Non tutti gli eroi indossano un mantello, alcuni indossano un abito da console spagnolo falso. La storia di Giorgio Perlasca è quella di un uomo che ha rischiato la vita per salvare più di cinquemila ebrei durante l’occupazione nazista di Budapest. Una storia di coraggio, certamente, ma anche di ingegnosità e altruismo. Nel dialogo che ho avuto con lui di recente, Franco Perlasca, figlio di Giorgio, sottolinea che il padre non è stato un eroe, ma un giusto. Questa distinzione è importante perché l’azione del giusto non ha tratti eroici o, quantomeno, non è vissuta in questo senso. Il giusto non possiede una particolare vocazione al bene, altrimenti si parlerebbe di santità. La scelta è, dunque, la caratteristica principale di queste donne e uomini.
Tuttavia, la storia di Perlasca è rimasta a lungo sconosciuta. Fu solo grazie a Enrico Deaglio che venne fuori. Il giornalista ebbe modo di intervistare Giorgio Perlasca fortunosamente, grazie alla sua conoscenza con il regista televisivo Gad Castel. L’incontro avvenne nell’autunno del 1989 a Padova, sul divano di Perlasca, e da quel momento in poi Deaglio domandò, interrogò, approfondì, a più riprese, per mesi. L’intervista di Deaglio divenne poi una piccola pubblicazione uscita nel 1991, intitolata La banalità del bene, in contrapposizione alla banalità del male rappresentata da Adolf Eichmann. Il libro fu un successo e contribuì a rendere nota la storia di Giorgio Perlasca dopo un silenzio durato una vita intera.
Durante il dialogo con suo figlio, ho avuto modo di rievocare la figura e i ricordi dell’uomo. Franco Perlasca, oggi presidente della Fondazione Giorgio Perlasca, è attivo nella valorizzazione della storia di questo antieroe. Ha tenuto a sottolineare due aspetti principali dell’esperienza umana di suo padre: il primo riguarda, da un lato, il silenzio generale delle istituzioni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale intorno all’esperienza di Giorgio Perlasca che, non appena tornato in Italia, documentò sia al governo italiano che a quello spagnolo la sua attività a Budapest, e dall’altro, quello più intimo del padre che durò più di quarant’anni. Nessuno nella famiglia era a conoscenza di Jorge, dei salvataggi e dei mille inganni. Ora, provate ad immaginare di essere figlio, moglie, amico o vicino di casa di un tranquillissimo anziano di paese che, dopo quarant’anni, si scopre essere protagonista di una storia tanto incredibile che a tratti assume dei contorni quasi inafferrabili. Chi non proverebbe stupore, incredulità, rabbia? Sì, anche rabbia di un figlio, quella di aver sottratto dalla possibilità della condivisione un gesto così emblematico. La rabbia di Franco, che lui stesso ci racconta coraggiosamente, sarà riannodata solo dopo la morte del padre.

Nell’intervista, Franco chiarisce che a suo giudizio il silenzio intorno alla sua vicenda è stato principalmente legato all’appartenenza fascista del padre. In sintesi, la figura di un fascista “buono” è impresentabile, decostruisce una narrazione, presenta un lato umano dove non dovrebbe comparire, e non permette di distinguere così nettamente tra buoni e cattivi. La vicenda di Franco è complessa e, a tratti, ancora più complesso è il passaggio successivo del ritorno a casa e della normalità, perché si inserisce nel contesto di un’Italia che si votò al silenzio rispetto alla guerra, agli arresti, alle delazioni, alle deportazioni e alla morte. Chi più, chi meno ha subito lutti, distruzioni e disgrazie. La guerra ha colpito tutti, nessuno escluso. Questo è il sentire comune: persecutori, perseguitati e spettatori, tutti in parte vittime. Storie di resistenza, di vergogna, di codardia e di estremo coraggio rimangono chiuse, indistintamente, sotto il coperchio della volontà di ricominciare.
Il secondo aspetto che Franco ha sottolineato è che il padre non è stato un eroe, ma un giusto[1], il che è diverso. Questa distinzione potrebbe sembrare capziosa e superficiale, tipica di chi vuole complicare le cose, ma diventa invece una questione sostanziale. L’azione del giusto non ha tratti eroici, quantomeno non è vissuta in questo senso. Non ritiene che il suo gesto possa cambiare le sorti di tutti ed è mosso a volte anche da spregiudicatezza e inconsapevolezza delle conseguenze delle sue azioni. Sa quello che fa, ma non sempre può conoscere il risultato finale. Il giusto non possiede una particolare vocazione al bene. In caso contrario, parleremmo di santità. La scelta è, dunque, la caratteristica principale di questi uomini e donne.
