Alberto Arbasino è morto a Milano il 22 marzo 2020. «Nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957» (come lui amava dire), lo scrittore lombardo ha accompagnato gli ultimi sessantacinque anni della storia letteraria e culturale italiana con racconti, romanzi, reportage giornalistici, resoconti odeporici, saggi critici, pamphlet civili, scritti polemici, memorie e ritratti di italiani illustri: dall’esordio (con il racconto Distesa estate) su «Paragone» nel 1955 fino ai Ritratti e immagini stampati da Adelphi nel 2016.
La sua scrittura ha intercettato nel corso degli anni la sensibilità e gli interessi di varie tipologie di lettori, critici e scrittori, tutti accomunati dalla predilezione per pratiche di lettura orientate in senso elitistico e sorrette da una somma di conoscenze letterarie, teatrali, musicali: «una piccola classe colta esigente col gusto degli oggetti complessi», per usare le parole di Arbasino stesso. L’apprezzamento tributato allo scrittore lombardo sembra essersi mantenuto stabile fino a oggi, almeno a leggere il grande numero di articoli e interventi pubblicati sui maggiori quotidiani cartacei e sulle più importanti riviste online specializzate in letteratura contemporanea nei giorni e nei mesi successivi alla morte dello scrittore. Per non parlare degli studi a lui dedicati negli scorsi anni da docenti universitari (Andrea Cortellessa su tutti).
Insomma, Arbasino piace ancora, dentro e fuori l’università: a settembre il Gabinetto Vieusseux ha inaugurato la Sala Arbasino, ottenuta traferendo la biblioteca privata e il mobilio della casa romana dello scrittore, da lui molto amata, a Firenze; mentre è di maggio il convegno Arbasino, e poi all’Università di Padova, che ha avuto tra i vari relatori anche Matteo Marchesini e Michele Masneri, critici poco o nulla accademici. Quest’ultimo, poi, ha pubblicato lo scorso anno il fortunato Stile Alberto, racconto dell’educazione sentimentale dell’autore svoltasi prima attraverso i libri dello scrittore di Voghera e poi continuata con l’incontro di Arbasino in carne e ossa, ormai divenuto “venerato maestro”.
A ben guardare, la tendenza generale che ha guidato le operazioni dei recensori che a vario titolo si sono dedicati all’opera di Arbasino è stata la messa in risalto di volta in volta dell’allineamento di Arbasino a determinate coordinate etico-estetiche (lo snob, il raffinatissimo, il non provinciale di provincia, il castigatore dei costumi italiani, la «macchina di stile», giusto l’ultimo libro di Masneri) o della sua appartenenza all’una o all’altra scuola letteraria (la progenie gaddiana, la Neoavanguardia, il postmodernismo ante litteram, la genìa degli ultimi scrittori umanisti, «l’ultima che sul serio a vent’anni aveva già letto tous les livres»). Riesce dunque difficile, a un lettore dell’oggi che non nutra l’aspirazione di diventare critico letterario o kulturkrticker, capire perché e soprattutto quale Arbasino leggere. Ciò perché, nella sua inesausta pratica di scrittura, Arbasino ha assunto fisionomie sempre diverse: scrittore esordiente, melomane bulimico, scrittore affermato con molto egocentrico amor di sé, resocontista di viaggi, pamphlettista civile, ritrattista et cetera. Escludendo le prime due, si potrebbe sostenere che nell’esercizio di tutte le altre “maschere” Arbasino si sia fatto «custode e cerimoniere della propria opera» (espressione utilizzata da Raffaele Manica, curatore del Meridiano dedicato allo scrittore vogherese e suo grande estimatore). Perciò, ben più interessanti dei Fratelli d’Italia, e delle opere a essi apparentabili, appaiono oggi le prime prove narrative con cui Arbasino ha esordito nel pieno dei suoi vent’anni: Le piccole vacanze, L’Anonimo lombardo e il di poco successivo La bella di Lodi.
In questa triade esordiale ci sono tutti gli elementi dell’Arbasino migliore; cioè quello che, proprio come il protagonista dell’Anonimo, cercava di essere moderno guardando all’estero e ai migliori romanzieri nostrani del passato (al netto della sua censura per il secolo «inservibile» 1850-1950), perché nauseato dalla narrativa neorealista: «Una volta per tutte: le “denunzie” si fanno in Questura, le “istanze” si presentano ai Superiori, i “messaggi” si spediscono per posta, mentre le cose “scontate” o “valide” le adoperano bene i ragionieri delle banche. La buona letteratura, la nostra, è un’altra cosa e si serve di tutt’altri strumenti». I quali sono volontà di affabulare, senza mortificare il lettore, riuscendo a ricreare «il sound del parlato» in italiano; sperimentazione delle possibilità della scrittura dell’io, dal diario a più voci al racconto epistolare; creazione di storie d’amori e relazioni particolari senza mai veri e propri happy ending (nella miglior tradizione manzoniana), i cui protagonisti sono giovani, colti, disinibiti e preoccupati delle proprie vicende personali piuttosto che di quelle collettive; commistione indissolubile tra narrazione e saggio; interesse per il milieu socio-culturale borghese dei personaggi che si muovono nelle sue storie; ironia ora sotterranea ora manifesta che si fa dissacrazione, sberleffo, commento salace; utilizzo del racconto nella sua forma sia breve che lunga.
