Siamo tutti bestie

Intervista a Sofia Pirandello

Sotto la superficie delle suggestioni più immediate, il caldo, il sud, la povertà, Bestie, edito da Round Robin, è un romanzo che parla di autodeterminazione e volontà di riscatto. Con una struttura sorprendentemente classica, priva di compiaciuti manierismi narrativi, Pirandello ci racconta una storia alternativa allo Zeitgeist contemporaneo. In un momento in cui il trauma assurge di per sé ad atto eroico ed essere vittima rende una vita onorevole d’ufficio, Lucia, la protagonista, percorre la propria esistenza, dal paese siciliano in cui nasce alla grande città del nord, come una lotta per diventare sé stessa, ribellandosi al ruolo che la società le impone, alla miseria della propria famiglia e al rapporto con loro, i maschi. 

Ho avuto l’opportunità di parlarne direttamente con l’autrice. Ne è venuta fuori una chiacchierata interessante su “fimmine”, vie di fuga andreottiane e inutilità del racconto. 

Incontro Sofia in un dehor a Milano, dove si è trasferita da poco. Oltre alle meritate congratulazioni per essere stata proposta per il Premio Strega 2023, parto proprio da lì, dal trauma e dall’autodeterminazione, per scoprire se ho capito qualcosa, davvero, di Bestie

Ciao Sofia, voglio togliermi subito un dubbio: la cosa che trovo più interessante del tuo romanzo è la lettura originale del trauma. Lucia, a cui ne capitano di ogni, si ribella costantemente a ciò che la vita le mette di fronte. Bestie è un romanzo sulla volontà di autodeterminarsi?

Direi di sì. Non sono partita con questo intento, ma poi il personaggio è uscito così; quindi forse lei stessa ha voluto emergere, si è autodeterminata, in qualche modo. Amo la copertina del libro perché racconta questa cosa in modo immediato: venire fuori. 

In realtà, io partivo dalla volontà di raccontare una storia in cui al centro ci fosse il delitto senza movente. Ho cominciato con in mente questo, ma, per raccontare di come una persona possa arrivare a fare qualcosa di incomprensibile, ho dovuto scavare nella sua storia ed è venuto fuori tanto altro. Certamente penso che nella vita di una persona “media” come Lucia non sia così difficile arrivare a quel punto. Lei è a suo modo una vittima, sempre bersagliata dall’azione degli altri, ma non si percepisce in quel ruolo ed è da qui che deriva la sua rabbia. 

Per rispondere alla domanda, oggi c’è un po’ questa narrazione che, se soffri, se qualcuno ti ha fatto soffrire, questo sia di per sé un valore. A me più volte è stato detto che avrei dovuto ringraziare per i traumi che ho vissuto, perché mi hanno reso più emotiva, più forte, più comprensiva. Secondo me, questa, da sola, è una balla allucinante, che ci si racconta per giustificare le proprie cattiverie. Il mio è un po’ il tentativo di dire che, nonostante i traumi, non grazie ai traumi, uno si può costruire. Anche sulla narrazione del femminile c’è sempre un po’ questa storia della vittima; invece Lucia è una donna che cerca di sfuggire proprio a questa definizione.  

Ecco appunto, le “fimmine”. Del tuo romanzo mi ha colpito soprattutto l’essere femmina come tratto determinante, quasi esistenziale. La madre di Lucia, Anna, maledice il fatto che Lucia sia nata femmina, a partire dal destino di dipendenza che lei stessa ha vissuto: “Le donne sono prede, sono deboli” e ancora “una donna non ha desideri, non ha forza, non ha fame. Mia madre non era nulla di tutto ciò e sentiva di essere stata punita per questo. Provava con ogni fibra del corpo ad adeguarsi all’idea di ciò che avrebbe dovuto essere, collezionando instancabilmente un fallimento dietro l’altro”. Mi sono chiesto se in te ci fosse la consapevole volontà di trasferire questo universo ai lettori “maschi”.

