Nel cortile di fianco un uomo spazzava le foglie morte dal prato.

Un volto curioso, pensai, sembra il superstite di una pulizia etnica. Un circasso o un assiro.

Volevo avere la certezza di essere nel posto giusto.

– Abita qui Madame Bounina? – Chiesi.

L’uomo non rispose, si limitò a osservarmi con un sorriso ambiguo, come se ne trovano nei geroglifici. Il sorriso di un cane o di uno scarabeo. Dalla porta corse fuori un bambino, schizzò tra le gambe dell’uomo e prese a fissarmi anche lui. Mi incamminai verso il civico sessantuno. Bussai, e osservai emergere dalla penombra una vecchia ingobbita.

– Questo è un quartiere di immigrati, – Si affrettò a precisare la vecchia, per spiegare l’incontro con il vicino di casa – Voi indigeni ci trovate curiosi, come animali di un bestiario. –

– Non esistono indigeni in questa città. –

Servì il tè con un vassoio di dolcetti slavi. Spiegai il motivo della mia visita, volevo parlare del suo defunto marito, Ivan Alekseevič Bunin. In una trasmissione radiofonica avevo sentito Madame Bounina parlare della sua amicizia con Čechov.

– Ivan Alekseevič era un caro amico del Dottor Čechov, conservo un mucchio di lettere. Posso dire, con grande orgoglio, di possedere l’unica foto esistente del sorriso di Anton Pavlovič… Gliela mostro volentieri. Le interessa? – Chiese, eseguendo un sorriso la cui forma, o qualcosa nel suo leggero tremolìo, suggeriva l’appartenenza a un’epoca remota. L’epoca d’oro del cinema sovietico, in cui gli attori recitavano con la canna del fucile puntata alla nuca e l’occhio paranoico di Joseph Stalin era ubiquo e inflessibile.

Avevo ricevuto l’indirizzo della vedova da un professore della Sorbona. Non ero uno studente, ma seguivo le lezioni in mancanza di alternative. All’epoca vivevo in una mansarda a Pigalle. C’era appena lo spazio per i libri e il mio cazzo, dicevo, nelle rare occasioni in cui avevo ospiti. Era una domenica mattina di Novembre, il cielo era malato. L’unica finestra dell’abitazione offriva un desolante esempio di archeologia industriale. Gli edifici erano circondati da cortili in rovina. Ipotizzai un legame architettonico tra i caseggiati fuori dalla finestra e i lager dell’Europa Orientale. Vedevo file di persone incolori marciare dentro oscure caserme.

– Mi farebbe piacere – risposi improvvisando un sorriso di circostanza, in cui dovette trapelare il mio imbarazzo.

Era una vecchia babuska. Sulla scrivania, in salotto, giaceva una pesante macchina Olympia, con cui scriveva le sue memorie. Ricordai un’altra foto di Anton Pavlovič Čechov, “Il medico autore di più di seicento racconti” i quali costituivano, secondo alcuni, “un’enciclopedia della società russa”. Nella foto di Prokudin-Gorskij, Anton Čechov sedeva su un sasso in riva a un fiume, con un espressione immortalata negli istanti precedenti alla lenta diffusione, sul suo volto, di un sorriso caustico. Vera Mouromtseva, vedova di Ivan Bunin, afferrò una sedia di legno mezza marcia che sistemò ai piedi di un grande armadio a specchi. La mia immagine riflessa non aveva alcun legame estetico con l’arredamento della casa. Ero, in mezzo al salotto, come una statua di cera. Il tentativo fallito di un artista visionario e ingenuo di dare forma all’uomo del futuro. La tappezzeria era claustrofobica. I tappeti riproducevano un giardino sacro in cui crescevano, in simbiosi, tutte le piante e i fiori del mondo. Il Samovar era un uccello solenne, sempre pronto a rivelare orribili verità. I mobili d’epoca sembravano un collegio di satrapi. La vecchia era stanca, si trascinava lentamente, impegnata a simulare l’entusiasmo richiesto da un’imminente rivelazione. Dovette ricordare i pomeriggi trascorsi con suo marito, quando il sole pallido della Russia occidentale si posava sul suo giovane volto come una carezza. In un momento di esitazione, i nostri sguardi si incrociarono. Sollevò le cosce grasse. Per un breve istante una pantofola titubò nel vuoto, in cerca della sedia. Il legno scricchiolò. Aggrappata al bordo dell’armadio, si arrampicò con successo. Sperai che non si voltasse, temevo il suo sorriso da bambina disgraziata, i gesti lenti e confusi dei morti nei momenti successivi al trapasso. Le mani tastarono la superficie superiore dell’armadio, alla ricerca di qualcosa che era lì ma esitava a manifestarsi. Vidi materializzarsi dall’ombra una grossa valigia nera. Mi alzai di scatto e l’afferrai dalle mani antiche da cui oscillava.

