The miseducation of the American Boy di Peggy Orenstein

A novembre 2023 Giulia Cecchettin, studentessa veneta di 22 anni, è stata uccisa dal suo ex fidanzato coetaneo Filippo Turetta dopo essere stata rapita e aggredita. Questo femminicidio ha scosso l’opinione pubblica come poche volte nella storia italiana, generando numerose manifestazioni pubbliche e stimolando un ampio dibattito sul tema della violenza di genere. Considerando che, secondo i dati del ministero dell’Interno, in Italia nel 2023 sono state uccise più di 100 donne, la metà delle quali ammazzate dal partner o dall’ex partner, cosa ha reso questo delitto più meritevole di attenzione degli altri? Probabilmente la sua efferatezza (la scomparsa di Cecchettin, la fuga di Turetta, i dettagli cruenti divulgati), senza dubbio la giovane età dei protagonisti, certamente la provenienza del femminicida da una famiglia perbene. Se è vero che, come affermava l’avvocata Tina Lagostena Bassi, che «sono tutti bravi ragazzi prima», l’opinione pubblica appare sempre sconvolta quando a uccidere è un ragazzo qualsiasi.

Nei giorni successivi al femminicidio di Giulia Cecchettin mi trovavo in alcune scuole superiori a parlare di violenza di genere e ho colto l’occasione per domandare a ragazzi e ragazze giovanissime quale fosse il loro stato d’animo in merito a quegli avvenimenti, se ne avessero parlato con qualcuno. È venuto fuori che le ragazze ne stavano discutendo molto, tra loro e in famiglia; alcune avevano anche preso parte alle manifestazioni organizzate da collettivi e associazioni. Rivolta la stessa domanda ai ragazzi, la risposta è stata, più volte, in varie scuole: «No, non ci capita mai di parlare di questa cose». Né a casa, né tra amici.

Per evitare che il mio turbamento si trasformasse nella solita rabbia – la stessa di Agnès Varda, quella che non ci consente di essere femministe gioiose – sono andata alla ricerca di un vecchio articolo letto anni fa. Il pezzo in questione è apparso sull’edizione cartacea del The Atlantic di gennaio/febbraio 2020, dopo una pubblicazione online a fine 2019. Si tratta di un adattamento dal libro Boys & Sex (Young Men on Hookups, Love, Porn, Consent, and Navigating the New Masculinity) scritto da Peggy Orenstein, scrittrice e giornalista del New York Times che da anni si occupa di temi di genere. Nel 2016 la stessa autrice aveva pubblicato Girls & Sex (Navigating the Complicated New Landscape), saggio dedicato all’educazione sessuale delle ragazze; terminata questa pubblicazione, Orenstein si è resa conto della necessità di un discorso più ampio che includesse anche il punto di vista dei giovani uomini. Del resto l’educazione dei ragazzi è contaminata dalle stesse immagini distorte e dai medesimi stereotipi (debolezza e sensualità femminile contro vigore e aggressività maschile), che condizionano il modo in cui essi affrontano le relazioni sessuali ed emotive. Boys & Sex raccoglie interviste a giovani statunitensi e pareri di psicologi e sociologi, allo scopo di analizzare cioè che l’autrice chiama The miseducation of the American boy: i “discorsi da spogliatoio”, le gag misogine e omofobe di cui sono intrisi film e serie tv, la pornografia come educazione sessuale.

Letto oggi, l’articolo pubblicato su The Atlantic può apparire datato e intriso di un fastidioso sentimento liberal da East Coast americana, ma offre un ritratto della mascolinità lucido, spietato. Pericolosamente simile a ciò che vediamo da questa parte dell’oceano. Per questo ho voluto tradurlo, al meglio delle mie possibilità, con l’intento non di farne una trasposizione letterale quanto di condividere alcune delle riflessioni più acute di Orestein. Una su tutte: «Il femminismo ha fornito alle ragazze una potente alternativa alla femminilità convenzionale e un linguaggio con cui esprimere la miriade di problemi che non hanno nome. Ma non c’è stato niente di equivalente per i ragazzi. Al contrario, la definizione di mascolinità sembra sempre più contrarsi». Buona lettura.

La diseducazione del ragazzo americano

Perché i ragazzi si eccitano con le battute sullo stupro, pensano che avere una ragazza sia “da gay” e non riescono ancora a piangere. E perché dobbiamo fornire loro modelli nuovi e migliori di mascolinità

