“Dipende tutto dall’azienda: se devi dichiarare un indirizzo allora si parla di telelavoro, se no è smart working e puoi farlo da dove ti pare.”

“Ah certo, quindi il tuo è…”

“Bravissima, nel mio caso è smart working, posso lavorare anche dalla macchina o dalla casa in montagna, insomma da qualsiasi posto e loro non possono dirmi nulla. La mia azienda fa smart dal 2016, molto prima della pandemia.”

Una mano di lui nella tasca dei pantaloni, color cachi, e l’altra a reggere un bicchiere di gin tonic, trasparente, visibilmente annacquato. Cravatta slacciata, guance leggermente rosse, tempie leggermente lucide. Lei beve un vermouth liscio, ha una teoria molto dettagliata sui cocktail. Si potrebbe ascriverla al gruppo delle sue teorie sul “risparmio”, che appartiene a sua volta al macro gruppo delle teorie sui “furti legalizzati di questa società”, sottocategoria dell’insieme “capitalismo”. Nei bar, ai festival, e tanto meno nei locali, non si prende mai qualsiasi tipo di bevanda contenente ghiaccio. Motivazioni: 1. bere ghiaccio sciolto a volte è molto pericoloso (teoria del gruppo “cibi e bevande da asporto”, facente parte del macro gruppo “scaramanzie e precauzioni”, sottoinsieme di “ipocondria”) 2. il barista aggiunge ghiaccio per mettere meno alcolici, si sa, quindi guadagna facendoti bere in pratica acqua fredda del rubinetto 3. i prezzi sono irragionevoli (con una bottiglia di gin da 22 euro dell’Esselunga ti sbronzi 3 volte, per sbronzarti 3 volte se sei fuori ti servono 4 gin tonic da 8 euro l’uno, quindi 4 per 8 fa 32, 32 euro per 3 volte fa 96 euro). 

“Cioè tipo se io domani decido di affittare una barca e lavorare dalla Liguria posso farlo, e ciaone, che me ne frega.”

Gli occhi di lei spalancati, fissi, la faccia seria segue con attenzione le castronerie che sta facendo finta di condividere. Lui in piedi, lei seduta, le gambe accavallate. Dico castronerie perché, anche da qui, ho capito benissimo che lui è il tipico esempio di business man che non lascerebbe mai la sua postazione scrivania per assecondare l’audacity di affittare una barca e lavorare da lì, anzi, se potesse, andrebbe sempre in ufficio al posto di fare smart. Lo sa anche lei, perché io e lei sappiamo più o meno le stesse cose, e perché so che ha già conosciuto uomini così. Lavorare è: stringere mani, prendere caffè, farsi vedere, arrivare prima, andare via dopo. Annuisce perché stasera non ha nient’altro di meglio da fare, e comunque lui pagherà sia quello che hanno preso da bere che da mangiare, e non ci sarà neanche bisogno di scopare dopo perché lui ha l’ego troppo grande per fare la prima mossa, aspetterebbe una moina di lei, la moina non arriverà e quindi grazie, è stato carino, ci vediamo in giro, no tranquillo chiamo Uber

“Ma se vuoi ti chiamo un taxi io, ci metto un attimo.”

Inutile spiegare perché lei non sale su un taxi dal 2022, in questo caso i sottogruppi da sciorinare sarebbero troppi e poi fanno tutti parte di un insieme molto più grande denominato “Salvini”, che non mi sembra il caso di aprire stasera. 

