Penso solo, sto in mutande

Allora, facciamola breve, che tanto nessuno ha voglia di leggere più di due pagine, tantomeno io di scriverle. Stavo in un alloggio a Torino anni fa. Per fatti miei. Vabbè, lo dico. Anzi no, che il ronzio dei fatti altrui è già troppo invadente e il nostro sé rischia la dissoluzione. Fatto sta che in ’sto alloggio mi sono successe delle cose che ancora oggi hanno l’ambiguità di allucinazioni. Allucinazioni uditive, per essere precisi. Mi pare che la prima volta stavo ascoltando la musica: non me ne accorsi finché la canzone non finì. Forse era Dalla che diceva “Ho suonato due volte anche se avevo la chiave.” E ’sta canzone s’interrompe misteriosa: dummm: così fa: poi si spegne. Ma ’sta volta non s’è spenta e Dalla ha iniziato, per così dire, a mugolare. Ecco, non che mi ritenga un esperto, ma questi mugolii non mi sembravano parte del repertorio onomatopeico di Dalla. Qualcosa non andava. O meglio, andava andava, ma non era Nuvolari, anche perché nella raccolta 12000 lune dopo Non vergognarsi mai c’è Apriti cuore: “In questa notte calda di ottobre, apriti cuore…” fammi entrare, o ti sfondo la porta a suon di colpi. Ma questa è un’altra volta. Torniamo ai mugolii. Dummm-mmmhmmhmmmmmmhmh. Ommm. Oh mannaggia! Erano suoni acuti, frequenze a cui l’uomo non arriva. Quindi più un mmmih mmmiiih. Sembrava qualcuno che si divertisse a seviziare una lavagna con una forchetta, a brevi intervallini fastidiosi. O un topolino intrappolato in qualche intercapedine che piangiucchiava per essere salvato. Mi faceva pena. Che fosse topo o forchetta, sentivo un forte dispiacere, manco fossi io a maltrattarli. Ancora con le cuffie addosso, che un po’ attutivano i suoni esterni, pensavo ora si spegnerà, finirà, in un modo o nell’altro: cioè, o riesce a fuggire o muore, e fine. E invece non vuoi che si mette ad aprire la bocca per farsi sentire meglio? Già! Cambio di lettere allora: aaah: oppure ahhh, a seconda se era più sentito il colpo o il rilascio. Tolgo le cuffie. Era estate (sì, fantastico, il caldo cittadino, la gente, l’amore e mannaggia la mmmh) e mi resi conto che i gridi (di animale generico, quindi è corretto gridi) provenivano da fuori, dalla strada. Nessuno in vista sui balconi o dalle finestre. Solo io e i gridi: soli, nell’inquieta notte torinese. Poesia pura. Mamma mia, stava su un altro pianeta. Senti che roba: senti: qui qualcosa l’ha toccato: se non il Nirvana, ci è andata vicino. Ha gli occhi chiusi. Lo capisco dal raccoglimento in sé del suono. Sta a occhi chiusi e sogna prati verdi e farfalle e un dolcino alla crema e il sole caldo e domani non si lavora e le bollette non sono più da pagare, e si parte per le Maldive, e m’immergo nell’acqua calda al punto giusto dell’eterna giovinezza, e smette ogni dolore, ogni preoccupazione, e proprio il mondo intero sparisce, e, Dio voglia, restiamo solo io, libera, giovane, felice, un grido di luce paradisiaca, e ’sto cazzo di Nirvana, per l’eternità, a occhi chiusi, mugolando e piangiucchiando, perché la vita è vibrazione, e l’eco che io stessa produco risuona in me e mi fa vibrare all’unisono col divino che non ci è dato di sperimentare in questa vita. Non oso immaginare la delusione del risveglio.

Il giorno dopo passai per le scale più spesso del solito; andavo a prendere la frutta, tornavo a casa e avevo scordato le pere, tornavo a prenderle, posavo tutto e uscivo di nuovo per andare a comprare quelle mutande dal gonfio profilo puntato sulla vetrina, come una promessa di vita piena. Cose così, per trovarmi sulle scale più volte possibile senza dare nell’occhio. Scrutavo i volti, vedevo stanchezza, occhiaie, indifferenza; una donna davvero gracile, che con enorme sforzo tirava fuori dall’ascensore la carrozzina della mamma anziana; una bambina, che dopo avermi adocchiato sbatteva la porta facendola rimbombare per tutta la tromba di scale. Anche voi avete sentito, domandavo tra me e me.

Poi ci fu la volta dei colpi. Dopo quanto non saprei, non vivevo con l’ossessione di scandire il tempo allora. E d’altronde c’era chi lo faceva per me, a notte fonda. Parevano provenire da sinistra, ma forse era dovuto al fatto che il muro che avevo più vicino al letto era alla mia sinistra e in verità si stavano propagando da un altro punto. Erano di tonalità molto bassa, tanto che quando mi svegliai ci misi un attimo a distinguerli dal borbottio delle auto lontane, aiutati nella loro corsa attraverso le pareti dal perfetto isolamento che era stato predisposto dagli ingegneri. Della stessa tonalità, quasi a confondersi del tutto, i colpi erano accompagnati da gridi rochi e cavernosi: un orco rauco dentro la tana, incazzato col traffico che aveva incontrato al ritorno dalla miniera. Qua non mi dilungo (anche perché non ricordo altro, per fortuna mia e grazie alle cellule cerebrali che iniziano a deteriorarsi): solo una cosa (giuro, testuali parole, immaginatevi l’orco): «Eh? Eh?! Eh!!!», e immaginatevi detto con assoluta determinazione, per non dire rabbia: «Ehhh!?!?!», in cerca di una convalida che, Sauron la fulmini, non poteva non arrivare. E infatti, subito dopo, un’altra voce interviene, a raffreddare l’impeto: «Eh cosa???». Umiliato: l’ennesima volta: dopo una giornata a testa bassa sottoterra, umiliato pure in casa.

E io, i giorni seguenti, a cenare solo e nel silenzio, a chiedermi dov’ero capitato, se era causa delle medicine o del pressapochismo degli ingegneri, a temere da un momento all’altro la ricomparsa dei suoni o dei sintomi. Le strade, con le auto dagli occhi vacui che sembrano non vederti, i motorini senza regole, i malintenzionati travestiti da nonne in carrozzina causavano ben meno trepidazione e mal di stomaco dell’attesa dei gridi. Non c’è paura peggiore di quella che non puoi controllare, se non quella che non puoi neanche vedere.

Fu proprio durante una cena che scoprii di non essere il solo. Per un attimo rimasi turbato: eccoci, ci risiamo; e invece era la voce di una bambina (forse la stessa che mi aveva guardato dalla porta, che forse già allora sapeva) che imitava i sussurri e i gridi a noi ben noti. Subito intervenne la mamma con un secco «Smettila!». Ma era bastato per farmi capire. Solo dall’infanzia può arrivare la complicità rispetto a quelle cose che gli adulti non sanno o non vogliono vedere. Non la sentii mai più, perché si trasferirono. Deve aver pensato, la madre, che quello non era il condominio giusto dove far crescere una bambina.

Arrivò, infine, la sera in cui scoprii tutto. Uno era un carabiniere. No, non è una battuta: l’ho visto; sono arrivati con degli amici. Ommioddio, che stai per raccontare? No, no, tranquilli, gli amici li hanno solo accompagnati a vedere l’alloggio, che probabilmente era quello che affittavano, ma in quel periodo era libero, perciò carabiniere e consorte sono stati i nostri vicini per una notte. «Amo’ (invento), stiamo in una città straniera, nell’alloggio di due cari amici che c’hanno fatto il favore, non conosciamo nessuno qui, in ’sto palazzo, e direi anche per le successive decine di chilometri quadrati: amo’, che je facciamo sentì li botti de capodanno anticipati a tutti?». Ziocarabiniere questa! sembrava dovesse morire, anzi, volesse morire: eros e thanatos. Quell’altra il paradiso, questa l’inferno. L’importante è deformarsi, implodere, trasformarsi in una stortura di lamenti oltre-umani, annullarsi, impazzire. Non posso sapere dove: ma sicuro le faceva male. O forse era tutta scena. Probabile… si urla per farsi sentire, a capodanno, non perché si è davvero così felici. E si sentiva, forte e chiaro, «passo e chiudo, sono in missione». Colpito da tremiti caldi che salivano dal basso, non mi tenni più e la volli vedere in faccia questa paura. Seguii i sussurri, i gridi, le voci, finché non trovai la porta di cartapesta dalla quale provenivano. Minchia, signor tenente, ho sentito urlare, pensavo si stessero scannando, avrei detto alla polizia nel caso qualcuno avesse protestato che avessi sfondato una porta. E così feci. Una spallata a scardinare quel chiavistello del cazzo, e finalmente vidi, finalmente seppi ed ebbi davanti tutta la verità. Il carabiniere accendeva petardi e li infilava nel buco di un lanciarazzi rudimentale dal quale partivano colpi e stelle filanti che ricadevano sulla faccia della compagna con indosso un abito da sposa: e il carabiniere non era un vero carabiniere: entrambi stavano prendendo parte a uno spettacolo circense di capodanno, strepitante di luci e rumori, che la nonna sulla carrozzina applaudiva, mentre la figlia, gracilina in un angolo, teneva in mano il topolino salvato dalla sua agonia; e c’era anche l’orco, che russava come un orco, crollato ubriaco sul letto, con la moglie che con sguardo folle incideva una lavagnetta da cucina con una forchetta: e due ballerine stupende che non avevo mai visto, forse ingaggiate apposta per la serata. Mioddio che spettacolo! Ed era tutto vero! Divenni inebriato all’istante; il calore dal basso era aumentato e aveva raggiunto la testa. Il quadro che vedevo era vivido e squillante, con le figure che si muovevano quasi al rallentatore; e mi ci buttai dentro, come in un’estasi attesa tutta la vita. Presi le due ballerine per i fianchi e incominciammo a ballare un can-can, sorridenti, mentre coriandoli perlacei ci ricoprivano come pioggia. Poi uscimmo dalla porta sfondata; notai qualche faccia che si sporgeva in pigiama dalle balaustre, ma non ci badai. E su ’ste scale ci scatenammo in tre, danzando come forsennati, facendo tremare le fragili pareti dell’edificio, mentre l’ascensore andava su e giù impazzito, e le ballerine urlavano di gioia, provando nuove contorsioni davanti ai miei occhi iniettati di sangue; finché non arrivarono due carabinieri, di quelli veri, che mi portarono via con le accuse di effrazione e atti osceni in luogo pubblico.

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