di Peggy Orenstein

Non sapevo nulla di Cole prima di incontrarlo; era solo un nome su una lista di ragazzi iscritti a una scuola privata fuori Boston, che si erano offerti di parlare con me (o che, forse, erano stati spinti a farlo da un consulente). Il pomeriggio del nostro primo colloquio sono in ritardo. Mentre mi affretto a percorrere il corridoio della scuola, noto un ragazzo seduto fuori dalla biblioteca, in attesa: deve essere lui. Fissa impassibile davanti a sé, con entrambi i piedi piantati sul pavimento e le mani appoggiate sulle cosce. La mia prima reazione è: “Oh no”. Poi penso che sono ingiusta: senza nemmeno incontrarlo, gli ho stampato addosso una lettera scarlatta sulla base dei miei pregiudizi personali. Più tardi Cole si descriverà come il “tipico atleta alto e bianco”, che poi è esattamente quello che ho visto. A 18 anni è alto più di un metro e ottanta, con spalle larghe e capelli corti. Il collo così massiccio che sembra fondersi con la mascella. Progetta di iscriversi, l’autunno successivo, all’accademia militare. I suoi amici sono “il gruppo degli atleti”. Mi spiega che “Sono come ce li si aspetta, né più né meno”. Se mi avessero detto di chiudere gli occhi e immaginare un ragazzo che mai e poi mai si sarebbe aperto sinceramente con me, avrei descritto Cole. Invece mi ha sorpreso. Per prima cosa mi mostra sul telefono una foto della sua ragazza, con cui esce da 18 mesi, descrivendola con orgoglio “molto più intelligente di me”. Lei è una femminista, una roccia quando si tratta di offrire sostegno emotivo. Poi inizia a confidarmi le proprie preoccupazioni: quattro anni prima, durante le prime settimane da matricola con una borsa di studio in una nuova scuola, Cole temeva di non sapere come comportarsi con gli altri ragazzi, di non essere in grado di fare amicizia. “Sapevo come parlare con le ragazze in modo platonico, era facile”, dice. “Stare con i ragazzi, invece, era diverso. Dovevo essere un fra e non sapevo come”.

Ogni volta che Cole pronuncia la parola fra sposta il peso da una parte all’altra del corpo, come a volere occupare più spazio; si dondola sulla sedia, parla dal fondo della gola, come se avesse fumato un sacco di erba. Quando glielo faccio notare, sorride. “Sì”, mi dice, “il punto è anche questo. Sembrare rilassato e mai invadente, ma essere capace di tirare fuori l’aggressività sul campo sportivo”. E aggiunge “Del resto un fra è sempre, sempre un atleta”.

Oggi Cole ha il suo gruppo di amici tra i compagni di squadra, ma all’inizio non stato è facile. Ricorda un fatto avvenuto due anni prima, quando un ragazzo dell’ultimo anno si era vantato nello spogliatoio di essere riuscito a convincere una compagna di classe di Cole (una del secondo anno, ci tiene a sottolineare) che fossero una coppia, per poi iniziare invece a frequentare altre ragazze alle sue spalle. E il tipo in questione non sembrava affatto timido nel condividere i dettagli della cosa. Cole e un suo amico, un altro studente del secondo anno, gli avevano chiesto di smetterla. “Ho iniziato a spiegargli perché fosse tutto inappropriato”, mi racconta Cole, “ma lui si era messo a ridere”. Il giorno dopo, un altro ragazzo dell’ultimo anno aveva iniziato a parlare di “vendicarsi” di una “stronza” che lo aveva scaricato. Il suo amico aveva ribattuto di nuovo, mentre questa volta Cole era rimasto in silenzio. “Io continuavo a indietreggiare” mentre lui, l’amico, “continuava a farsi avanti. Si capiva che ai ragazzi della squadra non piaceva, alla fine hanno smesso di ascoltarlo. Era come se avesse speso tutta la sua reputazione” per farli smettere di fare battute sessiste. “Nel frattempo, io me ne stavo seduto lì, troppo spaventato per spendere la mia di reputazione”.

“Non so cosa fare”, continua Cole. Parla sinceramente. “Quando sarò nell’esercito e farò parte di quella cultura, non voglio dover scegliere tra la mia dignità e il rapporto con gli altri, quelli con cui sto prestando servizio”. Mi guarda negli occhi. “Ma come faccio a non scegliere?”.

Ho passato due anni a parlare con i ragazzi in tutta l’America – più di 100, di età compresa tra i 16 e i 21 anni – di mascolinità, di sesso e d’amore; delle forze, visibili e invisibili, che li formano come uomini. Mi sono concentrata su quelli che frequentavano l’università o che erano in procinto di farlo, perché, che ci piaccia o no, sono perlopiù loro a stabilire le norme culturali. Quasi tutti i ragazzi che ho intervistato hanno una visione relativamente egualitaria delle ragazze o, almeno, del loro ruolo nella sfera pubblica. Considerano le compagne di classe intelligenti e competenti, del tutto legittimate a occupare un posto sul campo di atletica e nella leadership scolastica, meritevoli di essere ammesse all’università e di avere opportunità professionali. Tutti hanno amicizie femminili; la maggior parte ha amici gay. Si tratta di un cambiamento enorme rispetto a 50, 40 o forse anche 20 anni fa. I ragazzi sanno perfettamente riconoscere gli eccessi di mascolinità. Leggono titoli di giornali che parlano di sparatorie di massa, violenza domestica, molestie sessuali, stupri nei campus, crisi presidenziali su Twitter e udienze della Corte Suprema. Un giocatore di football della Big Ten che ho intervistato ha parlato con scioltezza di mascolinità tossica. “Certo che so cos’è, tutti sanno cos’è”, mi ha detto quando gli sono sembrata troppo sorpresa.

