Arrivato a pochi centimetri dal mio corpo, ha sbattuto con violenza più volte la coda sull’acqua. Ha spalancato le fauci e ho pensato che mi avrebbe fatto fuori. Invece si è avvicinato fino a toccarmi, si è girato, e ha preso a camminare. L’ho seguito, mi ha condotta fino a una capanna. All’interno non c’era nessuno.  Mi sono rivolta al bestione, ho detto:
– Ti va bene se ti chiamo Micky?
Ha sbattuto la coda, l’ho preso per un sì. Mentre io mi approntavo un giaciglio di fortuna per la notte, lui se ne è andato. Ho visto che si appostava,  immobile, nell’acqua salmastra e limacciosa. Non riuscivo più a distinguerlo, per quanto era bravo a stare fermo. Poi però il ribollire improvviso dell’acqua, la sua bocca sbucata di colpo, alcuni pesci volati per aria: Micky stava mangiando. Avevo fame anche io ma forse ero più stanca che affamata e cosa mai avrei potuto mangiare lì? Non sono un alligatore di sei metri come Micky. Ho guardato intorno alla capanna se per caso ci fossero dei frutti per terra, ma non ho visto niente. Mi sono infilata nella mia casa di fortuna e mi sono messa a dormire. Al risveglio il mio amico alligatore era davanti all’ingresso, si crogiolava al sole. Io, da quando mi ero buttata giù dalla nave da crociera, non avevo più messo niente sotto i denti. Non è stata proprio una decisione, avevo il frastuono alle spalle, le stelle sopra la testa e il mare davanti: mi sono tuffata e basta. Senza sapere cosa sarebbe successo, dove fossi o dove sarei finita: dovevo proprio buttarmi. La crociera era diretta ai Caraibi, avevo vinto il viaggio, proprio io che non vinco mai niente. Però a un certo punto, dovevo solo lasciare quella crociera. L’acqua era piacevole, all’inizio ho nuotato, poi mi sono messa in posizione da morto e mi sono lasciata trasportare dal mare. Sono riuscita persino ad addormentarmi, per quanto ero tranquilla. Non pensavo a pesci che potessero aggredirmi o pericoli. Per me l’unico pericolo era tornare sulla nave. Temevo si accorgessero che ero in acqua e venissero a salvarmi. Strano come la salvezza per uno sia la morte per un altro. La sola idea di non vedere persone, di avere silenzio intorno, mi faceva star bene. Dormendo e galleggiando, il mio corpo si è lasciato trasportare dalle onde che mi hanno depositata su una spiaggia. Mi sono svegliata sul bagnasciuga, il sole fortissimo, l’acqua cristallina e alle mie spalle tante mangrovie. Sono andata verso di loro, mi sono piegata per vedere di quanto affondassero in acqua le radici. Mi piace avere tutto sotto controllo, conoscere tutto ciò che mi circonda, stare al sicuro, sapere esattamente dove sono e dove sto andando. Eppure qualcuno mi ha spinto. Fa sempre un po’ paura incontrare uno sconosciuto. A meno che sia l’unico a sapere cosa fare quando ormai sei in mare aperto. Dicono che parlare di un altro, così, sia schizofrenia, ma io so che c’è e so che ci sono, invece nella schizofrenia ci si ignora a vicenda, come nelle coppie disfunzionali. La mia per ora sembra una coppia di mutuo soccorso.  Devo ancora mangiare, chissà quanto si può reggere senza ingerire niente. Ho anche molta sete, e quella so che devo estinguerla in breve tempo, ricordo che non si può stare molto senza acqua. Avevo degli abiti addosso, ne sono certa, invece adesso sono vestita di sola pelle. Fa caldo qui, non è un problema essere nuda, ma se dovessi incontrare qualcuno? Per ora siamo solo io e Micky e mi stupisco della facilità con cui riesco a interagire con lui. Lo seguo, si immerge in mezzo alle radici, gli vado dietro. Per fortuna è riemerso a pelo d’acqua, così posso respirare. Però procede sempre più spesso con immersioni e  finisce che mi alleno ad apnee via via più lunghe. Stiamo nuotando da parecchio, quando mi rendo conto che siamo sott’acqua da molto, e che non sto respirando, e so anche che non è possibile.
Micky di solito è davanti a me, invece adesso si è spostato alle mie spalle, ha le fauci aperte sulle mie gambe, non faccio in tempo a scappare, mi sta ingoiando, pare faccia attenzione a non graffiarmi con i denti aguzzi. Mi ritrovo al suo interno come Pinocchio nella balena. Solo che io non ho una candela da accendere, è buio pesto, e soprattutto non è possibile che io sia tutta intera e viva nella pancia di un alligatore. I polpastrelli avvertono sostanza liscia e viscida sotto le mani, evito di pensarci o mi verrà un attacco di panico. Chiudo gli occhi ed è come aprirli: sono sott’acqua, e vedo ciò che vede Micky. Si è messo in agguato, ma se mangia verrò travolta dal suo pasto, mi agito, picchio contro le pareti del suo corpo. Micky si dimena, ondeggia, e ingloba un pesce enorme. Mi riparo con le braccia, sento un tonfo, ma non mi arriva niente addosso. Non sono nel suo stomaco quindi, ma dove allora? L’unica parte larga abbastanza per contenermi è la coda, ha una coda gigante Micky, lunga almeno due metri. Fossi ancora sulla nave starei già spaccandomi il cervello per capire, spiegare, trovare una logica. Il mio corpo è reale, occupa spazio, è concreto, però resta il fatto che adesso sono Micky. Le voci le sentiamo entrambi, nello stesso momento, Micky si acquatta sul fondo, dove le radici sono fitte. Una piccola barca avanza, spinta da remi, a bordo ci sono quattro persone.
– Fermo! Lì, ho visto qualcosa.
Ha parlato a voce bassa ma ho sentito con chiarezza. Stanno guardando proprio nella direzione in cui siamo io e Micky.
– Io non vedo niente, dove?
Quello che ha parlato per primo indica lo stesso punto di prima, ci ha proprio visti. La barca si dirige verso di noi.
– Torna indietro!
È spaventato, non parla nemmeno più a bassa voce, Micky li attacca. Remano a più non posso per allontanarsi ma non riescono a fermare i poderosi colpi di coda. La barchetta si capovolge, uno rimane incastrato sotto, gli altri tre cercano di nuotare lontano. Una gamba rimane in acqua, con una scia di sangue. La testa di uno resta accanto alla barca con una colata di rosso che si allunga, mi viene da vomitare. L’ultimo riesce a salire su un ramo, non può fare niente per gli altri due, né per quello rimasto sotto la barca. Vedo uomini in divisa, stanno sparando al tizio sull’albero e a quelli in acqua. Gridano in una lingua che non conosco, gli altri li capivo. La loro barca è più grande, spinta da un motore. Quello sull’albero alza le mani, quello sotto la barca sbuca fuori e fa altrettanto. Li issano a bordo, li ammanettano. Tirano su anche quello ferito e il corpo decapitato del quarto. Si guardano intorno, controllano la piccola barca capovolta, se ne vanno.
Forse erano bracconieri, per un attimo ho temuto fossero qui per me ma erano venuti per la pelle di Micky. È bello starsene qui nascosta, protetta da questo animale gigante. Non si sta male, però vorrei sentire di nuovo il vento e l’acqua addosso. Sta nuotando lontano dal nascondiglio, in mare aperto. Non sapevo che gli alligatori potessero allontanarsi così tanto dalla riva. Voglio uscire, cerco di avanzare, di affacciarmi dalla sua bocca, non mi piace la direzione che ha preso, non so dove stia andando ma non voglio che ci vada.
– Fermati Micky, fermati!
Lo dico a ripetizione ma mi ignora, sento delle voci che urlano:
– Lanciate un salvagente, aiutatela!
Ho la mano sul muso di Micky, mi ha sputato fuori e se ne va. Qualcuno si è tuffato, mi stanno tirando su.
– Copritela, poveretta
Sollevo la testa, non lo vedo, sarà in profondità, forse è già di nuovo al riparo a riva tra le mangrovie.
– Stai tranquilla, è tutto a posto, sei al sicuro.
Non è vero, solo con Micky lo ero, tra le radici, con la sua pelle che era la mia, la sua forza che era la mia. Ora sono di nuovo solo Michela.
Me ne torno nella mia cabina, dormo senza sognare, mi sveglio e il viaggio è finito. Me ne torno a casa, riprendo a lavorare, un codice a barre dopo l’altro bip bip bip, do il resto, un altro giorno finisce.
Che starà facendo Micky?
Lo ritrovo per caso, in televisione. È lui, ne sono certa, quegli alberi sono mangrovie, è la BBC. Mi annoto il nome del cameraman, gli mando una mail, col mio inglese stentato, e non mi aspetto che risponderà, però ogni giorno controllo e alla fine nello spam compare la risposta. Sa dove sia quel coccodrillo,  è Charlygreen, è così che lo chiama, dice che adesso si trova in Canada per delle riprese da vendere a un canale naturalistico. Quando rientrerà a Londra mi manderà il materiale su Charlygreen che non ha venduto e potrò comprarlo, se voglio. Ma a me serve solo che mi dica come arrivare da Micky.  Insisto e insisto finché cede e me lo dice.
