Il televangelista aveva appena finito la diretta. Arricciò il naso e scosse la testa mentre con le mani allentava il collarino. Scacciava ogni donna che si avvicinava per parlargli e guardava di sbieco ogni uomo che scorgeva muoversi. Si fecero tutti da parte. Le sue scarpe di pelle bianca scricchiolavano un po’ mentre si avviava verso il camerino.
«C’è una chiamata per lei», disse il production manager facendo capolino dalla porta. «Non ora», rispose il televangelista. Lo scacciò con un movimento di mano.
Si sedette alla toletta di quel suo camerino senza finestre e guardò, guardò per davvero. Dietro il suo riflesso non c’era nessuno, soltanto un divano di velluto a coste malandato e un tavolino con un misero buffet. Ma guardati, sovrappeso, di mezza età, mezzo calvo, a raccontare frottole a dei fanatici per soldi, che cosa hai fatto della tua vita, sei patetico. No, no, no, non devi pensare in questo modo, sei ancora bello, ci sai ancora fare. Lui, di se stesso, discuteva soltanto con se stesso, neanche con il suo dio, perché lui era l’unico che sapeva come guardarsi negli occhi e dire: Baby, sei una star.
In aereo, il signor Kosovo ascoltava un nastro di autoaiuto in bulgaro. Si dimenava sul sedile. Nel momento in cui l’aereo toccò terra, lui tornò, per un momento, a un ricordo di frustrazione della sua prima infanzia, lasciandosi guidare da quella voce priva di corpo. Decise che l’uomo della cassetta di aiutoaiuto era di poco aiuto nel ruolo di narratore accattivante.
Il signor Kosovo era venuto in America con un gruppo di meditazione Sahaja. Sceso dall’aereo, imboccò il corridoio che connetteva il gate all’area dei controlli doganali. Si fermò. Si fermò nel corridoio. Ci si fuse con il corridoio. Diventò una cosa sola con il corridoio. Il corridoio era un canale uterino pulito, bianco e avvolto da una luce fluorescente. Era l’ultima cosa che avrebbe visto del futuro della sua vita passata. Una volta uscito da quel corridoio sarebbe diventato uno straniero in un paese di cui non conosceva la lingua, se non per qualche frasetta basilare pronunciata male. Pensò che, se fosse riuscito a rimanere fermo abbastanza a lungo, avrebbe potuto inclinarsi verso sinistra e il suo corpo sarebbe potuto diventare parte del muro, si sarebbero visti soltanto gli occhi fare capolino dall’intonaco.
Uno dopo l’altro, si svestirono e improvvisamente la festicciola diventò un’orgia. Il biondino pallido con le lentiggini accasciato sul letto vicino guardò Cecilia, poi il suo cazzo con nonchalance, poi riportò gli occhi di nuovo su di lei, probabilmente per richiamarne l’attenzione mentre gli si alzava. I due della coppia che sembrava uscita dalla Casa dei Sogni di Barbie Malibù, sdraiati di fronte al camino su un sontuoso tappeto persiano, si attaccavano aggrovigliandosi. Lo sfregamento era palpabile. Cecilia era completamente vestita. Valutai le sue opzioni. Mi venne in mente una cosa: ogni volta che siamo in pubblico siamo circondati da cazzi. Noi non ce ne rendiamo conto. «Ah», disse lei. Cecilia si svestì, tenendo indosso solo le mutande e la canottiera trasparente e i calzini neri e si accovacciò, si tenne in equilibrio sulle punte dei piedi e si sorresse sulla punta delle dita di una mano allungata davanti a sé, e lasciò cadere la mascella, la bocca spalancata, e corrugò la fronte in un broncio. La protuberanza delle scapole e l’increspatura delle costole facevano riaffiorare la topografia della sua schiena mentre si inarcava. Mantenne la posa, aspettando.
