Di alcuni oggetti sarebbero rimaste solo le immagini mentali, condannate a sopravvivere seppur per un breve lasso di tempo prima di sottrarsi anche loro alla coscienza.
In una sorta di guasto metafisico, la materia cominciò a ritrarsi.
Accadde ad alcune automobili della città, a cui sparirono all’improvviso le ruote, e così non ci fu più traffico e un rumore bianco narcotizzava le strade.
Nei caffè sparirono le tazze e i cucchiaini e insieme a essi il tintinnio delle stoviglie e le chiacchiere al bancone.
Anche ai libri accadde qualcosa di simile, sebbene con gradualità. All’inizio, bibliotecari e librai segnalarono che i volumi sugli scaffali avevano cominciato a perdere alcune frasi, per poi perdere, con il trascorrere del tempo, intere pagine, come se la produzione del pensiero umano fosse stata costretta a una sintesi estrema. Se all’inizio sembrò che i libri conservati nelle case fossero immuni alla sparizione delle cose, nel giro di qualche settimana fu altrettanto chiaro che non sarebbe stato così.
La mia edizione de I Detective Selvaggi di Bolano passò da 688 pagine a 188, il Tractatus di Wittgenstein si ridusse alle sette proposizioni principali, la raccolta Poesia cinese dell’epoca T’ang sparì invece del tutto.
Succedeva sempre così, quando nessuno guardava, bastava chiudere per qualche istante gli occhi o voltare le spalle. Non sembrava accedere secondo un ordine preciso, non c’era apparente gerarchia tra oggetti semplici o complessi.
Dopo poco tempo, però, eventi così sconcertanti e privi di logica non si verificarono più.
Avrei dovuto capirlo da quell’intermezzo pubblicitario che da qualche mese affliggeva i palinsesti. Una giovane donna con un caschetto platino, la voce robotica con accento americano che ricordava quella dell’assistente vocale di un software di traduzione, vagava per le stanze di un grande appartamento passando in rassegna un oggetto dopo l’altro, per poi emettere la sua sentenza.
Oggi faremo un gioco-sfida della durata di trenta giorni che consiste nell’eliminare un numero di oggetti pari al giorno della sfida.
Inizieremo il primo giorno eliminando un solo oggetto, il secondo giorno ne elimineremo due, il terzo giorno tre… e così via fino alla fine della sfida in cui ci troveremo ad aver eliminato ben cinquecento oggetti!
Subito dopo Kourtney, la professional organizer, cadeva dopo essersi scontrata contro quello che definiva un inutile vaso in ceramica. Il vaso si infrangeva.
Con un semplice gesto, le cose sparivano al di là dell’inquadratura della telecamera.
Aveva detto proprio così, sorridendo maliziosa:
Getto o conservo?
Certe volte la soluzione è solamente una.
Così sparì anche l’inutile vaso in porcellana cinese che giaceva abbandonato nel disimpegno all’ingresso del mio appartamento.
All’improvviso pensai ci fossero dei vantaggi in questa strategia, d’altronde come suggeriva Kourtney “un ambiente privo di oggetti superflui favorisce la concentrazione”.
E così il secondo giorno, senza preavviso e in modo imprevedibile, sparì il portachiavi rotto a forma di gatto della fortuna che teneva insieme le chiavi dell’appartamento, e dal mio armadio se ne andò senza far rumore la macchina da scrivere, modello Olivetti Studio 46, turchese. L’avevo ereditata da mio padre, che a sua volta l’aveva ereditata da mia nonna.
Il terzo giorno sparirono una tazza sbeccata a cui non ero particolarmente legato, una maglietta con alcuni buchi che il mio primo amore adolescenziale mi aveva portato in regalo da un viaggio in Irlanda – e mi dispiacque profondamente – e un vecchio vinile, di cui all’inizio non mi accorsi. Quando accadde, decisi di non accendere mai più la televisione per placare gli effetti di quel decluttering estremo.
Non potevo accettarlo. Si trattava di un vinile rarissimo, fuori produzione e di cui non esisteva alcuna registrazione digitale. S’intitolava Nancy Sinatra sings La Bambola ed era una cover dell’omonimo brano di Patty Pravo uscito nel 1970 come singolo in tiratura limitata 1.000 copie e pubblicato dalla non più esistente casa discografica La Gheparda Records. In copertina appariva la cantante sorridente in abiti da marinaretta. Funzionava ancora.
Lo ascoltavo spesso perché mi ricordava mia madre. La ricordo ancora così, muoversi per il corridoio mentre impersonava la buffa cover di quella canzone.
Non avrei mai potuto più riascoltarla, ed ebbi subito il timore di poterla dimenticare per sempre.
Presi l’ascensore fino al piano -1 del palazzo in cui abitavo e cercai nel vano immondizia. Nessuna traccia né di Nancy né della macchina da scrivere, né di nient’altro. Pensai fosse uno scherzo o che fossi impazzito io.
Tornai a casa e mi sedetti sul divano, cercai di recuperare la calma e piano mi addormentai nella speranza di ritrovare, al mio risveglio, tutto al suo posto. Nel sogno mi sembrò di risentire la canzone, l’accento americano e quel Tu mi fai girar, tu mi fai girar…
Poi mi svegliai all’improvviso e mi accorsi che la musica continuava, forte e chiara, insinuandosi attraverso la finestra aperta sul buio.
La musica mi sembrava così forte e la sua sorgente sonora così facilmente raggiungibile, come se stesse venendo suonata in un club da qualche parte vicino casa, o a un rave. Il quartiere dove abitavo era vivo di attività commerciali e complessi residenziali, ma nella notte si trasformava in un dormitorio.
Decisi di scendere in strada, mettermi alla guida di una bici a noleggio e inseguire la musica. Non appena mi sembrava di avvicinarmi, all’improvviso la mia percezione della sorgente mutava facendomi cambiare strada, una dietro l’altra. Macinai diversi chilometri quasi fino all’imbocco autostradale. Lì decisi di arrendermi e di tornare a casa.
La musica era cessata e io continuai a dormire.
Al risveglio, la mattina mi apparve silenziosa. Si trattò di una breve impressione, subito smentita al momento del caffè. La musica era tornata, e questa volta sembrava più prossima che mai, come se un giradischi suonasse da quella piccola stanza che avevo adibito a studio accanto alla camera da letto. Appena aprii la porta, il suono diminuì in volume e, mentre mi fu chiaro che non ci fosse alcun giradischi, all’improvviso la musica sembrò provenire da una stanza al di là del muro, come dall’appartamento del mio vicino.
Mi abbassai e portai l’orecchio alla parete.
No, ragazzo no, del mio amore non ridere.
Restava chiedere al vicino di farmi entrare in casa sua e spiegarmi perché avesse deciso di sottrarmi il vinile e, forse a questo punto, anche tutti gli altri oggetti perduti. Sarei stato pronto a venire alle mani nel caso non me lo avesse restituito.
Arrivato alla sua porta, nell’attesa di una risposta, protesi l’orecchio contro la superficie lignea: nel rimestare metallico delle stoviglie sotto il getto del lavandino, una voce emergeva chiara. Era quella di Kourtney, la professional organizer.
Quando mi aprì, un uomo single sulla quarantina senza capelli e un chihuahua a pelo lungo al suo seguito, si rivolse a me in modo stranamente comprensivo e mi lasciò entrare in casa.
Attraversando il suo salone, mi fu chiaro come quella foga minimalista dovesse aver colpito anche casa sua. Un divano nero e un table coffee in vetro erano unici superstiti circondati da pareti bianchissime.
Mi disse di non aver sentito alcuna musica, e mentre tentava di tenere a bada l’agitazione del cane, prese a elogiare i mirabolanti effetti che la sfida dei 30 giorni stava avendo sulla sua concentrazione. Poiché lavorava da casa, la sua produttività era aumentata notevolmente nelle ultime settimane, tanto da garantirgli una promozione di grado nell’azienda. Poi mi chiese se anch’io fossi a conoscenza di quella pratica di decluttering e mi invitò a fare lo stesso.
Mentre stavo per rispondergli, le note della canzone arrivarono anche lì, strisciando lungo la planimetria dei nostri appartamenti. Tutto conduceva al bagno.
All’inizio ci trovammo confusi. Il volume della voce di Nancy cambiava in continuazione, un tratto sembrava fuoriuscire dallo scarico della doccia, in un altro momento si ricollocava all’interno del cestello della lavatrice. Persino il cane si dimostrò infastidito dal continuo variare del suono, e cominciò a ululare, come prima di una catastrofe.
Infine, la voce si stabilizzò al di là del muro, dove il bagno del vicino coincideva con il mio studio.
Gli chiesi di giurarmi che sentisse anche lui la musica e, con sicurezza, mi rispose che sembrava provenire proprio da casa mia.
Cominciò a cantare gioioso: Non ci gioco più quando giochi tu, sai far male da piangere…
Quando tornai a casa la musica era di nuovo finita e mi assalì la paura di non poterla ascoltare mai più. Mi accorsi, con spavento, dell’instabilità della memoria e di quanto fosse legata alla memoria. La sparizione delle cose si portava via, strappando a forza dalla coscienza, pezzo dopo pezzo le immagini mentali, e le immagini si annebbiavano fino a offuscarsi – questa la loro condanna.
Per un periodo di tempo che mi sembrò infinito, in modo ossessivo provai a suonare quella musica nella mia testa, cercando di riprodurre nella mia immaginazione proprio quel timbro e quella melodia. Mi dissi che, se l’avessi fatto ogni giorno, forse avrei potuto prolungare la permanenza di quella traccia il più a lungo possibile, e così l’immagine di mia madre che danzava leggera nella penombra di un corridoio avrebbe continuato ad avere la sua colonna sonora.
Prima di sera, ricordai che prima di arrivare in quella casa, l’appartamento mio e quello attiguo avevano fatto parte di un unico stabile dello stesso proprietario. Pensai che ci potesse essere un’altra stanza a dividere le nostre due case. Non ricordavo di preciso se avessi una copia della planimetria originale e, dopo diverso tempo impiegato nella ricerca, decisi di chiamare il vicino per chiedergli se avesse una copia risalente a quel periodo. Mi rispose che l’avrebbe cercata.
Il mattino dopo, la musica taceva ancora, e inspiegabilmente nonostante l’avessi immaginata fino ad addormentarmi, la voce di Nancy sembrava sfuggire ogni secondo di più alle maglie della memoria, risoluta ad andarsene senza pietà.
Pensai che avrei dovuto contattare il programma televisivo, la sua redazione, o se c’era – doveva per forza esserci – un servizio di assistenza per rescindere il tacito contratto con cui avevo consegnato gli oggetti di casa mia alla sparizione. E se avessero rifiutato le mie lamentele, mi sarei appellato a un tribunale.
Ma poi, sulla soglia della porta di ingresso, trovai una busta per documenti, e al suo interno la planimetria che la sera prima avevo chiesto al vicino.
Da un breve esame non sembrava vi fossero stanze segrete tra il mio appartamento e quello del mio vicino, ma solo un’insolita intercapedine dallo spessore superiore ai cinquanta centimetri circa. L’intercapedine si estendeva per l’appunto dal mio studio al suo bagno, sigillando in quello spazio compresso le nostre vite. Per ovvie ragioni, era del tutto inaccessibile.
Andai di corsa nello studio.
Le note ripresero ad affiorare di nuovo dalla parete che mi separava dall’intercapedine, e fui sicuro: era lì che si trovavano senza via di uscita l’inutile vaso, il portachiavi con il gatto portafortuna, la macchina da scrivere, la tazza sbeccata, la maglietta bucata e il vecchio vinile.
Cosa avrei potuto fare? Magari avrei potuto riaccendere la tv e ricominciare la sfida dei 30 giorni ripetendola fino a svuotare interamente la casa di qualunque oggetto. Forse, sparendo uno dopo l’altro, gli oggetti del mio appartamento avrebbero a poco a poco riempito l’intercapedine, gonfiandola oltre ogni misura fino a farla collassare. Altrimenti, avrei potuto tirare giù il muro.
Allo stesso tempo mi consolò l’idea che, se non avesse smesso di suonare, quella musica non se ne sarebbe mai andata da me. Il suono attraversa le pareti e l’importante è riuscire a rimanere nello spazio della sua trasmissione.
Infatti, anche senza l’aiuto di un giradischi, la canzone continuava a ripetere senza sosta:
Poi mi butti giù, poi mi butti giù…