Enrico Deaglio – sottolinea ancora Franco – è stato fondamentale nell’uscita dal silenzio della storia di Perlasca e nel far conoscere al mondo la sua figura di antieroe, un uomo che ha compiuto gesti straordinari senza avere l’aspettativa di essere ricordato come un eroe. Eppure, se si consulta Wikipedia, il noto giornalista è ricordato per le sue numerose e prestigiose collaborazioni con Lotta continua, La Stampa, Il Manifesto, Panorama, Repubblica e altri, ma non vi è riferimento alla pubblicazione della biografia di questo anziano e distinto signore padovano, praticamente sconosciuto a quasi tutti gli italiani fino all’inizio del 1991. La biografia di Giorgio “Jorge” Perlasca, appunto.

Enrico Deaglio arrivò a Perlasca fortunosamente, grazie alla sua conoscenza con il regista televisivo Gad Castel. Nell’autunno del 1989, infatti, su alcuni giornali uscì la notizia di un italiano insignito di alcune onorificenze statali in Israele e “scoperto” solo due anni prima da un gruppo di donne che si dichiaravano salvate da un certo Jorge Perlasca nella Budapest occupata del 1944.
L’incontro tra il giornalista e il salvatore avvenne nel 1989 a Padova, sul divano di quest’ultimo. Da quel momento in poi, Deaglio interrogò, approfondì e domandò ripetutamente per mesi. Il racconto di Perlasca non cerca scuse o comprensione, e allo stesso tempo non giudica neppure quando si rivolge a Deaglio dicendo: “Lei, cosa avrebbe fatto al mio posto? Nessuno mi vedeva, l’ho fatto… Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?” [2]
L’intervista di Deaglio divenne una piccola pubblicazione, pubblicata nel 1991[3]. Ad oggi, sono state fatte otto ristampe con decine di migliaia di libri venduti in tutto il mondo.
La vicenda di Perlasca è ormai nota. Uno dei tanti giovani italiani rimasti affascinati dal fascismo nazionalista e dannunziano della prima ora, decise negli anni Venti di partire come volontario per l’Africa Orientale e poi, negli anni Trenta, di combattere al fianco delle truppe del generale Francisco Franco in Spagna. Per Perlasca, la conoscenza del mondo spagnolo rappresentò lo snodo fondamentale della sua vita. Tornato a casa, nei primi anni Quaranta, lavorò tra Zagabria e Belgrado per una società di importazione ed esportazione di bestiame di Trieste. Questa occupazione gli permise di muoversi liberamente per i Balcani e, allo stesso tempo, di evitare l’arruolamento. Nel 1942 si trasferì a Budapest [1] e, con l’8 settembre, rimase bloccato in città. Non volendo giurare fedeltà alla R.S.I., si mise fortemente in pericolo ma decise di rifugiarsi al Consolato Generale di Spagna presente in città. In quanto ex-combattente franchista, ricevette un lasciapassare spagnolo con lo pseudonimo di Jorge Perlasca.
Perlasca racconterà a Deaglio che la promulgazione delle leggi razziali italiane, il 17 novembre 1938, e le progressive discriminazioni e vessazioni che colpirono la comunità ebraica italiana lo atterrirono e gli provocarono un enorme fastidio, un’incapacità di comprendere che progressivamente si trasformò in opposizione: non ne capiva il senso prima di non condividerne le conseguenze[4].
Nel frattempo, a Budapest, molte legazioni diplomatiche fuggirono per evitare di riconoscere il governo ungherese filonazista di Szàlasi. Tra queste c’era anche quella spagnola, diretta dal Console generale Angel Sanz Brinz, che aveva già operato per salvare alcune decine di ebrei ungheresi e stranieri attraverso il rilascio di salvacondotti. Jorge si trovò solo in una città nemica, uno dei pochissimi rappresentanti di uno stato estero. Si fece passare per sostituto del Console Generale presentando credenziali false, e quindi autorizzato dal Governo spagnolo ad agire per suo conto. Può sembrare assurdo, frutto di una sceneggiatura cinematografica, ma è così. Il racconto postumo di Perlasca, per la sua semplicità e asciuttezza, è disarmante: “Penso di non aver avuto coraggio, andavo dritto per la mia strada[5]“. Tra l’inverno del 1944 e i primi mesi del 1945, quando Budapest fu liberata dalle avanguardie dell’Armata Rossa, Jorge salvò 5218 bambini, donne e uomini. Li fece alloggiare in apposite case protette che godevano di extraterritorialità e fornì loro salvacondotti che impedissero alle autorità naziste e ungheresi di arrestarli e deportarli.