Eppure, tutte le volte che ho chiesto loro di descrivere le caratteristiche del “ragazzo ideale”, quegli stessi giovani uomini sembravano tornare indietro al 1955. Dominanza. Aggressività. Fisico robusto (con enfasi sull’altezza). Prodezza sessuale. Stoicismo. Atletismo. Ricchezza (prima o poi). Non che tutte queste qualità, opportunamente incanalate, siano negative. Un sondaggio nazionale del 2018, commissionato da Plan International USA e condotto dalla società di sondaggi PerryUndem su più di 1.000 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 10 e i 19 anni, rivela che le giovani donne pensano ci siano molti modi per essere una ragazza – brillare in matematica, nello sport, nella musica, nella leadership (anche se ancora si sentono apprezzate principalmente per il loro aspetto) – mentre i giovani uomini descrivono in maniera estremamente più ordinaria la mascolinità di successo. Un terzo di loro dichiara di sentirsi costretto a reprimere i propri sentimenti, a “sopportare” e a “fare l’uomo” anche nei momenti di tristezza o paura. Più del 40% almeno una volta nella vita si è sentito forzato a comportarsi in modo combattivo anche se giù di morale. Un’altra indagine ha messo a confronto i ragazzi di Stati Uniti, Regno Unito e Messico: i giovani americani sostengono di soffrire le aspettative di una società che li vuole sempre pronti a fare sesso o ad avere molte donne; percepiscono, inoltre, maggiore stigma nei confronti dell’omosessualità; dichiarano, infine, di essere stati bombardati da messaggi che li invitano ad avere un maggiore “controllo” sulle donne, normalizzando l’idea che gli uomini “meritino sempre di sapere” dove si trovano le fidanzate o le mogli.

Il femminismo ha fornito alle ragazze una potente alternativa alla femminilità convenzionale e un linguaggio con cui esprimere la miriade di problemi che non hanno nome, ma non c’è stato niente di equivalente per i ragazzi. Al contrario, la definizione di mascolinità sembra contrarsi. Alla domanda su quali siano i tratti che la società apprezza di più nei ragazzi solo il 2% dei maschi intervistati nel sondaggio di PerryUndem ha risposto “onestà” e “moralità”, mentre l’8% ha detto “capacità di leadership”: caratteristiche ammirevoli in chiunque, e invece tradizionalmente considerate maschili. Quando ho chiesto ai ragazzi con cui ho parlato cosa trovassero affascinante nell’essere un giovane uomo, la maggior parte di loro non ha saputo rispondere. Josh, studente al secondo anno del college di Washington State, mi dice: “Domanda interessante. Non ci ho mai pensato. Si sente sempre parlare di ciò che non va nei ragazzi”.

Nonostante si pensi che “seguire il copione” posso procurare a ragazzi e uomini ricompense sociali e professionali, le ricerche dimostrano che coloro che aderiscono rigidamente a certe norme maschili non solo hanno più probabilità di molestare e bullizzare, ma anche di essere in prima persona vittime di violenza verbale o fisica. Sono inoltre più inclini a bere, esposti a comportamenti sessuali a rischio e ad avere incidenti d’auto. Sono anche meno felici degli altri ragazzi, con tassi di depressione elevati e meno amici con cui confidarsi.

Non è sempre stato così. Secondo Andrew Smiler, psicologo che ha studiato la storia della mascolinità occidentale, l’uomo ideale sino alla fine del XIX secolo era un compassionevole, un custode di valori; tali qualità si sono perse con l’industrializzazione, quando il lavoro si è spostato nelle fabbriche. I Boy Scout, che esortano i propri membri a essere leali, amichevoli, cortesi e gentili, sono stati fondati nel 1910 in parte per contrastare questa tendenza disumanizzante. Smiler ritiene, inoltre, che la distorsione della mascolinità sia una risposta alla sempre maggiore conquista di diritti da parte delle donne. Durante la Prima Guerra Mondiale, le donne hanno infatti dimostrato di essere in grado di mantenere l’economia da sole e poco dopo hanno ottenuto il voto. Invece di promuovere una politica che accelerasse l’uguaglianza di genere, osserva Smiler, i leader hanno cavalcato l’idea di un inalienabile diritto maschile al potere, enfatizzando la natura presumibilmente più logica e meno emotiva degli uomini come prerequisito per la leadership. Nella seconda metà del XX secolo, i percorsi tradizionali verso la virilità (matrimonio, accesso al lavoro) iniziano ad accorciarsi, insieme ai tratti positivi ad essi associati. Oggi molti genitori non sanno come crescere i loro figli, quale tipo di mascolinità incoraggiare. Ma come ho imparato parlando con i ragazzi stessi, la cultura dell’adolescenza – che fonde iperrazionalità e dominio, conquista sessuale e glorificazione della violenza maschile – riempie il vuoto.

