Mentre Facta nutriva fiducia

I tre giorni che portarono alla Marcia su Roma raccontati da attraverso le parole di Emilio Lussu, Ignazio Silone e Piero Gobetti.

Tutti e profeti armati vinsono
e li disarmati ruinorno1

Com’era intenzione di chi l’ha ideata e organizzata, la Marcia su Roma (quella mussoliniana, s’intende) si pone fin da subito come un simbolo inesorabile e uno spartiacque imprescindibile tra un prima, l’Italia liberale, e un dopo, l’Italia fascista. Era quello che – come si accennava – voleva lo stesso Mussolini, il quale – sia detto per inciso – aveva avuto buoni segnali su un suo eventuale esecutivo già da un po’. Ma marciare su Roma era ormai un imperativo al quale non si poteva rinunciare. D’altronde, «o Roma o morte!» aveva già detto Giuseppe Garibaldi a Marsala esattamente sessant’anni prima, il 19 luglio 1862, in occasione di un discorso tenuto durante il raduno delle camicie rosse. E Mussolini l’aveva riproposto alle sue di camicie, quelle nere, dopo il rifiuto a partecipare a un governo di coalizione presieduto da Antonio Salandra. «O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma» era stata, infatti, la risposta pronunciata sul palco del teatro San Carlo, a Napoli, il 24 ottobre 1922, pochi giorni prima che iniziasse la marcia vera e propria. Ad accompagnare Mussolini in quell’occasione, il garibaldino ottantenne Giuseppe Carli, con al petto le sue sette medaglie d’oro.

Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu è oggi edito da Einaudi con l’ottima prefazione di Giovanni De Luna.

Ma non solo. Dalle pagine di Marcia su Roma e dintorni, Emilio Lussu ci fa sapere che, proprio in quei momenti, il futuro Duce riceveva una terribile notizia: l’on. Facta, allora capo del governo, stava ordendo un complotto contro Mussolini. Appreso che il colpo di stato era previsto per il 4 novembre successivo, il primo ministro, col supporto di altri parlamentari, aveva in mente di mettere in campo niente meno che il Vate, Gabriele D’Annunzio, il quale, saputo che il rozzo maestro di Predappio si accingeva a calare su Roma, aveva cominciato a imprecare: «Roma, alma Roma, ti darai tu ad un beccaio?».

Roma, insomma, ritorna sempre. Ma non c’è da stupirsi. Ignazio Silone, nel suo poco conosciuto saggio Il fascismo. Origini e sviluppo2, ci spiega come di Mussolini si racconti che, «ancora scolaretto, sentì una voce misteriosa sussurrargli all’orecchio: “Roma, Roma!”, fatto da cui si dedusse in modo inequivocabile che Dio gli aveva affidato la missione di organizzare una marcia su Roma!».
Silone, inoltre, ci racconta anche il tentativo del governo di far fallire la marcia: «L’ostilità del vate verso il fascismo, mai sopitasi dopo il tradimento “fascista” di Fiume, incoraggiò Giolitti e Orlando a ideare un piano, in base al quale una parte delle sue truppe si sarebbe dovuta sganciare da Mussolini, neutralizzando così un’eventuale marcia fascista su Roma».
In effetti, tra “il beccaio” e il vate «i rapporti erano così tesi che – come ci fa sapere Lussu – Mussolini e il Poeta avevano ciascuno una scorta di armati costantemente in agguato. ‘Dei due’ si diceva ‘regnerà quegli che assassinerà l’altro’». E ancora: «Per un momento sembrò che solo D’Annunzio potesse scongiurare il pericolo di un colpo di Stato fascista. Tale opinione era diffusissima. E la Confederazione generale del lavoro, che fino ad allora aveva avuto in odio il Poeta, per tramite dell’onorevole d’Aragona gli inviò un messaggio in stile trecentesco».

Il fascismo. Origini e sviluppo di Ignazio Silone si trova oggi nelle edizioni Mondadori per le cure di Mimmo Franzinelli.

