e a quella sua mania di far di conto, chissà se continua o se le è passata, chissà fino a che numero ha imparato a contare e quant’è cresciuta! È questo che Lamberta vi ha sempre nascosto, questo dev’essere stato il grande cruccio di tua madre, questo dev’essere, infine, il motivo per cui crede di non meritare la felicità, per cui è scappata prima delle nozze, pensando che mai avrebbe avuto coraggio di spogliarsi di fronte al suo sposo, che mai lui l’avrebbe potuta accogliere così com’è. Eppure, mi ha raccontato Vasco, è proprio quella notte, la notte in cui l’ha scoperto, che ha capito che con lei voleva condividere tutto, tutto ciò che l’aveva segnata sin da quando era bambina. Rientrato a casa sua, solo nel letto, si è addormentato di un sonno dolce e ha sognato di stare sdraiato accanto a lei, ha immaginato – così mi ha detto, parole sue, senza alcun imbarazzo, “la sensazione morbida di quel pelo sulle mie guance, appoggiate al petto della mia donna, ed è così che sarei voluto restare per sempre.”

Isabella

Non era il caso di perdere la calma. Serviva innanzitutto tenere il conto esatto del tempo passato dalla scomparsa di Lamberta. Per non farsi trovare impreparata, al ritorno dalla messa Isabella era corsa di sopra, nella stanza da letto dei suoi, e aveva preso di nascosto dal primo cassetto del comodino il prezioso orologio da taschino di Luigi, dono di nozze dei suoceri. Era soltanto un prestito, ovviamente, l’avrebbe rimesso al sicuro non appena ritrovata la zia, e nel frattempo anche lei sarebbe riuscita a distrarsi almeno un po’, cercando di indovinare lo spostamento delle lancette in avanti tra un’occhiata e l’altra al quadrante. “Ricapitoliamo le certezze”, si diceva tra sé e sé: la zia non si era buttata sotto al treno – la cosa non sarebbe passata inosservata, dall’altro lato dei binari le case erano fitte, e se anche il treno fosse andato troppo rapido e il macchinista avesse scambiato il tonfo dell’impatto con il corpo esile della zia per un rumore di cui non preoccuparsi, qualcun altro avrebbe assistito alla scena affacciato alla finestra e si sarebbe messo a gridare. A meno che non fosse accaduto in piena notte – chissà che ore erano, quando era riuscita finalmente ad addormentarsi, chissà quanto vantaggio le aveva dato con la sua disattenzione. Ma se si era trattato di una vera e propria fuga, la zia non poteva essere andata lontana, perché, tra caviglie sottili e scarpe con po’ di tacco, non era affatto una gran camminatrice. Certo non era ancora per strada – ce n’era una soltanto, lungo il mare, e lei e la madre l’avevano percorsa tutta a passo serrato, avanti e indietro, per andare e tornare dalla chiesa. Ulteriore elemento di mistero: nessuna traccia della Slava, che solitamente passava le domeniche mattina a leggere, dondolandosi con Igor acciambellato sulle cosce, su una sedia di vimini color sabbia davanti alla porta di casa. Ad Alberta non era sfuggita la strana assenza – «Mi tocca disturbare la signora», aveva detto subito, affacciandosi al balcone non appena rientrate, e dopo un attimo Isabella l’aveva vista scuotere la testa, ancora più preoccupata per la sorella, ma con una punta di sollievo in viso per non aver dovuto parlare con la vicina, che sin dal principio le aveva sempre messo soggezione. Anche questo – come del resto ogni cosa – era stato per Isabella occasione di ragionamento e di misura: quanti secondi ci vogliono per farsi una prima impressione, qual è la porzione della vita di un’altra persona che ci possiamo far raccontare, e quanto tempo serve passare con qualcuno per conoscerlo davvero? Più in generale, quanto tempo si può condividere tra due vite? Nei suoi ricordi, prima della Guerra, la madre e il padre erano una sola cosa, non aveva mai visto l’una senza l’altro, e ora che erano stati costretti ad andare avanti così a lungo da soli, sue due binari separati, cosa sarebbe successo quando si sarebbero incontrati di nuovo? E come potevano due sorelle gemelle, nate e cresciute insieme, sempre vissute nelle stesse case, rimanere così distanti? Isabella non avrebbe mai smesso di farsi domande. E anche se cominciava a capire che forse nella vita non c’era una risposta a tutto, a capire il perché di quella scomparsa, in quel momento, proprio non era disposta a rinunciare. 