Per Cole, come per molti ragazzi, questa mascolinità stentata è un metro di paragone con cui vengono misurate tutte le scelte, anche quelle apparentemente irrilevanti per l’identità maschile. Quando può scegliere, Cole preferisce lavorare ai progetti scolastici con le ragazze, per evitare di apparire subordinato a un altro maschio. “Con una ragazza è più sicuro parlare e fare domande, lavorare insieme, ammettere di aver sbagliato e di voler essere aiutato”, ammette Cole. Durante il suo anno da matricola, ricorda di avere proposto per un certo periodo ai compagni di squadra di diventare vegani, tanto per dimostrare che gli atleti posso riuscirci. La loro risposta: “Cole, è l’idea più stupida del mondo. Saremmo lenti in ogni gara”. Ripensandoci, Cole ammette che “in un certo senso è vero: abbiamo bisogno di proteine. Abbiamo bisogno di grassi, sali e carboidrati che otteniamo dalla carne. Ma un’altra ragione per cui tutti pensavano che la mia idea fosse stupida è che essere vegani, secondo loro, ci avrebbe reso deboli come le femmine”.

È dimostrato che, tra i due sessi, sin dall’infanzia, non c’è alcuna differenza in termini di bisogno di connessione e capacità di empatia; anzi, pare che i neonati maschi siano persino più espressivi delle femmine. Eppure i ragazzi vengono esposti a un paesaggio emotivo estremamente impoverito. Esiste uno studio, ormai divenuto un classico: viene mostrato a degli adulti il video di un neonato spaventato e la maggior parte dei rispondenti, se viene detto loro che il bambino è maschio, tende ad affermare che il piccolo non pianga per la paura ma perché è arrabbiato. Secondo alcune evidenze, le mamme parlano alle bambine utilizzando un vocabolario emotivo ampio e ricco; mentre con i figli maschi, ancora una volta, tendono a soffermarsi sul sentimento della rabbia. I padri, invece, indipendentemente dal sesso del figlio parlano in genere con meno sfumature emotive. Ciononostante, secondo Judy Y. Chu, docente di biologia umana a Stanford che ha condotto uno studio su alcuni bambini dalla scuola materna alla prima elementare, i maschi presentano un’acuta comprensione delle emozioni e un desiderio di relazioni strette fino all’età di 5 o 6 anni; dopo smettono di essere interessati a questa sfera, almeno in pubblico, e si staccano dai sentimenti di debolezza rifiutando l’amicizia con le bambine (che praticano solo “in clandestinità”, fuori dalla scuola) e diventando più gerarchici nel loro comportamento.

Nell’adolescenza, secondo lo psicologo di Harvard William Pollack, i ragazzi diventano “vergognafobici” e temono costantemente di perdere il rispetto dei coetanei se solo osano parlare di problemi personali. Le mie conversazioni con i giovani uomini lo confermano. I ragazzi mi confidano di sentirsi spesso negare da coetanei maschi, fidanzate, media, insegnanti, allenatori e soprattutto dai loro padri l’intero spettro dell’espressione umana. Cole, per esempio, ha trascorso la maggior parte della sua infanzia con la madre, la nonna e la sorella: i suoi genitori si sono separati quando aveva 10 anni e il padre, anche lui nell’esercito, era spesso via. Cole mi parla di sua madre con grande amore e rispetto. Per suo padre, invece, prova sentimenti più complessi. “È una brava persona”, dice, “premuroso e partecipe, anche dopo il divorzio. Ma non riesco a essere me stesso con lui. Sento di dover tenere tutto quello che c’è qui dentro” – Si picchietta il petto – “dietro un muro, dove lui non può vederlo. È un tabù, non così grave come l’incesto, ma comunque grave”.

Rob, un diciottenne del New Jersey che frequenta il primo anno di un college della Carolina del Nord, mi racconta che suo padre gli ripeteva di “comportarsi da uomo” ogni volta che lamentava difficoltà a scuola o nel baseball. “È per questo che non parlo mai con nessuno dei miei problemi”. Pensa che: “Se non riesci a farcela da solo, allora non sei un uomo, non ti stai impegnando abbastanza”. Anche altri ragazzi mi descrivono i propri padri come una sorta di “polizia di genere”. “Non è che mio padre sia uno stronzo alcolizzato o emotivamente indisponibile”, spiega un ragazzo al secondo anno di college nella California del Sud. “È un uomo normale, affettuoso, carismatico e per nulla intimidatorio”. Ma “c’è un blocco. C’è un’esitazione, anche se non mi piace ammetterlo. Un’esitazione a parlare con lui di… qualsiasi cosa, in realtà. Impariamo a non confidarci con nessuno. Ci si allena a non sentire”.