Le piccole vacanze (Einaudi 1957) già dal titolo chiama in causa l’istituto tipicamente borghese della vacanza e con esso i suoi protagonisti: «I suoi industriali, le sue inquietanti ragazze, i suoi onorevoli, i suoi giocatori di tennis, i suoi proprietari di yacht, di automobili e di cani di lusso, le sue ville, le sue gite, i suoi doppi whisky e le sue spiagge», indicava la scheda bibliografica Einaudi; insomma tutti personaggi, Calvino confermava, appartenenti a «un mondo che finora non aveva trovato un posto convincente nella letteratura» e che Arbasino ebbe il merito di far «diventare viva materia di racconto». Oggi il libro è disponibile nell’edizione Adelphi (2007), che presenta modifiche e aggiunte trascurabili rispetto all’edizione originaria (tra cui la rimozione di alcuni racconti, in primis quello che diventerà poi L’Anonimo lombardo); inalterata rimane invece la gustosa chiusa del primo racconto, parodisticamente manzoniana: «Addio giallo paese che ricade nel sonno, Grand Hotel sepolcrale, ombroso parco spazzato dal vento, addio bosco tennis piscina ore pungenti, giorni che da oggi in poi rimpiangerò, addio legni marci graffiati coi chiodi, scritte di cuori e di evviva, cabine bucate per spiare le belle, addio orinatoio rugginoso, addio crocicchi illuminati, addio Casa Lunga, addio fiori scale orologio immobile giochi perduti; non sarò ragazzo mai più e neanch’io lo vorrei, però mi è piaciuto molto».
Il ragazzo perduto è il lungoracconto epistolare della storia di uno studente omosessuale che vive a Milano alla metà degli anni ’50 con ambizioni di scrittura letteraria, frequenta l’Università, vive una grande (piccola) storia d’amore con un altro ragazzo e partecipa con smanioso entusiasmo a tutte le occasioni culturali che la città gli offre. Aspirante scrittore, il protagonista si rivolge a un «caro Emilio» (che alle volte diventa «Carlo Emilio»: facile quindi l’identificazione con Carlo Emilio Gadda) e condivide con lui oltre che i crucci della sua vicenda amorosa anche le preoccupazioni per come debba scrivere un giovane e quali modelli debba adottare per liberarsi dal timore «di non sentirsi abbastanza “moderni”». La vicenda editoriale di questo racconto è, come spesso in Arbasino, abbastanza complicata; interessa solo sapere che Adelphi ne ha stampato l’ultima riscrittura nel 1996.
La bella di Lodi è il racconto di una improbabile (ma possibile nell’Italia del boom) storia d’amore tra un meccanico scapestrato e una giovane possidente lodigiana, una di quelle che «quando son dritte, oltre ai bei denti e ai begli occhi e alla gamba lunga e al capello magnifico, chiaro, hanno tanta terra, almeno un paio di migliaia di pertiche». Tra i due nasce un amore, si diceva, improbabile, fatto di scopate focose su e giù dall’autostrada e confronti con parenti preoccupati che il capitale accumulato con burri e formaggi possa finire nelle mani sbagliate. Prima racconto pubblicato su “Il Mondo” nel 1961, poi sceneggiatura per l’omonimo film con Stefania Sandrelli, viene pubblicato come libro autonomo da Einaudi solo nel 1972. In libreria lo si trova oggi nel rosa pastello dell’Adelphi (2002). Asimmetria sociale e potere del denaro, due temi importanti per l’Arbasino degli esordi, raggiungono qui il loro parrossismo tragicomico entro una cornice linguistica pienamente comprensibile, divertente e dal taglio cinematografico (non a caso il testo è stato anche una sceneggiatura).
Insomma, l’Arbasino migliore è il primo: quello che è invecchiato meglio, quello che un ventenne di oggi potrebbe leggere, quello che potrebbe rappresentare un modello per nuovi scrittori (considerato che l’Arbasino affermato, come Gadda, non ha cercato né voluto né riconosciuto progenie, eccezion fatta forse solo per Tondelli); quello che, per concludere, ai nostri occhi val la pena leggere. Se poi si vorranno leggere anche i suoi libri successivi, si potrà verificare se Arbasino abbia percorso interamente o no il cursus honorum dello scrittore italiano: «brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro».