Adesso mi guardi, sfoderi un sorriso di polivinilcloruro e credi di avermi conquistata. Ti lascio fare e ti ascolto con la faccia da pesce lesso. Penserai che sono una scema, ma la luce che sfiora di taglio i tuoi occhi persi in farneticazioni su proteine in polvere e anabolizzanti mi rivela quanto lo scemo sia tu, che indossi un paio di New Balance e un borsello a tracolla, e quando parte qualche lagna cantata da Diana Ross ti fermi, provi a scassinare l’entrata nei miei sentimenti e mi dici: Madonna, che bella che è ’sta canzone. I due televisori alle pareti dell’aero club sono sintonizzati su un canale che trasmette solo musica incisa prima del duemila. Dici che erano gli anni d’oro, e il tuo sguardo si fa d’ombra mentre ripensi alla tua giovinezza. Hai quarantatré anni e un’esistenza devastata: delle tue due figlie, una ti odia e l’altra ti chiama papozzolo, e credimi se ti dico che non saprei dirti qual è peggio tra le due. Le vai a prendere all’uscita da scuola, le accompagni a judo, mi racconti, le aspetti sotto casa della madre quando ogni tre settimane sono costrette a trascorrere due giorni di fila con te. Sei pelato e fai il commercialista, anzi non sei del tutto pelato, perché il trapianto a Istanbul non avrà funzionato come ti aspettavi, ma qualche pelucco da neonato te l’ha lasciato. Hai un bel fisico però, o questo sostieni mentre mi parli delle ripetizioni di panca piana e delle trazioni che fai. Dici che è questione di come ti approcci allo sforzo, poi mi mostri le foto di quando eri secco e mi chiedi se la bottiglia di Lugana che hai scelto è buona, e non lo è, ma ti dico di sì, e ti fa piacere. Fai l’occhiolino al cameriere. È pelato anche lui e porta la fede al dito.

Mi hai proposto di vederci qui dopo che qui ci siamo conosciuti tre mesi fa. Non ho saputo dire di no, anche se stasera avevo un incontro con i miei compagni del gruppo di lettura per parlare di Cioran. Quella volta ero venuta con un medico calabrese che avevo perso nell’avvinghiamento generale e che non ho mai più rivisto e tu, all’uscita della serata, vedendomi da sola, forse anche un po’ triste per alcuni fatti miei che non ti racconto (diciamo che non tutte le famiglie per cui lavoro come baby sitter sono così comprensive quando vengono a sapere del mio profilo Only Fans), mi avevi chiesto come mi chiamassi e quale fosse il mio numero di telefono, perché ti avevo trasmesso qualcosa. Le linguine che stiamo mangiando sono cremosissime, dici, e io vorrei vomitarti sul piatto mentre osservo un biposto arancione atterrare nel buio che il sistema di avvicinamento della pista d’atterraggio rende meno eterno. Al di là della vetrata due elicotteri dormono in un hangar desolato e, da dietro la siepe di cipresso, sbuca un agglomerato di cemento che chiamiamo città ma che è il fondo di un imbuto, del nostro imbuto. Alterni considerazioni sulla partita doppia a riflessioni sugli addominali, e mi dici che stai lavorando sulle fasce oblique perché sono quelle che fanno la differenza tra un addome forte e uno da pivello. Mi prendi una mano e da sotto il tavolo mi fai toccare i muscoli. Non stavi scherzando. Sei scolpito nella pietra della determinazione che solo un uomo finito come te può avere. E hai cominciato ad allenarti solo tre anni fa, dopo il divorzio.

***

Sono scomparsi tutti i tavoli, tutti tranne il nostro. Mi dici: Andiamo, manchiamo solo noi. Mi prendi ancora per mano e ci stendiamo sul divanetto, accanto alla coppia che ci cenava accanto. Lui indossa il completo che usa a lavoro, lei ha il caschetto di una che si è vissuta dieci anni di relazione disfunzionale ed è da poco tornata in libertà. Ha il taglio da Veronica o da Valentina, e mi fissa con gli occhi di chi ha l’intenzione di infilarti un pugno in gola come se fosse un sondino. Poi si gira verso la porta principale e mentre attorno cala il silenzio dell’estasi fa il suo ingresso un elefante tenuto a bada da una dominatrice malgascia. La donna distribuisce frustini ai partecipanti a quella che ora non è più una cena ma, come lo chiami tu, un dopo cena piccante. Un dopo cena piccante che si tiene qui dentro ogni tre mesi. L’elefante occupa un quarto della sala, qualcuno si avvicina per toccargli la proboscide o per sfiorargli una zanna, è enorme. La dominatrice scende, fa un inchino agli spettatori e parte una nenia arabeggiante. Mi chiedi se mi piace la situazione, e ti dico di sì e questa volta dico sul serio. Uno crede che eventi come questi li organizzino nei salotti di Roma o nei palazzoni a vetri di Milano, ma la verità è che qui, ai bordi di un quartiere residenziale della provincia veneto-lombarda dove si ingoiano facili giudizi e notifiche dell’Agenzia delle Entrate, oltre a una gran voglia di vivere, abbiamo una fantasia che non ha mai conosciuto né il buon gusto, né il sentore della decadenza né le strane idee degli uomini di cultura per i quali tutto deve essere concettuale, tematico, o peggio ancora necessario. Qui, se dobbiamo divertirci, lo facciamo in modo che il domani sia compromesso per sempre.

Ci avviciniamo a una fontana da cui sgorga cioccolato fondente. In piedi sulle sedie, dieci ballerini nani, entrati saltellando, ondeggiano il bacino e ci lanciano marshmallow alla vaniglia. Ti sei tolto la maglietta e qualcuno ha già proceduto allo scambio di coppie. Mi sussurri all’orecchio che la figata, così dici tu che parli come un ragazzino, è che se domani doveste incontrarvi per strada fareste finta di niente, perché la serata di oggi non sta avvenendo in questo universo, ma in uno distante un paio di galassie da noi. Dici che siamo gli ologrammi di un party avvenuto diecimila anni fa sull’Olimpo, urli che è tutto un equilibrio sopra la follia. Mi accorgo che fuori il traffico aereo si è placato: è calma la notte che sorveglia il reticolato delle piste dell’aero club. Ti indico il pentolone di cera fusa e ci spostiamo. Alle mie spalle, una coppia appena formata ci sta dando dentro. Lui la implora di chiamarlo signor direttore, lei si rifiuta di dire signor, chissà perché, e lo chiama solo direttore: diretur, anzi. Seguo con lo sguardo le luci lontane delle macchine e sento la mia inquietudine sciogliersi. Ogni tre mesi è così. Ti stendi sul lettino e, a voce quasi inaudibile, guidi i miei movimenti. Sospiri che è meglio di un bonifico in entrata.

***

Sei deluso. Mi dici che se le condizioni erano queste allora potevo rimanere a casa, non capisci che ci sono venuta a fare se sapevo di essere indisposta. Ti rispondo che mi serviva un diversivo. Non avevo voglia di parlare tutta la sera di quel coglione di Cioran. Di chi, mi domandi, ma non rispondo, perché sei un becero ignorante. Ti prego di lasciar perdere, ma insisti: Di chi non avevi voglia di parlare. Te la sei cercata. Della fessa di mammeta, ti grido, di quella lorda di mammeta. Ti pianto in asso, con la cera rappresa sugli addominali e le mutande chiazzate di liquido preseminale. Ti sento frignare che hai due figlie che ti aspettano e che domani devi pure fare gambe in palestra. Esco fuori perché mi manca l’aria. La strada è deserta. C’è ancora la nebbia da queste parti, soprattutto all’alba; c’è ancora la nebbia pure dentro di me se è per questo, e non se ne va mai. Le ultime macchine stanno lasciando il parcheggio, dentro saranno rimasti in dieci. Mi siedo sul marciapiede e mi sistemo la gonna; potrei piangere, ma so che non lo farò, non in pubblico. Stendo le gambe e mi guardo i piedi. Sono belli, con lo smalto viola e le dita affusolate e i sandali neri della Dr. Martens. Scatto una foto e la pubblico. Dopo venti secondi mi arriva una risposta. Sei tu: Torna dentro, mi dici, almeno facciamo colazione assieme. Mi giro verso l’ingresso e ti vedo agitare la mano destra. Che pena per te e che pena per noi. Sei dall’altra parte del vetro, ancora in mutande, esposto a tutto. Fai schifo, altro che fasce oblique, ma a quest’ora ho un certo languorino e la fame è fame. Torno da te con le scarpe in mano, in punta di piedi: adesso mi sorridi per davvero.

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