Ho conosciuto Rob circa quattro mesi dopo la rottura con la sua ragazza del liceo. I due si erano frequentati per più di tre anni – “l’amavo davvero”, mi dice – e sebbene le loro università fossero lontane, avevano ugualmente deciso di provare a stare insieme. Poi, a poche settimane dall’inizio del primo anno, Rob ha saputo da un amico che lei lo stava tradendo. “Così ho chiuso”, dice, schioccando le dita. “Ho smesso di parlarle e mi sono completamente dimenticato di lei”. Solo che non è andata proprio così. Anche se non ha mai usato questa parola, Rob è caduto in depressione. L’eccitazione che aveva provato all’idea di lasciare casa sua, di iniziare l’università e di entrare in una confraternita si è presto esaurita e, con il passare del semestre, non è più tornata. Quando gli ho chiesto a chi avesse parlato di quel periodo, ha fatto spallucce. Se avesse detto ai suoi amici che era “sotto per una ragazza”, gli avrebbero risposto “Smettila di fare lo stronzo”.  Rob ricorda che in quel periodo si sentiva sempre triste. L’unica persona con cui ha abbassati la guardia è stata la sua ragazza, ma adesso lei non è più un’opzione.

Le fidanzate, le madri e in alcuni casi le sorelle sono le confidenti più comuni per i ragazzi che ho incontrato. Sebbene sia meraviglioso sapere che c’è qualcuno con cui possono parlare – e sono sicura che le madri, in particolare, apprezzano questo ruolo – insegnare ai ragazzi che le donne sono le uniche responsabili del lavoro emotivo e che è anti-virile praticare da soli un’elaborazione della propria vita sentimentale, ha un prezzo per entrambi i sessi. Questa dipendenza genera uomini incapaci di identificare o esprimere le proprie emozioni, oltre che mal equipaggiati per affrontare relazioni adulte e durature.

Durante le vacanze del Ringraziamento, Rob è così sconvolto che una sera, mentre chiacchiera in cucina con sua madre, ha quello che lui stesso definisce un “crollo mentale”. “Ero davvero stressato”, dice. “Tra le lezioni e la fine della storia con la mia ragazza”. Non è in grado di descrivere come si sia sentito durante quel “crollo”; anche se ammette di avere “spaventato a morte” sua madre che, quando lo ha visto in quello stato, immediatamente gli detto “Raccontami tutto”. Quello che Rob ci tiene a ribadire, con certezza, è che anche in quell’occasione non ha mai pianto. Insiste: “Io non piango, mai”.

È interessante il modo in cui i ragazzi affrontano il tema: piangono o non piangono, vogliono farlo o non sono in grado di farlo. Per la maggior parte di loro, comunque, il pianto è un evento raro e umiliante; una crepa pericolosa che minaccia di fare crollare un edificio costruito con cura. Un ragazzo al secondo anno di università a Chicago mi confida di non essere riuscito a piangere neppure quando i suoi genitori hanno divorziato. “Volevo davvero farlo”, ammette. “Avevo bisogno di piangere”. La sua soluzione? Guardare in streaming tre film sulla Shoah durante il fine settimana. Alla fine ha funzionato.

Da persona che, in virtù del proprio sesso, ha sempre avuto il permesso di piangere, non ho compreso subito questo aspetto. Solo dopo diverse interviste ho capito che, quando i ragazzi mi confidavano di piangere o, ancora di più, quando si mettevano a farlo davanti a me, correvano un rischio. Mi confessavano qualcosa di privato e prezioso: una prova di vulnerabilità, un desiderio di vulnerabilità. O, come nel caso di Rob, un’incapacità di riconoscere qualsiasi fragilità umana. Era tutto così toccante da farmi venire voglia, beh, di piangere.

La cultura del fra

Nonostante i ragazzi che ho intervistato abbiano sempre manifestato una certa difficoltà nel dirmi cosa gli piacesse dell’essere un giovane uomo, la risposta più frequente è stata lo sport. Tutti ricordano i primi giorni sui campi da gioco con un calore quasi romantico. Tuttavia, sono rimasta colpita da quanti abbiamo abbandonato le attività sportive tanto amate perché insofferenti alla mentalità da Signore delle Mosche dei compagni di squadra o degli allenatori. Forse l’esempio più estremo è stato quello di Ethan, un ragazzo della Bay Area, reclutato da un piccolo college liberal-arts del New England per giocare a lacrosse: era preparato a incontrare la “cultura del fra” tipica della East Coast, ma ne aveva sottovalutato l’intensità. “Tutto era incentrato sul sesso”, dice Ethan, sul vantarsi di aver rimorchiato; persino gli allenatori incoraggiavano a prendersela con le ragazze vittime di molestie, dando a loro tutta la colpa.  “Non erano così in classe o con altre persone; era una scuola super-liberale. Ma quando li portavi nello spogliatoio…”. Ethan scuote la testa. “È stata una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita”.

Da matricola, Ethan dice di non essersi mai sentito in grado di sfidare i compagni più grandi, soprattutto senza il sostegno degli allenatori. Così decide di lasciare la squadra e di cambiare scuola. “Se fossi rimasto lì, avrei ricevuto molta pressione per giocare e molto risentimento, avrei dovuto incontrare quei ragazzi per sempre. In questo modo, invece, non ho dovuto spiegare nulla”. Nella nuova scuola, Ethan non gioca a lacrosse, né ad altro.