– La foto è qua, non può essere altrove. –

Poi scese metodicamente dalla sedia, accasciandosi sul tappeto, dove riversò il conenuto della valigia. Erano fogli gialli, induriti dal tempo. La calligrafia di Ivan Bunin era elegante, ufficiale. Quella di Anton Čechov ricordava le iscrizioni arabe sulle pareti dei mausolei in Asia Centrale. Vera Mouromtseva frugava tra i carteggi, su cui precipitavano le gocce di sudore scivolate dalla fronte.

Ecco un’altra voce da aggiungere all’enciclopedia, pensai. Una vecchia disperata, in cerca di una testimonianza del passato. Come le figure dei tarocchi, era assorta nella ripetizione di un gesto. Le mani si muovevano laboriose.

– Non la trovo, mi deve scusare. – Disse con un filo di voce.

Nei momenti cruciali si rivela la nostra impotenza. Ma i momenti cruciali sono invenzioni letterarie, indispensabili a favorire la narrazione e sottrarci all’immobilità delle cose morte. Era come se la vedova mi avesse scambiato per un emissario della morte e si affannasse a ritrovare i documenti necessari a rimandare la pratica.

– Un bel giorno di Giugno, – disse – nei pressi di un campo in fiore, incontrai Ivan Alekseevič. Il suo sguardo era lontano: un’altra donna occupava i suoi pensieri. Ne fui addolorata, ma ero giovane e brillante. In un’altra occasione, diversi anni dopo, in seguito al nostro secondo incontro, mi descrisse come una Bella ragazza, tranquilla, dai lineamenti leonardeschi. Gli feci pagare l’iniziale indifferenza, poi rinunciai alla carriera, e alla famiglia (Durante la rivoluzione, Ivan Alekseevič si schierò con i Bianchi…). –

Vera Mouromtseva sorrideva trasognata. Di fianco all’armadio impallidiva un rettangolo di luce biancastra, come le guance di un impiccato. Era la stessa luce, nello stesso perimetro dai contorni lineari che avevo osservato quella mattina, al risveglio nella mia stanza. Quella luce mi guidava, come la luce lunare nel bel mezzo della notte guida i passi di un sonnambulo. Era la nostra aurora, mia e della vedova, immersi in una soluzione rancida. I gesti di Vera Mouromtseva si indurirono, terrorizzata spargeva le carte.

– Dev’essere qui, proprio qui – Sussurrò.

Le lettere svolazzavano a mezz’aria, come gli ultimi battiti d’ala di un uccello a cui fosse esploso il cervello, condannato a esaurire le ultime forze in preda al delirio.

– Bunin parlava spesso del Dottor Čechov – Disse, e fece una pausa per versare una lacrima.

Ecco il genere di trasfigurazioni di cui è responsabile la memoria. Mi alzai, frazionando l’azione in gesti elementari e necessari.

– La prego di scusarmi, devo andare. – La vedova di Ivan Bunin lanciò un grido.

Seguì un lungo silenzio. I mobili erano ancora lì, disposti in ordine intorno a noi. E in cerchi sempre più larghi il resto del mondo, della cui esistenza era logico dubitare.

– La vita è lunga. Durante il percorso si disfa tutto, pezzo per pezzo. –

Senza saperlo si era portata le mani al collo. In quel momento potevo concepire solo esistenze circolari, culminanti in brevi istanti di pazzia. Esistenze dolorose, condannate a ripetersi in eterno. La vecchia, strisciata ai miei piedi, mi avvolse in un abbraccio infantile. Mi liberai dalla morsa, e dopo aver dato un’ultima occhiata alla mia immagine nello specchio, mi incurvai sull’Olympia. Il foglio era bianco. Vera Mouromtseva mormorò delle parole, rivolte a sé stessa, pensai, oppure agli spettri di Ivan Bunin e Anton Čechov, incaricati di favorirne l’ingresso in una dimensione contigua, incorporea. Aprii la porta e l’osservai sdraiata sul pavimento di legno.

– Il mio Ivan era l’unico, mi creda, l’unico in grado di farlo ridere… Ah, quante risate… –

Chiusi la porta.

Il cielo incombe su di noi, pensai.

La gente, intimorita dalla sua vastità, costruiva edifici in cui riacquisiva una misura umana del mondo e della propria esistenza. Avvicinai il volto alla finestra di Vera Mouromtseva. Mi sembrò di scorgere i residui della mia immagine, in piedi sul tappeto.

Non ci sono esistenze lineari né circolari, tutto accade simultaneamente in un breve istante di pazzia.

Inalai l’aria avariata della città, condotta in tutte le direzioni da un vento malarico, e ad ogni passo mi sembrò di infrangere una parete di vetro. Correvo non so dove. Sul marciapiede marciava una fila di disperati. Rallentai il passo e presi posto in fondo alla fila, circondato da persone con spaventosi ceffi cagneschi. Il circasso guidava la fila insieme al bambino. Quando arrivò il mio turno, si rivolse a me in un francese disinvolto:

Il ne faut pas déranger les morts. –

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