Per quanto riguarda Garibaldi, invece, lo stesso Silone spiega come

Il mito di Mussolini è nato nello stesso modo in cui nacquero i miti di Lenin, Trockij, Kemal-Pascià, Garibaldi e Napoleone – e nello stesso modo in cui tra quattro o cinque anni nascerà il mito di Hitler3. Fino a oggi Mussolini è stato paragonato a Francesco d’Assisi, papa Sisto V, Mazzini, Napoleone, Crispi, Garibaldi, Machiavelli, Bismarck. È stato celebrato come musicista e si è guadagnato il soprannome di «Africano», come Scipione. In questo elenco abbiamo preso in considerazione soltanto i libri che trattano queste analogie in modo molto particolareggiato. Se dovessimo indicare tutti i personaggi ai quali è stato paragonato in articoli e opuscoli, dovremmo scomodare l’intera storia mondiale, a iniziare da Giulio Cesare, al quale pare lo accomuni il profilo mascellare, e da Giovanna d’Arco.

Insomma, Garibaldi torna due volte in poche righe. E non è soltanto Silone a tirarlo in mezzo. Proprio di “garibaldinismo”, infatti, parlerà Piero Gobetti su «La rivoluzione liberale» del 23 novembre 1922 a proposito degli eventi che seguirono il discorso di Napoli. Con tale espressione intendeva riferirsi a un certo modello di azione politica figlio del Risorgimento, e caratterizzato da faciloneria e mancanza di chiarezza intellettuale. Un approccio che manifesta un’insana fiducia nelle virtù risolutive del colpo di mano a opera di esigue minoranze animose ma poco raziocinanti e che fa del capo carismatico a guida delle folle un suo credo inesorabile4. Ma aveva già tirato in ballo Garibaldi per parlare di Mussolini in altre occasioni; per esempio, su «La rivoluzione liberale» del 28 maggio 1922, descriveva così il rapporto tra leader fascista e la storia:

La storia giudicherà con indulgenza l’anacronismo di Mussolini che nonostante il suo orgoglio chiuso di signorotto incompiuto è stato tanto umile da inchinarlesi: garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo convinto arrivismo piú duttile: rozzo, povero di idee è riuscito talvolta5, per la robustezza e la disinvoltura, l’ostetrico della storia6.

Tutti i numeri di «La rivoluzione liberale» sono consultabili in versione digitale su liberale.erasmo.it

Marciare su Roma, dunque, per far partorire la storia. È per questo che un semplice incarico di governo dato dal re non era sufficiente: la storia non si cambia mica con gli incarichi del re! D’altronde – come ci spiega Gobetti7:

Il segreto di tanta parte del successo di Mussolini è nella sua intuizione della teatralità italiana.
Dalle cronache di Napoli: «Poco dopo gli squilli sono ripetuti e questa è la volta buona. Mussolini indossa la camicia nera e reca sulle maniche i distintivi del grado, simili a quelli di generale d’esercito. Egli attraversa il palcoscenico fra un scroscio di applausi e si avanza alla ribalta».
Mussolini capisce che a Napoli Pulcinella non deve essere un anacronismo.

In più, l’evento era già stato annunciato da diverso tempo. Come ricorda ancora Silone, «il 29 settembre Mussolini presentò al comitato centrale dei fasci il piano del colpo di Stato, articolato nei seguenti punti: accordo con la monarchia e con lo stato maggiore, scioglimento del governo liberal-democratico, formazione di un governo fascista». Inoltre, racconta ancora Silone, «per la marcia su Roma Mussolini disponeva di ingenti capitali. L’associazione degli industriali versò a suo favore 20 milioni di lire, mentre 3,5 milioni gli furono devoluti dalla Massoneria».

Certo, si tratterà di una “marcia su Roma” alquanto particolare. «Una “rivoluzione” in vagone letto», come la chiama Silone. Sceso, infatti, dal palco del San Carlo di Napoli, Mussolini si mette su un treno per… Roma? Direte voi. No, miei piccoli lettori. Per Milano!