Quella che il famoso scrittore sportivo Robert Lipsyte chiama “cultura dell’atleta” (la stessa che i ragazzi con cui ho parlato chiamano più spesso “cultura del fra”) è il ventre oscuro delle enclavi dominate dagli uomini, a prescindere dallo sport: le scuole per soli maschi, le confraternite, Wall Street, la Silicon Valley, Hollywood, l’esercito. Questi gruppi promuovono il legame, predicano l’onore, l’orgoglio e l’integrità, eppure tendono a inculcare ai ragazzi l’idea che chiunque non sia “in squadra” vada trattato da nemico; le uniche donne che di solito fanno parte del gruppo sono i parenti di sangue, ma comunque i fratelli vengono prima delle ragazze, e tale pensiero giustifica qualsiasi ostilità nei confronti dell’altro sesso. La lealtà è fondamentale e la mascolinità viene abitualmente ristabilita attraverso un linguaggio misogino e omofobico.

All’ultimo anno di liceo, Cole viene nominato capitano della squadra di canottaggio. Gli piace far parte di un gruppo di fra. Quando gareggia, immagina che ogni vogata sia per il ragazzo davanti a lui o per quello dietro di lui, insomma mai per se stesso. Ma non è da tutti reggere uno sforzo simile. “Il canottaggio richiede di spingersi fino alla soglia del dolore e di mantenerla”, dice Cole. “Ed è difficile trovare qualcosa che ti spinga a farlo, a parte la rabbia e l’aggressività”.

Gli chiedo come parlavano i suoi compagni di squadra nello spogliatoio. Questa domanda riesce sempre a mettere a disagio questi giovani uomini. Piuttosto preferiscono parlare di porno, disfunzione erettile, eiaculazione precoce, qualsiasi altra cosa ma non questo. Cole guarda di lato, si sposta sulla sedia e sospira profondamente. “Ok”, dice infine, “provo a rispondere. Si sente dire continuamente cazzo; cazzo può andare ovunque in una frase. E ci chiamiamo a vicenda fighetta e puttana. Non diciamo mai la parola con la N, però. Quello è troppo”.

Frocio ve lo dite?”, chiedo.

“No”, risponde scuotendo con decisione la testa.

“Fammi capire: non si può dire frocio nè la parola con la N, ma si può dire fighetta e puttana? Non sono parole altrettanto offensive?”.

“Uno dei miei amici una volta ha detto che non dovremmo più dire nemmeno quelle parole, ma allora con che cosa potremmo sostituirle? Non ci è venuto in mente niente di altrettanto fastidioso”.

“Punge sul vivo sentirsi dire fighetta e puttana?”

“Sì. È come se per qualche motivo funzionassero di più. Quando qualcuno mi chiama fighetta – per esempio dicendomi ‘Non fare la fighetta! Vai, cazzo! Tira! Tira! Tira!’ – è come se mi dicesse: ‘Dai, Cole, non essere debole! Sii duro! Lo stesso concetto non mi entrerebbe in testa senza quella parola. Non so perché”. Fa una pausa. “O forse lo so. Solo che non mi va di scavare troppo a fondo”.

La parola frocio è ormai quasi del tutto bandita negli ambienti più progressisti, come quello in cui si muove Cole, ma resta una costante nel linguaggio di molti dei ragazzi che ho intervistato. Molti, però, ci tengono a dirmi che non userebbero mai questa parola per riferirsi a un omosessuale vero e proprio. Frocio è sempre meno usata per commentare la sessualità di un ragazzo, spiega il professore di sociologia dell’Università dell’Oregon C. J. Pascoe, ma appare spesso come un giudizio sulla sua virilità. Questa parola può essere utilizzata in chiave di presa in giro generica, anche se forse la cosa più strana che ho scoperto – confermata da Pascoe – è che i maschi vengono etichettati come froci quando si comportano in modo romantico con una ragazza. È come se ci fosse un modo “sbagliato” di essere eterosessuali (il che spiega perché un liceale mi ha detto che, secondo lui, avere una ragazza è da “gay”). La fluidità di questa parola, l’impossibilità di giungere a una definizione vera e propria non fa che intensificarne il potere. Esattamente come, per le ragazze, la parola troia.

Di recente, Pascoe si è dedicato a studiare l’espressione no homo, diffusa soprattutto negli anni Novanta. Ha passato al setaccio più di 1.000 tweet, soprattutto di giovani uomini, che la utilizzavano: la maggior parte esprimeva un’emozione positiva, a volte innocua come “Adoro il gelato al cioccolato, #nohomo” oppure “Ho amato il film The Day After Tomorrow, #nohomo”. Molte volte dicevano a un amico cose come “Mi manchi” o “Dovremmo vederci presto”. Si tratta di normali espressioni di gioia, per ribadire un legame. Eppure, conclude Pascoe “No homo è una forma di vaccinazione contro gli insulti degli altri ragazzi. Uno scudo che permette agli uomini di essere pienamente umani”.

Il fatto che molti ragazzi si astengano dal definire frocio una persona apertamente gay non significa che gli omosessuali (o gli uomini con caratteristiche che li fanno sembrare tali) siano improvvisamente al sicuro. Anzi, i ragazzi gay che ho conosciuto mi sono parsi più consapevoli delle regole della virilità di quanto non lo fossero i loro coetanei etero. Devono esserlo per forza e questo li rende una sorta di “spie” nella casa dell’iper-mascolinità.

