Il topo apparve sette giorni dopo la prima mestruazione di Pauline. Un lampo grigio con zampe simili a minuscole mani umane. La prima volta zia Katie lo vide sfrecciare nel corridoio accanto alla scala che conduceva al piano superiore, la coda liscia trascinata come un velo da sposa, una palla di pelo con il muso troppo lungo da cui sporgevano i piccoli denti giallastri. La vecchia ne ebbe orrore e lo inseguì con in mano una delle sue ciabatte, ma prima ancora che potesse raggiungerlo l’intruso scomparve. «Topi, animali del Diavolo», pensò zia Katie mentre appoggiava le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, «averli in casa porta sfortuna». Il giorno successivo, un coro di grida acute come spilli piovve dalle camere e una scia di ragazze trafelate scese le scale spintonandosi; si parlavano l’una addosso all’altra, qualcuna piangeva, altre strillavano seminude e puntavano il dito verso la scala. Il topo era schizzato da una stanza all’altra, gli occhietti rossi puntati sui piedi nudi delle ragazze in cerca di pelle da masticare, l’avevano sentito squittire in un modo acuto, sinistro. Mentre tentava di riacquistare il controllo della situazione e prometteva che avrebbe catturato quella sporca bestiaccia, zia Katie si accorse che Pauline non era scesa insieme alle altre. Dissero che non si era ancora svegliata ma, nonostante i suoi sforzi, zia Katie non riuscì a crederci. 

La madre di Pauline gliel’aveva mollata davanti alla porta neanche fosse un cucciolo di cane; a zia Katie accadeva ancora di sognare quegli occhi materni iniettati di sangue e il fetore di frutta marcia che emanavano i vestiti della donna. La ragazzina aveva già dieci anni. Tutto sommato poteva uscire fuori più selvatica, aveva pensato zia Katie, come la maggior parte di quelle stradaiole che accoglieva nella sua casa-famiglia sostenuta con i fondi della parrocchia. Il rifugio per ragazze in difficoltà sorgeva alla fine di un serpente di ghiaia che si allontanava in spire contorte dalla città di M***** e le pareti blu della casa, scrostate dall’umidità, la facevano sembrare una pupilla azzurra piantata nel nulla, irraggiungibile, come osservata attraverso un cannocchiale rovesciato. 

Le ragazzine apparivano a tarda notte, simili a lupe scheletriche, e sostavano di fronte alla porta senza avere il coraggio di bussare; semplicemente aspettavano. Zia Katie avvertiva la loro presenza, aveva imparato a riconoscere quel richiamo attraverso la notte. Spalancava le palpebre rugose e trascinava la massa imponente del corpo fuori dalle lenzuola, caracollando fino all’entrata. Avrebbe potuto enumerare con precisione le facce che avevano ricambiato il suo sguardo invisibile dallo spioncino, deformate dalla curvatura del vetro. La forma della bocca, la dimensione delle spalle, il taglio degli occhi, alcuni dettagli diversificavano le ragazze, ma tutte si assomigliavano per la contrattura che affilava loro i muscoli sotto la pelle, un indizio fisico della circospezione con la quale erano obbligate a convivere. Nella stasi della notte, le loro ciglia sembravano in grado di incrinare il buio con un sibilo di ali di falena. Zia Katie socchiudeva la porta e le squadrava velocemente, poi con un sospiro drammatico permetteva loro di entrare. A qualsiasi ora si presentassero, era sua cura infilare le randagie sotto la doccia, controllare che si sfregassero per bene i capelli, le unghie, i genitali, finendo poi con l’andare lei stessa a caccia di pidocchi munita di un pettine dai lunghi denti. Con Pauline era stato diverso. Si era lasciata abbindolare, lo ricordava precisamente: la piccola l’aveva osservata dalla doccia con gli occhi sbarrati, frastornata, mezza ricoperta di schiuma, mentre le manine passavano insicure su croste e lividi di cui zia Katie aveva preferito non indagare l’origine. Allora si era rimboccata le maniche, aveva strofinato la bambina come un pupazzo. Pauline non aveva pianto né gridato né chiamato la mamma. Zia Katie l’aveva trovato un fatto curioso. Solo in quel momento si era accorta di quanto fossero neri gli occhi di quella mezza orfanella, un nero di ossidiana che rifletteva gli oggetti anziché assorbirli. «Occhi così portano sfortuna», aveva pensato. Ma poi la bambina si era schiacciata contro il suo petto di chioccia flaccida e quel sospetto si era volatilizzato. Forse, ma non poteva esserne certa, le era parso di intravedere un sorrisetto.