Milano – spiega Lussu ai suoi, di lettori, quelli francesi – sta dalla parte opposta, a 600 chilometri da Roma. Se fosse rimasto a Napoli, sarebbe stato più vicino. Originale ubicazione di combattimento. Anche con la strategia moderna, 600 chilometri di distanza dal grosso che si batte sono effettivamente molti. Ma, in compenso, Milano ha il vantaggio di essere a pochi chilometri dalla frontiera svizzera.

Insomma, va bene la rivoluzione, ma meglio avere le pubenda al coperto. D’altronde, è Piero Gobetti a spiegarcelo: «Io non riesco a immaginarmi Mussolini altrimenti che sotto le spoglie del più audace e torbido condottiero di compagnie di ventura; o talora meglio come il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consente riflessioni»8.

Però ormai la marcia è decisa, «secondo i nuovi piani, il 26 ottobre a Napoli. La mobilitazione fascista avviene fra il 26 e il 27. Il 28 deve avere inizio la ‘marcia’. È attorno a Roma che si devono decidere le sorti d’Italia» (Lussu).

Qualcuno fa presente – come segnala Silone – «che l’organizzazione militare dei fascisti, benché molto efficace negli scontri con i sindacati operai, poteva compiere un colpo di Stato soltanto con l’appoggio dell’esercito e della polizia, circostanza che dipendeva chiaramente dall’atteggiamento del re. Ma Mussolini diede al riguardo una risposta rassicurante».

E il governo? «Che fece – si chiede Emilio Lussu – l’onorevole Facta? In primo tempo accolse, con tutti i convenevoli, gli ambasciatori del ‘Duce’ che gli offrivano guerra o pace. Li trattò con squisite maniere, cercando di temporeggiare. Offrì persino strette di mano, sigari e pranzi. Quando s’accorse che tutto era vano e seppe che la ‘marcia su Roma’ era iniziata, prese il coraggio a due mani. Che fece mai? Presentò al re le dimissioni del suo gabinetto».

Intanto, le camicie nere cominciano la marcia. Senza il duce, naturalmente. A regnare non è certo l’ordine. Ma le folle sono aizzate.

Il comando generale delle forze fasciste – spiega Lussu – si fissa a Perugia. Lo compongono Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo. Il duca d’Aosta, che ha promesso tutto il suo appoggio all’impresa, si porta clandestinamente nei dintorni di Perugia. Colonne fasciste sono ammassate a Civitavecchia, a Mentana, a Tivoli. Tutte dovrebbero puntare su Roma. Ma regna il più grande disordine. Contrattempi, ritardi, equivoci spezzano le varie colonne e ritardano gli ammassamenti. La grande parte è senz’armi: molti sono armati di fucili da caccia. I fucili militari sono senza cartucce. Solo alcune mitragliatrici delle squadre toscane sono in buono stato. I viveri incominciano ad essere insufficienti dal primo giorno.

Su quanto succede a Perugia, Silone ci dà qualche informazione in più, servendosi di “fonti avversarie”, in particolare della Storia della Rivoluzione Fascista 1919-1922 di Giorgio Alberto Chiurco.

I «cospiratori» fecero ingresso alla stazione di Perugia indossando l’alta uniforme. In quella cittadina occorreva trovare un luogo ben nascosto e sconosciuto alla polizia, in cui ci si potesse difendere da eventuali attacchi delle autorità. […] la scelta cadde sull’albergo Brufani, situato di fronte alla prefettura. In quel punto la strada è così stretta che dal suo balcone il prefetto avrebbe potuto sentire e vedere tutto quello che facevano i cospiratori; ma sicuramente egli non era persona così maleducata. Ora bisognava procurarsi delle armi. Un gruppo di fascisti si recò allora all’arsenale militare, si avvicinò in punta di piedi al portiere «addormentato» e, dopo aver tagliato il filo del telefono, prese fucili e munizioni. (Il taglio del filo del telefono non è tanto da attribuire all’astuzia dei fascisti quanto al loro vandalismo.) Mentre venivano effettuate queste operazioni, fu appostata di fronte al portone dell’albergo «una guardia fascista a baionetta innastata», per distogliere l’attenzione del pubblico e delle autorità dalla sede segreta del comando fascista. «La questura venne affidata all’on. Gallenga». Si potrebbe pensare che il capo della polizia si opponesse alla rivoluzione. […] «L’armamento delle Camicie nere fu la maggiore preoccupazione dei Quadrunviri ma le armi, come per incanto, sembrarono scaturir fuori dalla terra». Dal terreno spuntarono numerose mitragliatrici, parecchi cannoni e persino carri armati, che si misero al servizio dei fascisti stupefatti. Verso mezzogiorno il comandante militare di Perugia, comandante delle truppe regolari, fece visita ai cospiratori.