Mateo, 17 anni, ha frequentato la scuola nella stessa zona di Boston di Cole, anche lui con una borsa di studio, ma i due non avrebbero potuto presentarsi in modo più diverso. Con un papà originario di San Salvador, Mateo è magro e abbronzato; ha un’espressione vivace e tende ad agitare le braccia mentre parla. Mentre Cole stava seduto dritto e fermo, Mateo accavalla le gambe, dondolava il piede, appoggia il mento su una mano.

Questa è la seconda scuola privata che Mateo frequenta. È il più grande di sei figli, da sempre ritenuto portato per gli studi; in terza media un insegnante lo incoraggia a iscriversi presso una scuola per soli ragazzi. Quando arriva, Mateo scopre che i suoi compagni di classe sono quasi tutti bianchi, atletici, benestanti e, per quanto ne sa, etero. Mateo, latino e gay, figlio di un bidello, non è nulla di tutto ciò. Sviluppa subito una certa consapevolezza del modo in cui si muove, di come sta seduto e, soprattutto, del tono della propria voce. Prova ad abbassarla, ma gli sembra innaturale, così decide di astenersi del tutto dalla conversazione. Cambia anche il modo di camminare, per evitare di essere considerato “effemminato”. Mi racconta che “Il mio unico amico era gay, anche lui, ma è stato meno attento di me a non farsi scoprire. Lo hanno distrutto”.

Rischiano di veder messa in discussione la loro mascolinità anche i ragazzi che si identificano come etero ma non sono atletici, gli artisti o coloro che hanno molte amiche donne. Ciò che risulta cambiato, in questa generazione, è che alcuni giovani, in particolare se sono cresciuti con persone LGBTQ, non abboccano all’amo. “Non mi dispiace quando la gente mi scambia per gay”, dice Luke, un liceale di New York. “È più un fastidio che altro, perché voglio che la gente mi creda quando dico che sono etero”. Il modo in cui si descrive, in effetti, rientra a pieno nello stereotipo. “Sono molto magro”, dice. “Mi piace vestirmi bene. Ci tengo al mio aspetto e sono in contatto con il mio lato sensibile. La gente pensa che io sia gay?”. Scrolla le spalle. “Lo considero un complimento. Tipo: ‘Oh, ti piace come mi vesto? Grazie! ’ Non che mi importi, ma quando si applica questo atteggiamento a intere popolazioni, si finisce per avere Donald Trump come presidente”.

V e S

La conquista sessuale – o forse, più specificamente, il vantarsi delle proprie esperienze – è, probabilmente, l’aspetto più cruciale della mascolinità tossica. Lo sa bene Nate, che frequenta la scuola pubblica nella Bay Area. Mi racconta di un episodio che gli è successo al terzo anno di superiori, quando si trovava a una festa: Nate stava sprofondato nel divano, cercando di apparire tranquillo. Alcuni ragazzi bevono shottini, altri fumano erba: lui invece non beve e non si sballa. Dice di non essere moralmente contrario, semplicemente non gli piace la sensazione di perdere il controllo. A 16 anni, la reputazione significa tutto per Nate e ritiene che certe cose possono consolidare il tuo status. “L’obiettivo di andare a una festa è rimorchiare le ragazze e poi raccontarlo ai tuoi amici”, ammette. C’è una specie di “corsa all’esperienza” perché poi se si resta indietro, quando si rimorchia una ragazza rischi che “lei ci avrà già provato con, tipo, cinque ragazzi. Allora saprà come fare cose che tu non sai fare. Questo è un problema: e se poi lei racconta agli altri che “hai le labbra flosce” o che “non sai come toglierle il reggiseno”?

Allampanato, con occhi scuri e liquidi e capelli ricci che resistono a ogni tentativo di addomesticamento, Nate si colloca al centro della gerarchia sociale della sua scuola: amico sia dei ragazzi “popolari” che di quelli “inferiori”. Eppure, dalla prima superiore ha frequentato solo tre ragazze, baciandole, infilandosi sotto le loro magliette, ma nessuna ha voluto ripetere l’esperienza con lui. Questo lo preoccupa. Ammette di avere paura dell’intimità. Probabilmente sarebbe più corretto dire che ha paura di avere rapporti sessuali da ubriaco con una ragazza che non conosce o di cui non si fida. Invece per Nate è tutta una questione di credenziali. “I ragazzi devono dimostrare di essere all’altezza”, dice. E per farlo “devono essere dominanti”. Devono “spingere”. Le ragazze per lui sono solo “un mezzo per eccitarsi e vantarsi con gli amici”.