Sul suo senso delle proporzioni era certa di poter fare ancora affidamento. Se la gattaiola era abbastanza grande per Igor, lo sarebbe stata anche per lei. Giusto il tempo di dare un’occhiata, perché qualcosa le diceva che la Slava aveva a che fare con la scomparsa della zia.

Alcide

A Igor doveva tutto. Al suo coraggio, alla determinazione con cui aveva usato il coltello. Si erano conosciuti in uno dei tanti cantieri della costa. Alcide era un bravissimo muratore, il più bravo della zona. Specie d’estate, quando le serate erano più lunghe, continuava a infilare mattone su mattone fino a tardi, così rapidamente e con così grande precisione che gli altri, tornando al mattino, avevano l’impressione che le case fossero cresciute da sole durante la notte. Amava l’idea di costruire, di riempire spazi vuoti, dare nuove mura e nuove possibilità a famiglie felici, proprio lui che non era stato così fortunato da averne una abbastanza a lungo. Certo, con un lavoro così non sarebbe mai riuscito a farsi crescere le unghie, a tenerle curate, e a vedere di nuovo come gli stava lo smalto rosso ciliegia della madre, prima che si seccasse per sempre. D’altronde, portava ancora i segni del primo tentativo. Quella sera suo padre aveva bevuto più del solito – non aveva mai smesso, da quando erano rimasti soli. «Siamo una famiglia di uomini ora, figlio mio» – ma se essere uomini significava non poter piangere, non potersi abbracciare, non poter indossare con orgoglio i colori della propria madre, annegare nell’alcool ogni forma di infelicità, e infine diventare violenti, fare male a ciò che si ha di più caro al mondo, allora no – forse era proprio quella sera che l’aveva capito – lei, un uomo, non voleva esserlo più. Era stata soltanto la prima volta. Mai, in seguito, Alcide aveva provato a difendersi, a lottare – ci sarebbe riuscita, iniziava ad essere grande di statura, i muscoli allenati dal cantiere – perché molto presto quelle botte avevano smesso di farle male. Era come un frutto con una spessa scorza rugosa e la polpa dolce sotto, e per quanto potesse ammaccarsi all’esterno, sapeva che quel tesoro nascosto, quell’amore che covava e che aveva da dare agli altri, non glielo avrebbe portato via mai nessuno. Gli occhi di Igor lo avevano visto per primi. Lei gli aveva passato una cazzuola, le loro mani si erano sfiorate, i loro sguardi incrociati – la calce che stavano stendendo si era solidificata in fretta in un legame, un patto che nessuno dei due avrebbe creduto possibile. Igor aveva iniziato ad attardarsi sul lavoro alla sera – era il momento più bello, restavano insieme fino al tramonto – «Andiamocene dall’altro lato, dove non ci conosce nessuno. Amore mio, pensa come sarà bella la nostra prima alba sul mare.» Poi era arrivata La Guerra. Entrambi arruolati a forza, si erano ritrovati compagni di reggimento e di tenda, e durante le loro notti insieme avevano continuato a pensare alla fuga, a costruire case immaginarie e piani di vita. Quando Igor era stato ferito in trincea, Alcide era lì, accanto lui, e con lui aveva scelto di morire. «Ci rivedremo, amore mio, abbiamo più vite dei gatti io e te!» e mentre si premeva la lama sulla gola, lui l’aveva trattenuta – «Lascia che sia io a farlo, ti prego, lascia che lo faccia a modo mio», le aveva detto. Le loro mani si erano sfiorate, come la prima volta, mentre Igor prendeva il coltello – ma era un’altra la liberazione che aveva in mente per lei. All’arrivo tempestivo dei soccorsi sul campo di battaglia, la mutilazione di Alcide era stata causa di grande sgomento. Il soldato era vivo, nonostante avesse perso molto sangue, ed era stato trasportato in fretta nell’ospedale da campo. Medici e infermiere avevano subito convenuto che, se anche fosse sopravvissuto, privato in modo oltraggioso della sua virilità da un nemico spietato, non sarebbe più stato adatto a combattere.

