Stende il paio di metri quadrati di polipropilene azzurro e ci si inginocchia sopra nella posa delle preghiere sue, ne accarezza la superficie con gesti ampi e decisi – con ritmo – muovendo le mani dall’interno all’esterno ad appiattirne le rughe, a lisciarle, a nuotare sul pelo di quella plastica cercando una riva che non si vede. E come il risultato lo appaga pesca dal borsone nero un lenzuolo chiaro. Lo apre e lo dispone su quell’altro, corre da un angolo all’altro perché i livelli combacino al meglio, e si inginocchia e nuota le mani sciogliendo il più possibile le pieghe del tessuto. Ancora si tuffa nel borsone e aggancia un oggetto alla volta e lo dispone nell’ordine tutti i giorni uguale – i pacchetti di fazzoletti di carta, i mazzi di calze di spugna bianche con la doppia riga blu all’altezza del calcagno; gli accendigas – le ricariche degli accendigas – e i clipper in colori diversi. Tubi di bolle di sapone che hanno sul coperchio un labirinto per minuscole biglie di metallo. Maneki neko dorati – l’insolazione attiva la zampina anteriore sinistra che si abbassa e si alza, si abbassa e si alza e porta la buona fortuna.
È tutto pronto: estrae da una tasca esterna del borsone la radio a transistor portatile – è una Akai modello AR 71-KW – corpo verticale: il diffusore nella parte bassa e in quella superiore la banda che segnala la frequenza, le rotelle per i comandi, l’antenna estraibile – uno strappo di nastro adesivo nero assicura lo sportellino che copre l’alloggiamento per le pile. Con un pollice gira il cursore cercando un segnale nitido – un segnale chiaro – nella pioggia di interferenze e rumore bianco che l’aria attorno gli scatena addosso feroce; infine, lo trova, il canale suo preferito. Quello del liscio. Poggia la radio in terra che il primo assolo di fisarmonica della giornata si intona al rotolare della saracinesca alle sue spalle. Si comincia.
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Il direttore del punto vendita non è contento. Lo sa che non porta via niente al negozio, ma è una questione di decoro, dice. Che la gente arriva e parcheggia e quando si avvicina alla piazzola dove prendere il carrello giusto quello deve trovarci – il carrello, insomma – non quell’altro che vende le robe sue, esposte lì per terra.
Buttate lì in terra, dice.
Era arrivato la prima volta in un giorno d’estate. Lui aveva visto tutto dai monitor delle telecamere di sicurezza – la stesura del polipropilene e quella del lenzuolo, la pesca della merce dal borsone nero – era uscito e gliel’aveva detto subito che lì non ci poteva stare, che non aveva l’autorizzazione – e quello aveva ribattuto cose sul lavoro, i figli, il mangiare – e mentre erano sotto il sole a sudare e spiegarsi si erano fermati i primi carrelli a vedere cosa succedeva; e ai primi se ne erano aggiunti altri e altri ancora e la gente dietro i carrelli aveva preso a dire che lo lasciasse stare, quel povero cristo, che non faceva mica danno a nessuno. Qualcuno gli aveva lasciato dei soldi. Una donna aveva comprato dei fazzoletti di carta anche se non le servivano, perché le pareva brutto dare e basta – dare a gratis come a fare l’elemosina – le era sembrato più dignitoso che tra loro ci fosse una transazione di natura commerciale.
E così aveva dovuto desistere, per non fare la figura di quello senza cuore – che poi è un attimo si sparge la voce e la gente la spesa va a farla altrove. Ed è da quel giorno d’estate che quotidianamente desiste, con pervicacia – ogni mattina osservando la disposizione del polipropilene e del lenzuolo e della merce nei monitor delle telecamere di sicurezza – ogni mattina forzandosi per non intervenire.
Ma ora siamo a novembre e qualcosa bisogna pur fare.
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Sulla vetrina hanno già messo gli adesivi di slitte e pacchetti e stelle dorate; un lungo nastro di luci bianche a dissolvenza corre lungo tutta la pensilina che protegge l’ingresso dal vento, dalla pioggia e dalla neve – le poche volte che cade – così che i carrelli in attesa della gente non abbiano a soffrirne – così che quello là e le cose sue disposte in terra non ne abbiano a male – e i banconisti del reparto salumeria affilano i coltelli indossando un cappello da Babbo Natale – un filo di perle di plastica rossa incornicia lo scaffale dei cotechini.
E la radio in filodiffusione tra le corsie ricorda le offerte della settimana, la disponibilità dei piatti speciali in prenotazione al reparto gastronomia e passa a cadenza regolare gli Wham! intervallati da Bing Crosby e Mariah Carry: tutto come si conviene, come si deve, come è giusto che accada – come ogni anno. Ma ogni volta che un carrello si avvicina all’ingresso, ogni volta che entra nello spazio d’aria letto dai sensori e attiva l’apertura automatica delle porte, insieme all’umido abbattuto dalla lama di calore entra pure il programma di liscio, Omar Codazzi che si prende a schiaffi con gli Wham!, e Bing Crosby e Mariah Carry coperti dall’Orchestra Italiana di Franco Bagutti e ogni volta che il direttore del punto vendita passa dalle parti dell’ingresso ci presta attenzione, e questa cosa lo manda ai matti – che sta arrivando Natale e la gente quello è, il Natale, che dovrebbe sentire nell’aria, sempre, e non l’ultimo successo di Rossella Ferrari e i Casanova.
