Prima della fine

Mahmoud o l’innalzamento delle acque di Antoine Wauters

È una vita apparentemente minima quella cui è ridotto il vecchio poeta siriano Mahmoud Elmachi, protagonista del romanzo in versi Mahmoud o l’innalzamento delle acque di Antoine Wauters, tradotto da Stefania Ricciardi per Neri Pozza. Abita in un «piccolo capanno» (Wauters 2023: 11), «ben nascosto, / isolato» (16), sulla riva del lago al-Assad. Sta «seduto / di spalle ai combattimenti» (14) che si svolgono presso la diga di Tabqa, perché ormai è quasi indifferente alle vicende della storia. Riproduce costantemente nel suo microcosmo gli stessi comportamenti. Sente che la morte è imminente.  

La sua esistenza è una generale negazione del presente. Mahmoud prende continuamente la sua barca per andare sul lago. E qui ricorda (36). Remando riesce ad annullare il mondo circostante e rivivere il passato (27). Ma è soprattutto immergendosi che realizza le sue intenzioni. Sotto al livello dell’acqua si trova infatti la città della sua infanzia, sommersa in seguito alla costruzione della diga, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Mahmoud la esplora incessantemente, nei luoghi noti e anche in quelli che la memoria «non ha registrato» (14). «Ogni giorno nuoto fino a rivedermi bambino» (69), dice il poeta. È una forma di regressione infantile, che a tratti si fa particolarmente esplicita: «Poi chiudo gli occhi e scendo ancora, / fino a non sentire più nessun rumore se non quello dell’acqua / sul mio cuore, l’acqua che mi respira / e mi consola come solo una madre può fare. / Nuotando torno bambino» (45-46). Ma in questo senso sembrano spiegarsi anche altri aspetti della vita di Mahmoud, che ad esempio dorme «rannichiato come / un feto» (82). In ogni caso, nei momenti subacquei il suo tumore della pelle, simbolico di un male insieme privato e pubblico, smette di fargli male. Mahmoud abita «nella memoria delle cose. / Al principio di tutto» (45). Solo il ricordo lo tiene legato alla vita (54). E a questa dinamica è forse affidata una speranza: «Neanche di un uomo che affonda si può dire / se si trasforma o si disgrega» (55). Anche quando non mette in atto una regressione specificamente infantile, Mahmoud assume comunque una postura memorativa. Il passato è quasi inevitabile: «Il ricordo s’inerpica su di me. / Mi scava addosso il suo nido. / E mi ci ritrovo immerso. / Preso in trappola. / Non dimentico nulla» (29). Ricordare è quanto è rimasto da fare a chi parla (53).

È questo l’esito dell’accanimento della storia su un individuo. Nei diciotto capitoli del romanzo Mahmoud racconta cosa gli è accaduto, intrecciando la propria voce a quella della seconda moglie Sarah e quella di un narratore esterno cui sono affidate poche brevi didascalie. Il regime «ha preso le nostre vite», dice Mahmoud a Sarah (22). La costruzione della diga voluta da Hafez al-Assad ha sommerso la sua casa e con essa i suoi ricordi (32). Tra il 1987 e il 1990 è stato imprigionato in quanto dissidente. I figli sono partiti per combattere e Mahmoud teme che siano morti. Nella repressione seguita ai moti della primavera araba la moglie Sarah è stata uccisa. E ora Daesh minaccia di far crollare la diga di Tabqa. La vita del poeta è stata segnata dunque da un reiterato trauma storico, che ha prodotto un’identità scissa: «e adesso / mentre ti parlo, sono spaccato in due, Sarah, diviso dalla / mia stessa vita» (12-13). Uscito dal carcere Mahmoud rimane per settimane davanti allo specchio «a confrontare il ricordo di due / Mahmoud che erano stati me, e che non lo erano più» (118-119). Gli eventi hanno determinato fratture multiple nella sua personalità ed egli non è più in grado di riconoscersi. La barca diventa allora «l’unico luogo possibile» (18). Immergersi significa abbandonare questa realtà invivibile, che «piomba addosso senza averlo mai chiesto» (12).

Ma soprattutto questo esame autoptico è occasione per interrogare il senso della poesia. La poesia sembra una questione di confine. Il poeta vive «tra qui e altrove» (80), sta «nel mezzo, perché troppo vicino al mondo reale si muore, e troppo lontano / anche» (76). L’immersione è dunque paradossalmente anche la condizione ideale per il poeta. E in effetti Mahmoud  la paragona alla scrittura. Entrambi sono momenti di estraniamento, in cui il soggetto si percepisce non esistente, confuso (25-26). È da questa giusta distanza che nasce la poesia. Il poeta deve in parte cancellarsi e diventare altro per dire la realtà (81). D’altra parte, la poesia mette in gioco sogno e ricordo: «È stato lì che sono nate le mie poesie, quelle / che mi hanno regalato dei lettori. / La doppia porta del sogno e del ricordo, / c’erano solo le parole per aprirla. / E per aiutarmi a tenere duro» (121-122). Attraverso la poesia Mahmoud cerca «quello che brulica nell’anticamera / del sogno, quello che si produce sfregando la memoria e / l’oblio, quello che nasce quando si lascia parlare ciò che la memoria / perde, ma tuttavia conserva. / Non avevi che le parole per raggiungere quello che c’era / prima delle parole» (124-125). La poesia sembra dunque una fantasticheria freudiana, in cui la memoria si salda all’inconscio, permettendo il ritorno del rimosso. Ma Sarah dalla sua prospettiva postuma afferma che «le cose restano in sospeso / come sempre. La vita scorre e non chiarisce nulla» (82). La realtà è in ultima istanza indecifrabile. Ed è d’accordo Mahmoud: «Una vita a scrivere. Per rendermi conto che le / parole non dicono nulla, che non c’è nulla in fondo a loro, solo un po’ / di silenzio. E di pace» (81).

La storia strazia in effetti anche la poesia, o almeno la fiducia in essa. Mahmoud ricorda un passato in cui credeva nella letteratura (33). Da giovane scriveva di «semplici cose quotidiane. / Ma prive del metro e / della rima tradizionali. Ero un poeta libero, / io!» (32). La forma era quindi in grado di farsi portatrice di un discorso eversivo. Attraverso la penna il poeta cercava la libertà (129). Anche la pagina di Anna Achmatova lasciata nella mano della moglie morta è un simbolo di resistenza (130). Ma ora Mahmoud è stanco: «Le parole non sono che le braccia armate del silenzio, / e io non ho più voglia di combattere» (111). Rinnega il suo ruolo di poeta (20). I versi non possono «salvare il presente» (55). La distruzione della guerra sarà anche quella della letteratura (59). «La scrittura non aiuta. / Non risuscita nulla» (108). E in ogni caso nessuno ascolta il poeta (26, 85). Mahmoud ammette che è alla poesia che deve la propria sopravvivenza (74), per via del suo potere esorcistico di scacciare le ombre (39). Ma alla poesia è rimasto dunque solo il privato compito di fare da «acchiappafarfalle / per le nostre cause perdute» (101). Nel finale l’insistente anafora del verbo «ignoro» è la preghiera di dissoluzione per chi non ha più nulla da fare sulla terra.

Questo il racconto doloroso che Antoine Wauters ha affidato al suo romanzo in versi. E sono versi molto piani, a livello ritmico, sintattico, lessicale e simbolico, forse a tratti veramente troppo poco densi. Ma testimoniano uno sforzo meritevole di rendere apprezzabile un genere altrimenti per gli happy few. Perché è doloroso il racconto, eppure poco prima della fine Mahmoud insiste che anche se la storia è sempre la stessa «non per questo non dev’essere raccontata» (94). C’è come una fede insopprimibile nel fatto che la poesia possa parlare a qualcuno. Il suo discorso non sembra poter morire del tutto. Il romanzo in versi, che ribadisce l’esistenza di un’alternativa alle forme più chiuse della lirica, è forse il modo di aiutarla a sopravvivere.

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