I meriti di Deaglio sono molti. Il primo è quello di aver cercato con forza una storia dimenticata, come altre simili che contribuì a rendere note, difendendola dall’oblio e ricompensandola dopo un silenzio durato una vita intera. Un silenzio che coprì tutto e fu cifra comune nelle storie di ritorno di salvati e salvatori, ed oppressori. L’Italia della fine della Seconda guerra mondiale era il Paese che si apprestava a vivere il boom economico, la rinascita industriale, culturale ed etica che avrebbe riscattato tutti i cittadini dal fascismo. Guerra, violenza, discriminazione e sofferenza rimasero fuori dal dibattito pubblico, forse ammesse in quello privato. Silenzio di comodo, interessato ma anche quello causato dal dolore, dallo smarrimento, dalla solitudine di famiglie e vite falcidiate dalle follie autoritarie. Un patto anti-memoriale, quindi, perché, parafrasando il filosofo Ernest Renan, l’essenza di una nazione non risiede solo in quello che i cittadini hanno scelto di ricordare e riconoscere come patrimonio comune, ma anche dalla possibilità e volontà di averne dimenticate molte altre[6].
Il secondo è quella della scelta dell’anno di pubblicazione: non è casuale il 1991. Erano passati trent’anni dal processo al tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann che Perlasca incrociò per pochissimi secondi proprio a Budapest. Eichmann rappresentava la banalità del male, come sostenne Hannah Arendt. La rappresentazione di un uomo mediocre abitato da un male radicale. Da qui il titolo di Deaglio, in contrapposizione: La banalità del bene.
Gli anni ’90 sono stati l’era dei testimoni, in buona parte salvati, sopravvissuti ai lager, per lo più ebrei, che ruppero progressivamente il muro del silenzio e riaffrontarono pubblicamente la “straordinaria dimensione dell’offesa inflitta dal fascismo” [7] e dal nazismo. Diventò, però, anche il tempo di altre storie che si svilupparono parallele, a tratti furono anche gemelle.
Infine, l’ultimo merito del racconto di Deaglio è quello di raccontare un uomo non stereotipato, fuori dagli schemi e dalle classificazioni tradizionali su cui si resse, in parte, anche la retorica antifascista degli anni ’60 e ’70. Perlasca è un antieroe, non ha nessuna caratteristica dell’eroe o del santo. Soprattutto non fu un perseguitato o esiliato dal regime, anzi, ricordò e non rinnegò il suo innamoramento per il fascismo: “Ma la cosa buffa, però, è che io non sono un antifascista. Ho smesso di essere fascista, ma non sono diventato dopo la guerra un antifascista. La mia storia è diversa” [8] .
Perlasca morì il 15 agosto 1992. Insignito dell’onorificenza di Giusto fra le Nazioni, tra i tanti riconoscimenti ricevuti in vita quello a cui teneva di più era una scritta regalata dagli alunni di una scuola elementare: “Ad un uomo cui vorremmo assomigliare”. Sulla sua lapide, a Maserà vicino Padova, una solo scritta, oltre il nome: “Giusto”
Bibliografia
- G. Perlasca, L’impostore, Torino, il Mulino, 1997.
- L. Cognolato, S. Del Francia, L’eroe invisibile, Torino, Einaudi ragazzi, 2014.
- J. Blanchaert, 100 Giusti del mondo, Milano, Rizzoli, 2018.
- E. Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 2021.
Note
[1] https://www.yadvashem.org/education/other-languages/italian/about-righteous.html.
[2] E. Deaglio, E. Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 2021, p. 13.
[3] La sua storia era stata già in parte raccontata nella puntata di Mixer di Giovanni Minoli dedicatagli: https://www.youtube.com/watch?v=PeUhXoj_98s.
[4] Per spiegare meglio il suo senso di incredulità ed incomprensione nei confronti dei provvedimenti varati dal fascismo, Perlasca citò brevemente la figura di Paolo Vita-Finzi suo superiore nella campagna di Spagna. Si veda https://www.ilfoglio.it/cultura/2018/03/26/news/uno-scettico-erudito-nel-paese-delle-ideologie-186276/.
[5] Deaglio disse di lui, ricostruendone brevemente alcuni passaggi biografici “un uomo giovane, normale, non particolarmente intenso né nella fede religiosa né nell’ideologia politica”.
[6] E. Renan, Che cos’è una nazione? e altri saggi, Roma, Donzelli, 1993, p. 8-9.
[7] F. Levi., Le case e le cose. Un bilancio storiografico sull’Egeli e sugli aspetti economici della persecuzione fascista, in La Compagnia di San Paolo, 1563-2013, a cura di W. Barberis con A. Cantaluppi, Einaudi, 2013, vol. II, p. 199.
[8] Id, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Milano, Feltrinelli, 2021, p. 17.