Parla con quelli dell’ufficio servizi sociali del Comune, parla con il capo della Polizia Municipale e chiede appuntamento al vice-sindaco con delega alla sicurezza; manda un messaggio con il cellulare a quell’amico suo che sta in consiglio provinciale e già si era attivato per le ronde notturne nella zona artigianale così che non si rubassero il rame. Ma per quanti sforzi faccia per risolvere la situazione, altrettanti sembra farne la situazione stessa per continuare a sussistere. Le vecchie della pro loco prendono a venire tutti i sabati mattina a lasciare un pacco di roba da mangiare, a quello là – lattine di tonno e fagioli e pacchi di riso – roba che vanno a prendere al discount – oltre il danno la beffa – e ci fanno pure l’articolo sul quotidiano locale, con la foto in bianco e nero delle vecchie felici con la borsa della spesa. Il logo del discount in bella vista, in primo piano. L’insegna del supermercato – del suo supermercato – non si vede nemmeno.
E intanto arriva l’Immacolata e nel piazzale oltre il parcheggio il Gruppo Alpini monta l’albero di Natale. E nel parcheggio risuona dalla radio a transistor la Patrick Orchestra Follia di Patrick Gaggioli.
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La regola però c’è e va rispettata, basta trovare chi possa applicarla. L’amico che sta in consiglio provinciale chiama il referente locale del suo partito che prende il caffè con il comandante della stazione dei Carabinieri che serve il paese e quelli vicini e una mattina arriva la volante – a lampeggianti spenti, per carità – e chiede i documenti e rileva tutta una serie di infrazioni che alla fine i pacchetti di fazzoletti e le calze bianche di spugna e gli accendigas – le ricariche per gli accendigas – e tutto il resto se ne tornano nel borsone nero e i maneki neko più che la buona fortuna sembrano ora dire ciao-ciao, la radio a transistor si spegne e nel parcheggio si sente solo il crepitare degli pneumatici sul velo di ghiaccio lasciato dalla notte.
È l’antivigilia di Natale.
Giusto in tempo, pensa il direttore del punto vendita; e senza che nessuno se ne accorga sale in auto e segue a distanza la volante perché vuole essere sicuro di come vada a finire la storia – mica che se lo portano solo a fare un giro e glielo risciacquano davanti alla porta tempo un quarto d’ora. E invece no, i Carabinieri fanno il loro e si fermano alla stazione delle corriere e aspettano fino a che quello là sale su un bus e ancora aspettano fino a che il mezzo non lascia la banchina; e finalmente il direttore del punto vendita fa manovra e torna da dove é venuto e mentre guida verso il suo supermercato aziona l’autoradio e c’è Elton John che canta Step Into Christmas, e tutto è perfetto e tutto gira alla perfezione e l’auto corre sulla provinciale, da un lato campi infracidati di fango ed erbe morte, dall’altro le gru ferme che aspettano dopo le feste per rimettersi al lavoro.
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Passa un anno esatto – una nuova antivigilia di Natale – e l’ormai ex direttore del punto vendita si ritrova a correre in auto sullo stesso strappo della provinciale e se lo ricorda, quel momento dell’anno precedente; gli viene addosso come a rovesciarsi il caffè sui pantaloni – un brivido immediato, una pausa infinitesimale prima che il calore passi dal tessuto alla pelle e cominci il dolore. I campi infracidati di fango ed erbe morte sono ancora lì e lì staranno sempre; le gru invece se ne sono andate e al posto loro la grande insegna iridescente del nuovo centro commerciale e del nuovo grande supermercato che ha un nome diverso rispetto a quello che dirigeva lui.
Arriva nel parcheggio di quello che era il suo, di supermercato: quest’anno niente albero montato dal Gruppo degli Alpini, niente vetrofanie con i fiocchi di Natale e i pacchetti e quelle robe lì. Ferma l’auto, scende, si avvicina all’ingresso: la polvere e il nero dello smog lasciato dalla pioggia sedimentati tra le maglie metalliche della saracinesca abbassata. Le mani a coppa contro una delle vetrine per schermare i riflessi dei lampioni: guarda dentro e dentro è buio, gli scaffali vuoti. E per questo mese ancora nessuna novità – che ci sono le feste e con le feste tutto si ferma – se ne riparla con l’anno nuovo: c’è chi dice ricollocamento, chi trasferimento; per ora è mobilità e anche a mandare i curricula in giro chi vuoi che risponda sotto Natale?
Il direttore del punto vendita – l’ex direttore del punto vendita – raggiunge l’auto e fa per salire e subito si ferma come ad annusare l’atmosfera; e deve essere per qualche fenomeno fisico di trasmissione delle onde, di propagazione del suono – che si vede quando l’aria è fredda i rumori viaggiano più lontano, sì: deve essere per questo, altrimenti non si spiega – non si spiegherebbe com’è che non c’è nessuno nel parcheggio eppure lui riesce a sentire nitidamente, distintamente, Ruggero Scandiuzzi e la sua orchestra suonare Amore Testardo.