Musica per quando le luci si spengono

1.

Alessia mi chiede «scusa, ma in che senso?» e io le rispondo che di Firenze non conosco le contraddizioni. Lei fa «mh» e poi mi guarda, fruga nella borsa alla ricerca del tabacco.

«Cioè, quando la gente mi parla male di Milano penso, ma che ne sai te. Il weekend con gli amici non conta, magari pioveva pure e hai pagato uno spritz quindici euro in uno di quei bar di merda con le foto dei piatti sul menu plastificato, ma guarda che Milano in realtà è bellissima.»

Alessia lecca la cartina e guarda verso Ponte Vecchio. C’è il sole anche oggi, è marzo e si muore di caldo. «Lo so,» dice, «ci sono nata.»

Questa volta sono io a fare «mh».

«E quando te ne parla bene?»

Faccio finta di doverci pensare. «Bho, m’innervosisco perché Milano è per chi c’ha i soldi, credo. E la periferia fa schifo.» 

«Non tutta.»

«Vabbé.»

«Insomma, l’importante è rompere i coglioni.»

La guardo.

«Dai, almeno Firenze non è Gratosoglio, o Rozzano», dice, e io penso che può parlare male della periferia solo chi è nato in periferia. Che poi io nemmeno ci sono nata in periferia, ma Alessia mi sta sul cazzo, voglio darle fastidio.

«Ma fottiti,» dico, e Alessia ride. Pensa che scherzi, e io glielo faccio credere.

«A volte mi stai proprio sul cazzo» dice.

Ci guardiamo.

Traduce libri per bambini, Alessia, e quando la gente le chiede qual è il suo vero lavoro lei risponde che è quello: tradurre libri per bambini. Dopo qualche secondo aggiunge che arrotonda facendo la barista (cosa non necessaria, oltretutto). Io direi piuttosto il contrario. Alessia è una barista che arrotonda facendo la traduttrice e ha i sensi di colpa dei borghesi di sinistra. Ah, e bestemmia tantissimo. Dice sempre che siamo sulla stessa barca, ma non è vero. Una volta finita questa sua fase post-adolescenziale fatta di tabacco scadente, capelli viola e un septum storto che le ha fatto la sua amica Savannah che di lavoro fa la holistic healer e disegna gioielli a forma di genitali, Alessia andrà a vivere nel bilocale che i suoi le hanno comprato in Lima, toglierà globetrotter dalla sua bio Instagram, la pianterà con l’accento toscano e forse smetterà di bestemmiare.

«Ti scoccia non conoscere le contraddizioni di ‘sta città perché non puoi parlarne male.»

«O bene.»

«No, a te delle cose piace parlar male.»

Le rispondo che non è vero, e penso che a Lima è dove io e Gabri ci siamo lasciati, che ogni tanto me lo dimentico.

Guardo l’ora e Alessia dice: «Bella idea di merda che hai avuto.»

Guardo l’Arno e dico: «Lo so.»

2.

Gabriele mi ha mandato la posizione mentre me ne stavo in Sant’Ambrogio ad aspettarlo seduta sui gradini della chiesa. Accanto a me c’erano due tizi con una cassa di Nastro Azzurro. Uno suonava male una canzone di Jimi Handrix e l’altro insultava tutti quelli che passavano. Ho sperato che dicessero qualcosa anche a me perché avevo voglia di litigare. Secondo l’amica di Alessia, l’holistic healer, avevo uno stellium in ariete un po’ problematico. L’aveva detto una sera che eravamo a cena da lei. A impedirmi di tirare in ballo gli anelli a forma di glande era stato il suo «dinner is ready!» Quella notte l’ho passata sul cesso per colpa della kombucha che Savannah faceva fermentare sotto il letto. Secondo Alessia era stato il karma perché nella vita «odio troppo.»

La posizione diceva che Gabriele era in Santo Spirito, avevo sbagliato bar. O meglio, il bar era giusto, ma il punto è che ce ne sono tre con lo stesso nome. Ho bestemmiato più di Alessia, infatti. Vabbé. Tra l’altro, per una volta, aveva ragione: che idea di merda.

«Aspetti una telefonata?»

Mi costringo ad alzare gli occhi dal telefono. Dico di sì anche se non è vero e Gabriele sorride, mi chiede a che penso.

«Penso che di Firenze non so niente – che non ne conosco le contraddizioni – che tutti vogliono sempre uscire “a Santo” che è lontanissimo, che mi hanno rubato la bici per la seconda volta e che la mia unica amica è una milanese che ha fatto il Berchet e dice di essere povera.» Che non so manco il perché mi ci sono trasferita, qui, questo non glielo dico. Lui direbbe: «Ma come, per fare l’università», e io avrei l’ennesima conferma che parliamo due lingue diverse.