La rivolta, dunque, sta per cominciare. Migliaia di uomini da tutta Italia sono pronti a partire, o almeno così si dice. E si dice anche che stia per cominciare lo stato d’assedio. In effetti, ci informa Lussu, «il 28 lo stato d’assedio è proclamato in tutta Italia. Le prime istruzioni telegrafiche del governo sono chiare: ‘Arresto, con qualunque mezzo, di tutti i capi fascisti’. […] Ma lo scompiglio non dura a lungo. Alle ore 12,40 dello stesso giorno 28, l’Agenzia Stefani comunica: ‘Lo stato d’assedio è revocato’». Il re, infatti, si è rifiutato di firmare il decreto. Inoltre, per il giorno successivo – come spiega Silone – «Mussolini venne convocato a Roma e incaricato di formare il nuovo governo. La farsa aveva funzionato». «La direzione del partito liberale – intanto, come ci informa Lussu – sente il dovere di non perdere tempo: lancia un proclama al paese ed esalta la saggezza del sovrano. L’esercito rientra nelle caserme».

Di nuovo Silone poi, rifacendosi a Salvemini, racconta che «all’alba del 28 ottobre si erano radunati alle porte di Roma non più di 8000 fascisti. Non appena si ebbe notizia della posizione assunta dal re – il suo rifiuto di firmare il decreto di proclamazione dello stato d’assedio – e dell’invito rivolto a Mussolini, da tutte le regioni d’Italia presero ad affluire verso Roma grandi masse di fascisti. Per tre giorni diversi treni straordinari trasportarono gratuitamente nella Città Eterna circa 50.000 fascisti, che Mussolini doveva passare in rivista. La marcia su Roma cessava di essere una rivoluzione per ridursi a una normalissima parata».

«Il 29 – invece, secondo il racconto di Lussu –, Mussolini riceve dal re l’invito telegrafico di formare il ministero. Parte da Milano, in treno, e arriva a Roma il giorno dopo. Roma è in festa. Sventolano bandiere tricolori e si formano cortei. Il quartiere popolare di San Lorenzo non partecipa alla gioia dei burocrati. Si ribella alle parole dei capi e agli ordini del giorno dei partiti organizzati e si prepara a difendersi. Più tardi un pugno di eroi si farà uccidere sulle barricate. […] “Battano a stormo tutte le campane: questa è la pace. L’Italia vuole ormai riposare. Ora bisogna dormire. Si chiudano gli occhi e si lasci libero corso al destino».


  1. Citazione proveniente da Il Principe di Macchiavelli, e che Emilio Lussu mette in esergo al suo Marcia su Roma e dintorni. ↩︎

  2. Saggio terminato nel 1931 e pubblicato per la prima volta in tedesco, a Zurigo, nel 1934. ↩︎

  3. Quando Silone scrive queste pagine, Hitler è ancora il leader di un partito di protesta in forte crescita. ↩︎

  4. Vedi l’introduzione di Cesare Panizza a Piero Gobetti, L’autobiografia della nazione, a cura di C. Panizza, Fano, Aras Edizioni, 2016. ↩︎

  5. Nella versione che finirà poi nel volume La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, «è riuscito talvolta» diventerà «riuscì almeno due volte». ↩︎

  6. Tratto da Uomini e idee, in «La rivoluzione liberale», n. 15 (28 maggio 1922). ↩︎

  7. Delizie indigene in «La rivoluzione liberale» n. 32 (2 novembre 1922) ↩︎

  8. P. Gobetti, Uomini e idee in «La rivoluzione liberale», n. 15 (28 maggio 1922) ↩︎

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