Molti anni dopo, quando era già diventata la Slava – attraversare il mare era stato il compimento della sua trasformazione – vedendo anche i giovani di quelle nuove terre partire uno ad uno per il fronte, Alcide si era chiesta se si trattasse ancora della stessa Guerra, o piuttosto se a tutti, prima o poi nella vita, non capitasse una guerra da combattere in prima persona o da veder combattere a chi si ha di più caro. E se essere uomini significava iniziare continuamente conflitti, vivere in lotta l’uno con l’altro e persino con se stessi, lei, un uomo, era davvero felice di non esserlo più. 

Igor

Affacciato alla finestra, osservava lo spettacolo di quelle due figure sul bagnasciuga. La Slava – alta, imponente, le gambe affondate nella sabbia bagnata fino alle caviglie, come due pilastri che le offrivano solide fondamenta di vita – teneva aperto un grande asciugamano rosso, pronto ad accogliere Lamberta, così minuta al confronto, che emergeva dall’acqua. «Vedi, Lamberta, forse è arrivato anche per te il momento di attraversare il mare,» – le aveva detto Alcide il giorno prima – «io, tua sorella, tua nipote, possiamo restare tutte a indicarti dov’è la riva, come hanno fatto i gabbiani con me, la notte in cui sono arrivata. Ma sei solo tu a dover decidere di entrare nell’acqua, per uscirne diversa.» 

La prima luce del sole investiva il corpo di Lamberta. Il suo petto rimandava riflessi dorati. Anche Alberta e Isabella erano scese ad aspettarla in spiaggia. La sera prima la Slava le aveva rassicurate: aveva detto che sarebbe tornata all’alba, ma che avrebbe dovuto farlo da sola. A nulla era servito l’interrogatorio di Isabella, che le si era infilata in casa perché pensava di trovarci nascosta la zia – «Ma dov’è andata? Quant’è distante? Tra quanto torna?». Altrettanto a nulla le ansie e i mille pensieri che avevano tenuto sveglia Alberta tutta la notte – «Isa, hai preso tu l’orologio di papà? Ma che ore sono?» – e ancor meno quella sua smania di vederla felice, che l’aveva accompagnata per una vita intera. La tristezza di Lamberta, la sua macchia originaria di infelicità, non aveva spiegazione né cura – lei soltanto poteva al tempo stesso accettarla e porvi rimedio. Dove fosse stata, e cosa fosse accaduto quella notte, se un bagno nuda potesse davvero essere la soluzione a tutto, anche queste erano domande destinate a non trovare risposta – cosa importava in fondo, ora che, stretta nell’asciugamano, finalmente sorrideva.

Fu a quel punto che un rumore diverso dal solito attirò l’attenzione di Igor, che corse verso la ferrovia. Quando più rapidi, quando più lenti, i treni da sempre transitavano lungo i binari lì dietro senza rallentare – un rumore a cui i gatti, che pure avevano l’udito così sensibile, si erano abituati. Quello stridio improvviso e intenso però era qualcosa di nuovo. Tutti gli altri gatti erano scappati spaventati – ma lui, che aveva il compito di vegliare su Alcide e sulla casa che avevano costruito insieme, si era coraggiosamente spinto a vedere. Da un vagone del treno fermato a forza, all’altezza precisa dell’albero di arance, era sceso un soldato. 

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