Guardo le labbra scure di Gabri e penso al nostro primo bacio al concerto dei Libertines con in sottofondo Music When The Lights Go Out. Era il 2013 e lui portava delle Vans dalla suola completamente consumata e una camicia scozzese aperta su una maglia degli Smiths presa in Fiera di Sinigaglia. Un uomo vestito così, oggi, lo eviterei come la candida. Le sue considerazioni sulla letteratura francese – ipotizzo… non so perché proprio francese, ma insomma, che ovviamente io non capisco quanto lui – e la politica (sicuro uno che si veste così vota PD e a trent’anni ci prova con le liceali) mi farebbero venir voglia di compiere una sparatoria. Ma Gabri era bello, e giovane. Cioè, non che ora sia vecchio. Quando sorride distolgo lo sguardo. Io mi decoloravo i capelli, avevo la metà delle sopracciglia e portavo una di quelle fasce orribili attorno alla testa, una maglietta dell’Hard Rock Café di Honolulu – ci sono mai stata ad Honolulu? Ovviamente no, a contrario di Alessia – e delle Converse celesti piene di scritte fatte da Alice, la mia migliore amica del liceo. Guardo il colletto della camicia bianca di Gabri e mi domando cosa pensi lui di me, vorrei che non m’importasse così tanto. Dopo quel bacio caldo e umido durato fino alla fine del concerto siamo rimasti insieme due anni, e questa è la prima volta che ci rivediamo dopo quasi lo stesso lasso di tempo. Quando stavamo insieme diceva sempre cose tipo: «nella vita farai grandi cose», «sei ambiziosa, talentuosa». Quando alza lo sguardo dal caffè e mi dice: «Non sei cambiata per niente,» ripenso a tutto l’Alcatraz che canta Youre My Waterloo con gli accendini alzati, che forse aveva torto e al fatto che non ci conosciamo più, quindi cambio discorso e gli dico che con i capelli così lunghi sembra un po’ un coglione. Lui ride. Dice che si vede lontano un miglio che non sono una bionda naturale. Mi racconta del suo nuovo lavoro in banca, Gabri, dell’evento qui a Firenze, della ragazza con cui convive. «Fa la scultrice,» dice. «Ho sempre avuto la passione per le artiste.» Mentre lo dice – e mentre ancora sto pensando al fatto che non sembro una bionda naturale – realizzo che sono due anni che non scopo, che l’ultimo cazzo che ho visto è il suo. Abbasso lo sguardo sull’anello che porto al dito, regalo di Savannah per i miei ventitré anni di cui Gabri deve aver scelto di ignorare la forma ambigua, e mi costringo a sorridere. Gabri sogghigna, mi chiede se dipingo ancora. Gli rispondo di sì anche se non è vero, che ogni tanto vedo un tipo che fa il musicista. Altra bugia. Studiare musica gli sarebbe piaciuto, la chitarra. Spero di ferirlo, ma Gabri continua a parlare, gesticola, sembra felice. Odio che sembri felice, e mi odio perché odio la sua felicità nonostante desideri solo questo: che sia felice. Porta una fedina sull’anulare, e il fatto che sembri un vero adulto – un adulto che lavora in banca, porta l’orologio di suo padre, va agli eventi aziendali, convive con la sua ragazza (che fa la scultrice e si chiama Martina, ha fatto Brera, scrive – per giunta bene – per delle riviste di moda [lo so perché sono una ragazza e queste cose ci appaiono sottoforma di profetiche visioni deliranti, e sulla bacheca di Instagram]) ah, ed è bellissima, ma per fortuna non bionda–  mi fa sentire male. Per un istante me li immagino fare l’amore – che orrore dire: «fare l’amore» –  e vorrei cavarmi gli occhi anche se non lo amo più. Credo. Non lo so. Pensare a quando mi metteva la mano sulla pancia e diceva cose come «sarebbe bello avere due gemelli» è…  La sensazione è simile a quella che ho provato l’istante prima di cagarmi addosso per colpa della kombucha di Savannah. È come se non provassi niente e allo stesso tempo provassi tutto, e tutto insieme.

3.