Corro in agenzia per comprare il biglietto. L’addetta prima mi guarda perplessa poi dice:
– Non ci sono voli per quel posto.
– Ma io devo andarci.
Allarga le braccia:
– Non so che dirle, nessun volo da nessun aeroporto ha quella destinazione.
Ha mentito, quando la gente è così categorica , o ignora la verità, o mente. Ci deve essere un modo per arrivare da Micky. Cambio agenzia, le destinazioni si avvicinano ma non ci arrivano direttamente.
– Va bene, ma ci sarà un modo per arrivare dal porto più vicino, giusto?
– Non è una meta turistica.
– Esiste sulla cartina, perché nessuno mi ci vuole portare?
L’addetto pare più comprensivo della signorina dell’altra agenzia viaggi, dice:
– Mi spiace, ma quella è una zona dove arrivano solo i cameraman e al limite i bracconieri. È
Ecco, lui almeno dice la verità, sa che ci si può arrivare ma non è in suo potere farmi un biglietto. Da dietro la scrivania si sporge verso di me, giunge le mani come in preghiera, poi dice:
– E va bene, un modo lo troviamo.
Traffica al computer, pesta sui tasti, trascrive qualcosa su un foglio.
La mail dell’accompagnatore è in un inglese basico. In qualche modo riusciamo a fissare giorno, ora e luogo. Ha jeans sdruciti, maglia chiazzata di sudore, un cappellaccio di paglia. Salgo sulla carretta galleggiante. Gli indico le mangrovie, le ricordo alla perfezione. Lui fa segno di no col capo, gli chiedo perché, dice:
– You crazy miss, I no go there.
Mi viene un moto di disperazione. Ho venduto ogni piccolo oggetto di oro che avevo, ho venduto i libri che avevo collezionato in anni di letture, ho venduto persino il catorcio di auto che era il mio unico mezzo per spostarmi, ho messo insieme il denaro per arrivare fino a qui e lui dice che no go there.
– Why not mister Lawrence? I must go there.
– You crazy, miss, they shot there.
Lui mima il gesto, sparano.
– Who?
Fa un gesto vago con la mano, inverte la marcia, urlo mettendogli una mano sul braccio:
– No! Please, very very important for me, please, I go there.
È seccato, in pratica mi sta dicendo di andarci da sola. L’ho già fatto una volta, non dovrei avere problemi, invece ho paura. Se questo tizio se ne va, io rimango fra le mangrovie. La volta precedente non sapevo niente , ora è diverso. Mi sono bruciata il cervello e i pochi soldi racimolati a fatica, e pure i giorni di ferie. Afferro la sacca tenendola in alto, mi immergo in acqua e vado verso la spiaggia deserta. Forse posso ancora urlare e richiamare quel tizio, e invece no, vado avanti. Da quale parte sarò arrivata la volta scorsa? Mi sfilo i pantaloni bagnati e i sandali. Non vedo nulla di familiare, vado verso una capanna. Neanche ci penso a verificare che sia vuota, entro contenta e rimango paralizzata. Una donna mi fissa dall’interno di quella che, è ovvio, non può che essere casa sua. Indietreggio, non ha l’aria minacciosa, sembra più che altro incuriosita. La donna mi fa segno di seguirla. Parlano con un idioma tutto sommato anche dolce da sentire, ma non capisco niente. La donna fa segno alle altre due, accendono un piccolo fuoco in un braciere, mi fanno indossare un gonnellino come il loro. Mi porge una ciotola con dentro un liquido. Non voglio bere, scuoto la testa, lei sorride e annuisce mantenendo la ciotola in prossimità delle mie labbra, il fumo dal braciere mi arriva alle narici, mi sento un po’ brilla, alla fine bevo, mi adagio sulla stuoia.
Quando riapro gli occhi ho mal di testa, sento una voce dire:
– Signorina?
Mi sento frastornata e confusa, la voce arriva dalla proprietaria della capanna, ha gli stessi occhi luminosi, la stessa pelle, ma è vestita di tutto punto, dice:
– Posso avere lo scontrino?
Ancora confusa mi guardo intorno, sono seduta, c’è gente in coda, la mano va da sola verso la striscia di carta, la strappa e la porge alla signora che dice:
– Grazie mille.
Come un automa sposto nel canaletto il separatore di spesa e inizio a passare i prodotti sul lettore di codice a barre. Bip bip bip il suono familiare della mia solita vita. Nel plexiglass che ho di fronte mi vedo riflessa. Ho addosso una pelle verde, una coda lunga due metri, adagiata dietro lo schienale della sedia. Micky è riuscito a ritrovarmi.

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