Cecilia entrò in una cucina. Cecilia sognava spesso strane cucine. Le strane cucine che Cecilia sognava spesso erano, in realtà, cucine molto tipicamente americane, con frigoriferi bianchi, schemi cromatici gradevolmente tenui, vecchi fornelli e ripiani e scaffali allineati in modo ordinato tra due pareti contrapposte a una terza. Cecilia non guardava mai la quarta parete. La quarta parete doveva stare sempre dietro di lei. Cecilia aprì la ghiacciaia del vecchio frigorifero bianco. Nella ghiacciaia Cecilia trovò un cassetto che sembrava pieno di carne bianca in una purea rossa congelata. Cecilia estrasse il cassetto e vide dei piccolissimi arti, tagliati e separati tra loro a ogni giuntura, immersi in un bagno di sangue rosso congelato. Cecilia richiuse in fretta il cassetto e poi anche lo sportello della ghiacciaia. Cecilia si trattenne dal vomitare sul bianco e lindo pavimento di linoleum. Cecilia andò ad affacciarsi sul bordo del lavandino di ceramica bianca, facendo pressione sui talloni delle mani. Cecilia aprì la lavastoviglie. Uscì del vapore bianco dalla lavastoviglie. Attraverso il vapore che si dissipava, Cecilia riuscì a intravedere delle ossa bianche nella lavastoviglie bianca. Cecilia chiuse forte la lavastoviglie e indietreggiò allontanandosi dal lavandino. Ora i suoi occhi erano dietro di lei, nella quarta parete. Si controllo il retro del corpo mentre indietreggiava avvicinandosi.
Cecilia sognò un ricordo. La madre di Cecilia l’aveva sgridata perché si sfregava ogni poro imperfetto che avesse sul corpo e sulla faccia e si lamentava, Tu lo fai sempre, e sua madre le rispondeva sì, infatti, vuoi diventare come me? con quella maledetta inflessione nella voce. Cecilia non sapeva come rispondere nel modo giusto.
In una sola affermazione, sua madre esprimeva due concetti troppo grossi da capire per una bambina: primo, che quell’inflessione significava che quella era una domanda retorica, ciò che per un genitore è un “momento educativo”, quindi che c’erano solo una risposta giusta e una sbagliata; secondo, che la madre di Cecilia si riteneva veramente brutta. Il fatto è che l’aspetto di sua madre era una cosa a cui non aveva proprio mai pensato. Lei era e basta. «No», disse Cecilia, pensando che quella fosse la risposta che voleva sua madre, o quella che si aspettava.
Il lupoyote e l’orso grolare, quelli di liverpool, lo stenografo al processo del cannibale, il pene a forma di cavatappi di un gatto selvatico, le ceneri di un adolescente suicida, i soliloqui di sordi sessuomani, la difficile sincerità dell’attrice dallo humor impassibile, la figliastra del regista porno hardcore, il guardiano di Chanel cui è proibito entrare in Rue Cambon, il figlio di mezzo arrivato per errore, il cinoamericano gay che cerca l’amore nel villaggio sbagliato, il corpo carbonizzato del latifondista chassidico lasciato in una discarica a Long Island, la ragazza del New Jersey con i complessi di inferiorità, il coltivatore della riserva di papaveri, il tossico di oppiacei, l’ultimo desiderio di un pilota di aerei, la ragazza selvaggia e il suo sorvegliante prete pedofilo, il chihuahua con la faccia da topo dell’uomo trans peruviano in fondo alla strada, il WASP1 istrionico, la JAP2 narcisista, l’erede al trono di Spagna frutto di incesto, il re bambino della Danimarca, l’infermiera scolastica incaricata di accarezzare le spine dorsali sbilenche degli studenti in pubertà, i nomi esotici delle prime generazioni spiegati cinque volte ciascuno a ogni bianco incontrato, il truffatore che porta a casa i suoi clienti mentre i suoi coinquilini stanno cenando, il clochard poliglotta con i dread fatti di proposito, la tenacia del suo mendicare e l’educata indifferenza di chi gli passa a fianco, l’uomo obeso che pedala in modo comico su una piccola bicicletta sul marciapiede, l’uomo coi capelli biondi scompigliati dal vento e che indossa occhiali da sole nel bagno male illuminato del Terminal 5, che si masturba all’orinatoio sui cui bordi si fa righe di coca, lo vedi che non c’è nessun collegamento? Non ha senso niente, nessuno vuole aver niente a che fare con l’altro. L’increspatura dello strappo nel tessuto sul retro del ginocchio, i pelucchi sul maglione e i fili allentati, e le sue gambe arcuate con le dita da piccione, e il suo viso da passero sorpreso, mi segui?, il suo primo pap-test, la fila di alberi morti sul ciglio della strada, il tendine gonfio del mio polso, il vento sulle fredde pianure canadesi che mi scuotono i capelli mentre mi faccio una canna su questo balcone, tutte le mandorle che ci sono in California, chi fa le annotazioni sui testi delle canzoni altrui, il leone che fa il cucchiaio con l’agnello, Ecco che se ne va il mio uomo, Ecco che arriva il tuo uomo.