In Piazzale Michelangelo c’è un demente che suona il flauto. Il demente in questione è Dennis, che oltre ad avere un nome di merda suona pure di merda. Non mi ha fatto niente di male, Dennis, anzi, è sempre molto gentile con me, con tutti. Lavoriamo insieme al Chiosco, e ogni mattina mi tiene da parte una fetta di torta. Sa anche quali sono le mie preferite: cheesecake al limone e ciambellone al cioccolato bianco. Il tramonto è bellissimo, immenso. Ci sono delle ragazze che festeggiano una quinceañera, le loro risate si confondono con la musica. Incrocio lo sguardo di Dennis, che sorride. All’improvviso non provo più rabbia, mi sento sola e basta, forse un po’ triste. Guardo i vestiti fucsia, rosa e turchesi delle ragazze che festeggiano la quinceañera e mi dico che domani gli metterò da parte una fetta di torta (la sua preferita è al pistacchio), che gli chiederò perché proprio il flauto, e il tutto senza fare sexual innuendos, come direbbe Savannah. Gli chiederò come va, se suo fratello sta meglio, se alla fine ha avuto il coraggio di chiedere a Lucia di uscire. E non farò battute sul fatto che anche lei suoni il flauto, ma traverso. Le ragazze si mettono in posa sui gradini, un vecchio con i baffi gli scatta una foto dopo l’altra, è commosso, sembra felice. Vecchio, obeso e felice. Attorno a me, nessuno parla italiano. Ce ne stiamo tutti seduti sui gradini a guardare il tramonto, i tetti della città. Ci sono una coppia di francesi che limona, la comitiva della quinceañera che brinda con bicchieri di plastica oro glitterati e tre ragazze del Polimoda che parlano con un inglese sbilenco della manifestazione di domani pomeriggio. Una famiglia di americani non sa dove cenare. Sono mamma, papà e due figli maschi, tutti biondi. Mi volto e gli dico che dovrebbero andare alla Trattoria da Matteo, gli consiglio di prenotare e di prendere la fiorentina. La madre ha il naso e le spalle ustionate. Sorride, dice che sono molto nice. Quando mi chiede se vivo qui rispondo di no, che sono venuta a trovare i miei zii. I figli guardano le ragazzine della quinceañera, un lembo di tulle fucsia che ondeggia nel vento e sfiora i gradini bollenti. Il padre cerca su Maps la trattoria che gli ho consigliato. Continua a ripetere: truatoria di mateio, e un po’ mi fa ridere. Uno dei figli ride insieme a me, e lui fa: “Oh, shut up you two!”. Li saluto con la promessa di raggiungerli per il dolce, ma so che non lo farò. Sono sempre gentili, gli americani. Li guardo scendere i gradini. Prima di svoltare l’angolo l’uomo posa il braccio attorno alle spalle della moglie e le stampa un bacio sui capelli biondissimi. Prendo il telefono. Ci sono due chiamate perse di mia madre, almeno cinque chat WhatsApp a cui devo rispondere da sedici giorni. Apro il gruppo che ho con Alessia e Dennis, e scrivo se vogliono cenare da me. Dennis sta avendo un sexual intercourse con il suo flauto, perciò immagino risponderà più tardi, Alessia mi scrive in privato per chiedermi se va tutto bene. Rispondo di sì, che li aspetto per le 9.30. Scendo verso il centro ascoltando Ornella Vanoni e cammino lungo l’Arno tinto di rosa, compro un mazzo di tulipani azzurri – i preferiti di Alessia – e una bottiglia di vino rosso da 15 euro, cioè la metà dei soldi che ho sul conto (a differenza sua). Scrivo a Savannah per chiederle se vuole raggiungerci, di non portare niente, per lamor del cielo. Lei risponde subito di sì, che verrà, che porterà un dolce vegano, che è felicissima. Dennis mi scrive che ci raggiunge – «Giusto il tempo di cambiarmi» – che porta anche Lucia, che poi si va a ballare (c’è una festa a casa di qualche belga che fa il conservatorio). Mi fermo a guardare Ponte Vecchio e riconosco la famiglia di americani. Il padre tiene ancora la moglie stretta a sé nonostante il caldo, i due figli guardano il cellulare. Stanno sbagliando strada: la trattoria è dall’altro lato. Li guardo scomparire nella folla come se li conoscessi da sempre, poi riprendo a camminare. Quando arrivo sotto casa, sudata marcia, trovo Alessia appoggiata al muro a rollarsi una sigaretta. Non si accorge subito di me, e io resto a guardarla. Porta i capelli viola raccolti in due chignon disordinati e una maglietta da uomo a mo’ di vestito. Ha una tote bag con una foto di Joan Didion da cui sbuca la copertina illustrata di un enorme libro per bambini (À la découverte de lÉgypte antique!) e una bottiglia di rosé. Lecca piano la cartina, Alessia, poi alza lo sguardo verso il tramonto. Sorride appena, gli occhi chiusi, e si volta verso di me. Penso che è bello, trovarla così ad aspettarmi sotto casa, che i libri che ha tradotto sono tutti stupendi, che non gliel’ho mai detto, che il piercing le sta benissimo. Per un attimo sembra confusa, Alessia, come se non si aspettasse di vedermi – nemmeno io mi aspettavo di vederla – poi lo sguardo le cade sui tulipani avvolti nella carta da giornale e sorride. Faccio per parlare, e lei dice: «No, ti prego… stai zitta e vieni qui,» e allarga le braccia.

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