L’isteria collettiva si abbatté sulla casa come una tempesta: le randagie credevano di sentire il topo strofinare il muso bagnato contro la loro bocca durante la notte, erano terrorizzate da ombre inesistenti, dicevano di sentirlo grattare attraverso i muri e zampettare sulle testiere dei letti. E per quanto si impegnasse, anche zia Katie non riusciva a non farsi suggestionare. Era come avere addosso una frenesia, una sensazione di sporco che la portava a lavare ossessivamente le coperte e i vestiti, a svegliarsi madida di sudore con la paura di trovarsi quella cosa tra le lenzuola, di percepire all’improvviso i suoi schifosi denti gialli affondarle nella carne del polpaccio, infettandola con chissà quali malattie. Perdeva intere giornate a dargli la caccia, disseminando trappole, cibi avvelenati, fogli di carta adesiva, ma sembrava che nulla potesse eliminare l’intruso. Ogni volta che una delle ragazze intravedeva il topo, o pensava di scorgere un pezzo di coda sparire dietro un angolo o una zampina rugosa infilarsi sotto un mobile, tutte si precipitavano al piano inferiore per avvertire zia Katie, che saliva munita di scopa. Tranne Pauline. La ragazza non c’era mai, non si sforzava nemmeno di aprire la porta della camera, o si faceva viva quando il caos era passato con un’aria assonnata, irretita, come se fosse appena riemersa da un sogno. Poi sorrideva fino a scoprire i canini e si leccava le labbra screpolate osservando la scena con aria feroce. Zia Katie le lanciava occhiate brusche ma non osava dire niente. Sperava con crescente malinconia che tornasse a essere la bambina di un tempo.

Dopo poche settimane dal suo arrivo alla casa azzurra, Pauline era diventata il braccio destro di zia Katie, quasi una sua estensione; il rumore delle ciglia-falene sul portico aveva iniziato a turbare il suo sonno prima ancora che l’anziana donna alzasse la testa dal cuscino. Per questo zia Katie le aveva permesso di occuparsi delle ragazze e di acquisire una parziale egemonia all’interno della casa: molte delle randagie arrivavano in piena esplosione ormonale e i loro corpi non facevano altro che sprigionare sangue, sudore e secrezioni vischiose. Puzzavano di un odore ferino che aveva la consistenza del muschio; era un aroma che sembrava in grado di attaccarsi alle pareti, di infettare l’intero pianeta. Anche sotto questo aspetto, Pauline si era dimostrata una creatura differente dalle altre: fin dal suo arrivo, era sempre stata avvolta da un profumo trasparente, di pioggia, di cui zia Katie non riusciva a identificare la provenienza. Pauline era l’unica che zia Katie lasciasse entrare nella sua camera privata. Quando Pauline compariva, zia Katie sentiva che un’armonia soffice la avvolgeva come seta. Non c’era nessun ordine o bisogno a cui Pauline non provvedesse. Spesso insisteva per massaggiarle i piedi. All’inizio zia Katie aveva rifiutato, le sembrava inopportuno che la sua protetta vedesse e toccasse quella porzione di carne nuda; inoltre i piedi di zia Katie erano deformati dalle vene varicose, dalle migliaia di ore di lavoro che avevano infierito sulla pelle trasparente, e la vecchia se ne vergognava. Ma Pauline le aveva toccate come se fossero le palme di una santa. La routine era diventata confidenza, la confidenza fiducia cieca. A tal punto che zia Katie non si era accorta del passare del tempo, non aveva prestato attenzione alle gambe della sua protetta sempre più simili a steli, alla linea retta dei fianchi insidiata da curve di burro, mentre il viso, al contrario, perdeva le rotondità dell’infanzia e si spaccava in zigomi da cacciatrice. Solo gli occhi non mutavano, pulsavano dello stesso splendore buio del giorno in cui la ragazza era arrivata alla casa, una luce che sembrava nutrirsi di inesistenza. Zia Katie, tuttavia, non lo considerava più un presagio funesto, ma una peculiarità della sua giovane aiutante e, nella sua mente facilmente eccitabile, già erede designata. 

Fu un trauma per lei la notte in cui la faccia di Pauline cominciò a impallidire e le sue labbra (da quando avevano quell’aspetto di pianta carnivora?) si contrassero in una smorfia di dolore. Con un soffio appena udibile mormorò «Zia…» e svenne. Zia Katie cacciò un urlo, sollevò la sua bambina da terra, le diede degli schiaffetti sulle guance (da quando erano così incavate?), le passò uno straccio umido sulla gola (da dove spuntava quel collo di cigno?), le accarezzò i capelli (e quella chioma color miele, così lucente e morbida?), le slacciò il reggiseno per costringerla a respirare, ansimando come una cagna in preda al delirio. Quando le tolse i pantaloni inorridì, gli occhi piantati sulla macchia di sangue grumoso che si allargava tra le cosce della sua bambina come una maledizione. Un odore pungente, di carne cruda, le invase le narici. Passò un minuto buono prima che si ricordasse di non essere sola e fu allora che vide la bocca spalancata di Pauline, l’espressione stravolta. La ragazza si portò le mani al viso e scoppiò in un pianto isterico, «Morirò! Morirò!» gridava, e si rannicchiò in posizione fetale schiacciando la fronte sul tappeto. Zia Katie la prese per le spalle cercando di tranquillizzarla ma non riuscì a nascondere il suo stesso sgomento. Pauline le rivolse da sopra la spalla uno sguardo vitreo, ferito. «Ti faccio schifo», mormorò. «Smettila», sbottò zia Katie, e andò a prendere alcuni tamponi, sgusciando via in preda a una sensazione di soffocamento. Quando tornò, la camera era diventata fredda. La ragazza si era trasformata in una bambola con gli occhi. Ascoltò i discorsi di zia Katie, annuì due volte e poi si diresse verso la porta. Rivolgendole le spalle magre, improvvisamente curve, disse: «Anche a mia madre facevo schifo». E chiuse la porta dietro di sé.

L’ansia di zia Katie per le apparizioni del topo aumentò quando scoprì segni di morsi sui battiscopa, sui fili per il bucato e sulle gambe dei tavoli. Le impronte dei denti erano sparse ovunque, come briciole di pane marce impossibili da non seguire. E il topo non era l’unico abitante della casa a toglierle il sonno: Pauline era cambiata. Da settimane non faceva altro che dormire e infilarsi nello stomaco qualsiasi cibo le capitasse a portata di mano, il sapore o la consistenza non importavano, né importava che fosse mezzogiorno oppure mezzanotte, e ancora meno il fatto che il cibo avesse la brina del frigorifero appiccicata sopra o rischiasse di ustionarle la lingua. Aveva iniziato a detestare i piatti e le posate, come se la fretta di masticare la rendesse folle, mangiava dalle pentole, rubava la cena dal piatto delle altre ragazze e affondava le mani nelle teglie di dolci impiastrandosi la bocca di crema. 

La sua fame e il suo aspetto si stavano trasformando. Pauline aveva accusato zia Katie di vestirla come un maschio e così aveva tagliato di sua iniziativa maniche, orli di gonne, gambe di pantaloni; si considerava bella e voleva che tutti lo sapessero, che tutti la immaginassero nuda. Si aggirava per la casa come una lupa accecata, circondata da un’aggressività ambigua, che non lasciava intendere se volesse fare a pezzi gli altri o spogliarsi davanti a loro. Zia Katie non sopportava le sue scenate, i momenti infernali in cui si sgolava a tal punto che il pallore del suo viso era investito da un’ondata di sangue, o quando si attaccava a lei con le unghie strillando a causa di qualche futile capriccio non soddisfatto, o quando fingeva il pianto e la inseguiva in ogni stanza, supplicandola, minacciandola, poi supplicandola di nuovo. Pauline non le concedeva vie di fuga, neanche durante la notte: zia Katie sognava quel corpo elettrico che la braccava, che le piantava le dita scheletriche tra le costole e le rigirava come lame. Il viola scavava solchi intorno alle sue palpebre, si sentiva più spossata a ogni nuova alba, più esausta a ogni tramonto. Qualcosa le succhiava la vita dall’interno: sulle gambe, le varici aggrumate come nodi d’albero erano di un blu malsano e il suo corpo era diventato ingombrante, fermentava contro il suo volere. Quello che più la turbava era l’inappetenza che, negli ultimi tempi, la costringeva a rimandare i pasti per non essere sopraffatta dalla nausea. Tuttavia non perdeva peso, anzi le sembrava di ingrassare a vista d’occhio, di gonfiarsi come una vescica. E mentre la sua giovane protetta ingurgitava carcasse di cibo senza che questo aggiungesse un millimetro di grasso alle costole, la carne di zia Katie si ostinava a moltiplicarsi nonostante il digiuno forzato; era una materia molle, flaccida e bianca che la donna non riusciva più a contenere con busti e calze, e che straripava sfidando il controllo dell’anima che la abitava, come se fosse un organismo vivo, pensante. 

L’invidia feriva zia Katie come una spina di vetro quando il corpo di Pauline entrava nel suo campo visivo e volava, oscenamente giovane, per le stanze azzurre della casa. Nel ghigno ironico della ragazza a zia Katie pareva di veder riflessi tutti i suoi miserabili difetti fisici. Se il topo perseverava nelle sue apparizioni demoniache, Pauline, una serpe dalle fattezze deliziose, avvelenava le sue giornate. Per sfuggirle, zia Katie dava la caccia al primo con tutte le sue forze, sacrificando le notti, il sonno e la lucidità. Una volta riuscì a sfiorare il topo con la punta delle dita mentre fuggiva a rintanarsi in una crepa molle di umidità. La sua paranoia esplose nel momento in cui comparvero le piaghe. Quattro tagli suppuranti, speculari, fiorirono sulle sue braccia enormi; le avvolse con garze imbevute di disinfettante, nascose quella vergogna che assomigliava a un maleficio, a una disgrazia senza nome. Aveva paura di farsi visitare, aveva paura delle risposte e del silenzio, e si limitava a pregare.

Quella notte, zia Katie udì un rumore di piedi fatati che scendevano i gradini, risatine d’argento simili a squittii. Poi nella nebbia febbricitante del suo sonno penetrò un sussurro che colava da sotto la porta come un veleno. «Zia Katie», altre risatine, «Oooh zia Katie», qualcuno strattonò il pomello della porta, provavano a entrare, «Zia Katie vieni a salutarci», nocche magre battute contro il legno della porta, «Fatti dare un bacio prima che andiamo via», «Zia Katie?», «Zia Katie…». Sospiravano aldilà delle pareti, zia Katie sentiva il loro fiato aderirle addosso. Si rannicchiò più stretta, pregando Dio che smettessero. Dalla cucina arrivò un frastuono di cassetti rovesciati e di posate sparse sul pavimento, di gridolini eccitati. Una di loro si mise a cantare, altre voci aggraziate e selvagge si unirono al coro, zia Katie riconobbe la voce di Pauline. I passi si affrettarono verso l’entrata e il frastuono si interruppe, ma ne rimase una sorta di eco, in lontananza. Zia Katie sgusciò fuori dal letto, ridotta a una grassa lumaca, e piazzò l’occhio contro la serratura. Le si oppose un’oscurità densa. L’orologio segnava la mezzanotte. Zia Katie, ormai unica abitante della casa, si avvicinò a carponi all’ingresso, accecata dal bagliore della luna. Una macchia nera sfrecciò sulle sue dita gonfie, gli occhi rossi del topo per un istante incontrarono i suoi e il terrore le spense in gola ogni grido. L’animale si acquattò in una crepa del muro, come se aspettasse. In strada, le ragazze danzavano con gesti disarticolati intorno a una pila di indumenti, alcune cantavano, altre battevano le mani e gridavano come belve. Pauline si era spogliata e tagliuzzava i suoi abiti con una forbice per unghie; le altre la imitarono, estrassero dal mucchio gonne, mutande, canottiere, pantaloni e iniziarono a smembrare i vestiti con coltelli da cucina, lime, forchette e persino spille da balia, ridevano dell’oscenità del mondo, i loro occhi bruciavano dello stesso fuoco nero che ardeva dalla nascita in quelli di Pauline. Si baciarono, si strinsero le mani in un girotondo allucinato. Zia Katie assisteva a quello spettacolo incapace persino di recitare le preghiere che l’avrebbero protetta. All’improvviso Pauline si girò verso zia Katie, aveva il ventre incavato e il viso più affilato che mai, i canini scoperti in un ghigno da incantatrice, e le rivolse un inchino, sfiorando con il mento la terra grigia, la mano sinistra appoggiata sul cuore.

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