Ci ho pensato. La cosa strana è che, ricostruendo questo personaggio, mi sono resa conto che non è così difficile subire i comportamenti degli altri solo per essere nata donna in un certo periodo. È assurdo, perché è venuto fuori senza che volessi concentrarmi su questa storia della “fimmina”, ma dai racconti di altre e dalla mia stessa vita, mi sono resa conto che è un’aspettativa che ti viene imposta e che l’essere femmina è una categoria che corrisponde a un dover essere. Tu devi fare determinate cose e, se non le fai, non è la categoria della femmina a “spostarsi”, sei tu che non ci rientri e basta. La madre di Lucia soffre perché non ci si ritrova e quindi pensa “sono io che sono matta, sono sbagliata, non vado bene e la stessa cosa succederà a te”. Lucia prova a superare questa impasse: “Sarò un mostro ma sono una femmina che desidera, che vuole giocare, che vuole mangiare un sacco”. Anche questa del cibo è una piccola cosa, ma è esemplare. Mia nonna ha questo timore di farsi vedere golosa. Sono stupidaggini, ma si presuppone che un maschio mangi di più. Da qui, tutta una serie di discorsi sul fisico, sul curarsi. È una cosa emersa senza che io lo volessi, mentre cercavo di raccontare il peso di essere un personaggio di quel tipo lì. Mi sono resa conto che essere nata “fimmina” è un problema e mi ha sconvolto che alcune cose che per lei erano esplicite, indirettamente, senza che nessuno lo volesse, sono state forse insegnate anche a me. 

Quindi è una maledizione che riscontri anche oggi.

Certo. Non so quanti passi avanti ci siano stati, forse in alcuni casi c’è il problema che non si ammette nemmeno più, non è più esplicita e per questo ancora più difficile da vedere e da superare.

Come se il progresso che, da allora, c’è stato diventasse il tappeto sotto cui mettere la polvere di un condizionamento che ancora esiste. 

Esatto. Nel parlare della “fimmina” volevo proprio dire che è una cosa che non esiste, una categoria vuota e che è un problema solo per gli altri. Sicuramente, per converso, al maschile vengono negate altre cose, con la differenza che per loro, nella vita comunitaria, associata, pratica, non è negata la libertà di essere esattamente come sono.

A tal proposito, mi viene in mente un personaggio in particolare, che mi ha colpito più di tutti: Catena. Mi sembra una sorta di alter ego andreottiano di Lucia. Una che donna che prova e ha provato lo stesso senso di frustrazione e rivalsa, ma ha trovato un modo diverso di sublimarlo. Mi parli di questo personaggio? 

Pensavo mi dicessi Pino! È il preferito di tutti. Comunque trovo la definizione che hai dato di Catena calzante. Io penso che lei rappresenti l’altra opzione rispetto a quella scelta da Anna, la madre di Lucia, che è dura e non riesce a organizzarsi rispetto alla sua condizione, mentre Catena capisce che deve “surfare” la superficie e giocare secondo le regole del gioco per garantirsi la sua libertà. Anche il suo abdicare alla bellezza: a lei quasi piace che la ritengano una femmina brutta perché questo le dà un ruolo nella società. 

A proposito di Pino, da come descrivi Catena, mi ricorda un po’ Pina Fantozzi di Villaggio. Una donna che ha scelto di viaggiare sul binario che la vita le ha destinato senza grossi scossoni, accettando un compromesso forse non esaltante, ma sicuro, anche pensando al rapporto con suo marito. 

Se penso alla figura del marito di Catena, il paragone ci può stare. Il loro è un rapporto basato sulla reciproca giustificazione di un ruolo, più che sull’amore. È il gettone di Catena per essere a suo modo libera. 

“Un paese del sud bruciato dal sole”, la “valigia di cartone”, il “marito del nord”: sembra che il sud sia un protagonista del tuo romanzo tanto quanto gli altri. È così? Bestie poteva nascere altrove? 

Sì, è un altro personaggio e quindi no, secondo me non poteva nascere altrove. Non perché il romanzo parli della condizione femminile al Sud, questo fantomatico “Sud che maltratta le donne”, ma al contrario perché mette in luce il fatto che la stessa condizione avviene anche altrove, in quella metaforica America che Lucia spera di trovare al Nord. Non solo non troverà molto di diverso nella condizione delle donne, ma porterà con sé anche il fardello di essere una che viene dal Sud. Fimmina, povera e meridionale, per giunta: una persona di serie B.

A un certo punto Lucia descrive la volontà di raccontare la verità di sua madre, ma sente di non poterci riuscire fino in fondo: “So già che narrandola la trasfiguro, ne modifico la natura, ho conosciuto una persona e non mi resta che il personaggio”. Che ruolo ha per te il racconto e quanto è rispondente alla verità?

Secondo me il racconto è molto liberatorio per chi scrive, ma non corrisponde quasi mai alla verità su qualcosa. Una delle frasi che mi ha colpito di più nella vita l’ha scritta Marguerite Duras quando, dopo aver riletto un suo diario scritto durante la seconda guerra mondiale, dice “mi vergogno della letteratura”. Cioè quando tu cerchi di trasformare un fatto in una storia la trasfiguri e ci metti qualcosa che è più per te, al massimo per il lettore, ma non è mai la verità. 

Allora perché scrivi? 

Non lo so, sarà una risposta forse deludente, ma scrivo perché mi piace. È proprio egoisticamente liberatorio per me. 

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