Fa ridere. Dicono che il latino sia una lingua morta ma non si atrofizza; vive nel mondo dei sogni. Oggi ero una donna seduta al tavolo di un ristorante. Ero una donna seduta dall’altra parte del tavolo di un uomo in un ristorante. Ero una donna che inclinava un po’ la testa mentre ascoltava attentamente l’uomo al ristorante. Ero una donna che inclinava un po’ la testa mentre ascoltava attentamente l’uomo seduto all’altro capo del tavolo. Ero una donna che faceva sincero contatto visivo con l’uomo che le parlava seduto all’altro capo del tavolo a cui lei era seduta. Ero la donna che un altro uomo guardò attraverso la vetrata mentre passava di fronte al ristorante in bicicletta. Ero la donna che chiese all’uomo seduto all’altro capo del tavolo rispetto a lei «Dove vuoi andare?» al che l’uomo rispose «Da qualche parte che costi poco» al che risposi «Lisbona?» al che rispose «Troppo caro, considerando che c’è l’Euro» al che risposi «Città del Messico?» al che annuì, fuochino, così ci provai di nuovo, «L’Havana? È finito l’embargo a Cuba», al che rispose, «L’Havana potrebbe essere proprio una buona idea», e così fu deciso. Con il senno di poi ero una donna che ingoiava gli effluvi di un uomo e li chiamava sacramento. Lo presi da lui con la mia mano sinistra.
La scrittura ha un genere. Lascia che mi spieghi. Alcune storie iniziano a parlarmi senza presentarsi. Metto a fuoco il testo con gli occhi e subito un’interruzione improvvisa, uno sconosciuto mi parla da vicino senza nemmeno chiedermi se la cosa possa interessarmi, e questa prosa aggressiva è quasi sempre scritta da uomini. Si vede che lo scrittore maschio sente che avere un pubblico è un suo diritto. Non so come altro spiegarmelo. Ciò che è ancora più offensivo è quanto sia ben pubblicata la scrittura pessima. Quando sfoglio le pagine dei racconti del New Yorker vorrei sentirmi degna di una pretesa, non esserne sottomessa! Voglio sentirmi inclusa, capito? Il patriarcato ci obbliga ad alimentarci della prospettiva maschile come le oche in una fattoria di foie gras. È offensivo. Letteralmente qualsiasi soggetto la cui esistenza richiede delle scuse scrive in modo più sincero di così.
Qual è la cosa meno sincera che abbia mai scritto io? Con tutta probabilità una domanda di assunzione. C’è qualcosa nel tono appropriato che ci si aspetta dalle lettere di presentazione, dalle lettere di intenti, dichiarazioni di intenti, Caro direttore delle assunzioni, A chi di competenza, di goffo e fuori luogo. La domanda di assunzione è un bisogno patetico travestito da discorso segreto, autocelebrativo, presuntuoso e arrogante e io non sono ancora riuscita a lavare via la puzza della disperazione da nessuna di queste domande, secondo me, e questo è uno scenario dove l’opinione che ho di me stessa non importa – perché questo bambino strilla nell’androne del mio condominio, zitto ché sto cercando di pensare, stai zitto ché sto cercando di scrivere.
È per questo che non arrivo mai da nessuna parte. È per questo che non sono mai arrivata da nessuna parte.
(Originally appeared on Adult Magazine)
Traduzione a cura di Ludovica Mauri