L’altro motivo per cui lei annuisce, il più valido, è una gara che tacitamente ha iniziato con se stessa, e che ogni venerdì sera porta avanti, segnando punteggi e affinando tecniche. La suddetta competizione consiste nel riuscire a mantenere qualsiasi tipo di discorso il più a lungo possibile. A volte ci riesce per l’intera serata, in alcuni casi l’impegno è così forte che ne nasce quasi un interesse reale. Non ne sapeva nulla e ora sa tutto su: le freccette, la differenza tra polli, pollastri, galline e tacchini, The Office, i film con (e di) Nicolas Cage, One Piece, la storia degli Asburgo, le concessioni edilizie, burraco. Ha imparato tutto quello che doveva sapere dalla sua (nostra) amica Stefania, quattro figli, due mariti, pochi anni più di lei (di noi). Una sera memorabile la Stefi è riuscita, una domanda intrusiva dietro l’altra, a rimorchiare a una delle feste conclusive del Salone del libro un famosissimo editore solo parlando di Pikachu. Le cose importanti da tenere a mente per partecipare sono di fatto solo tre: dimostrare interesse stando quasi zitta e ficcando solo qualche strategica domanda qua e là; mantenere una posizione corporea aperta al dialogo, no braccia conserte, no dare il fianco; guardare intensamente negli occhi l’avversario (perché di questo si tratta) sbattendo le ciglia il meno possibile. 

La serata è inevitabilmente finita. Lei ha preso Uber, lui è tornato nel suo capannello di amici, uno di loro gli ha messo una mano sulla spalla e tutti insieme hanno riso. Avranno detto qualcosa tipo “dai, il prossimo te lo offriamo noi”. Lei ha retto tutta la sera un discorso sul lavoro agile di un’azienda di consulenza finanziaria, e sono sicura che sia riuscita a fornire minime informazioni sul suo conto, non il cognome, il lavoro, la zona dove abita. È una professionista, lei. Io, invece, nonostante gli insegnamenti di Stefania, sono al terzo negroni, non ho più fame, ho slacciato il colletto della camicia e sono appoggiata con un braccio al bancone in segno evidente di resa. Braccio appiccicoso per il caldo, bancone appiccicoso perché di legno verniciato. Sto ascoltando da mezz’ora un tizio leggermente più basso di me, capelli ricci e biondi, barba tagliata con poco criterio, parlare della sua amica, la Manu, che da poco si frequenta con un medico pediatra che ha un appartamento a City Life. La Manu, che è una ragazza anche molto carina, non stava con uno da un sacco di tempo, tipo due anni, non usciva neanche con i tipi di Tinder, e poi di botto una sera si è sentita male per la gastrite, è stata ricoverata in pronto soccorso e indovina chi era di turno? Lui, il medico pediatra. Ho pensato (ed evidentemente ho anche detto ad alta voce), che comunque tra tutti i medici possibili il medico pediatra mi sembra proprio il più affascinante.

“Infatti, è quello che le ho detto anch’io! Cioè già sei medico e ok, alle ragazze piace, in più sei pediatra, addio, hai vinto.”

“Tu che lavoro fai?”

“Il data analyst.” 

Ho pensato che tra tutti gli analyst, il data analyst era quello meno affascinante, ho pensato che lei era andata a casa già da venti minuti e non mi aveva nemmeno guardato, ormai non le dà neanche più fastidio che io sia qui. Testarde come siamo ci rifiutiamo di cambiare bar, creando cortocircuiti silenziosi negli altri avventori abituali come noi, che non sanno da chi andare, con chi parlare per prima, se riderci su, se sdrammatizzare, o forse no perché è ancora troppo presto. Lei è andata e io sono qui, andrò a casa con lui anche se non ne ho voglia, forse mi farò perfino chiamare un taxi domani mattina, e vorrò sapere di più sulla sua amica Manu, cose più specifiche, e dunque, paradossalmente, più ascrivibili a teorie generali. Gli chiederò dettagli sulla sua vita, su quel poster appeso in camera, gli parlerò dei quadri che ho appeso io nella mia, del mio lavoro, di quella collega che non mi guarda mai negli occhi quando mi parla, della mia intolleranza alle albicocche. Probabilmente non lo vedrò mai più, e quindi, a cosa è servito? Da piccola pensavo che ognuno di noi avesse un numero limitato di parole da poter utilizzare in questa vita, finite quelle: perpetuo silenzio. 

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