Prima dell’inizio dell’anno scolastico, sembrava che il “periodo di magra” di Nate stesse per finire. Ha avuto una relazione con una ragazza, durata ben due settimane; poi, però, gli amici gli hanno riferito che lei è una troia. Parola loro, ci tiene ad aggiungere, non sua. Sebbene qualsiasi rapporto sia meglio che non averne nessuno, Nate sostiene che si guadagnano punti solo se si fa sesso con il tipo giusto di ragazza. Mi spiega che “Se ti metti con una al di sotto del tuo status, è una ‘S’, una sconfitta. Hai fatto una mossa sbagliata”. Così Nate smette di frequentare quella ragazza, il che è un peccato. Lei gli piaceva molto. Continua a raccontarmi della festa. Dopo una breve passeggiata in cucina per osservare l’amico Kyle che, in piedi su un tavolo, cercava ubriaco di versare la Sprite da una lattina in un bicchierino, Nate ricorda di essere tornato al divano a rilassarsi. All’improvviso Nicole, studentessa dell’ultimo anno e padrona della casa in cui si tiene la festa, gli si getta in grembo, porgendogli un bicchierino di vodka. Nate rimane colpito, anche se un po’ confuso. Di solito, se una ragazza vuole rimorchiarti, ti manda un messaggino oppure usa Snapchat; allora tu dici di sì, ed è fatta: dopo tutti si aspettano racconti dettagliati degni di un’autopsia.

Nate confessa di avere pensato che Nicole fosse “piuttosto sexy”, con un corpo fantastico, ma che fino a quel momento non era mai stato particolarmente interessato a lei. È consapevole, però, che uscire con lei sarebbe stata una “V”, una vittoria bella grossa. Lancia un’occhiata alla stanza, per assicurarsi che tutti quelli che contano, tutti quelli “importanti”, vedessero ciò che stava succedendo. Un paio di ragazzi gli rivolgono dei piccoli cenni. Uno fa l’occhiolino. Un altro gli dà una pacca sulla spalla. Nate finge noncuranza. Nel frattempo, mi dice, “Stavo solo cercando di non avere un’erezione”.

Nicole prende la mano di Nate e lo conduce in una camera da letto vuota. Superano gli inevitabili momenti di sconforto, tipici di quando devi per forza parlare, e poi – finalmente – iniziano a baciarsi. In ansia, Nate morde il labbro di Nicole. Con forza. Ammette di avere pensato tutto il tempo “Oh Dio! E adesso che faccio?”. Ma comunque continua. Le toglie il top, le slaccia il reggiseno. Si toglie anche la camicia. Le sfila i pantaloni. “Quella”, mi dice, “è stata la prima volta che ho visto una vagina. E non sapevo cosa farci”. I suoi amici gli avevano detto che le ragazze impazziscono se si infilano le dita lì dentro e si fa un movimento come per dire “vieni qui”. Così ci prova, ma Nicole resta lì. Non le chiede consiglio su cosa fare, perché sarebbe stato come ammettere la propria ignoranza.

Dopo qualche altro minuto di agonia, Nicole annuncia di voler vedere cosa sta succedendo al piano di sopra e se ne va, con Nate alle calcagna. Un amico gli porge una bottiglia di Jack Daniel’s. Un altro gli dà il cinque. Un terzo dice: “Grande, ce l’hai fatta”. Nate pensa che l’incontro, forse, non è stato un totale disastro: dopo tutto poteva ancora vantarsi con gli amici. Poi sente un ragazzo dell’ultimo anno, che Nate considera una specie di amico, chiedere a gran voce a Nicole: “Perché sei andata con Nate?”. Lei ridacchia. “Oh, ero ubriaca! Davvero ubriaca”. Improvvisamente tutti quanti parlavano di lui come di una S.

Il lunedì mattina, Nicole aveva già sparso in giro la voce che Nate non era bravo a pomiciare: che le aveva morso il labbro, che non sapeva nemmeno fare un ditalino a una ragazza. Che le sue unghie erano rovinate. “Si dice che sono i ragazzi a scendere in certi dettagli cruenti”, confessa Nate, “ma è il contrario”. I ragazzi si vantano, ma non sono mai così specifici. “Le ragazze, invece, si soffermano su tutto. Raccontano a tutti com’è il tuo pene, spiattellano ogni singola cosa che hai fatto o che non hai fatto”. Nate mi racconta di essersi sentito “completamente evirato”. È così mortificato che dice a sua madre di non stare bene solo per restare a casa da scuola il giorno dopo. “Mi veniva da piangere. Pensavo: merda! Ho fatto una cazzata”.

I pettegolezzi sulle scarse “prestazioni” possono distruggere la reputazione di un giovane uomo con la stessa certezza con cui l’essere chiamata troia o suora distrugge quella di una ragazza. Di conseguenza, i ragazzi con cui ho parlato si preoccupano tutti ossessivamente di soddisfare sessualmente la propria compagna, anche se nessuno di loro mi pare interessato a sapere se lei ha raggiunto l’orgasmo oppure no. Credono più che altro che la riuscita del rapporto sessuale si misuri in base alla propria resistenza o alle dimensioni del pene. Una matricola del college di Los Angeles ricorda di un suo compagno di scuola che, nel fare sesso con una ragazza, aveva eiaculato troppo velocemente: “Ha ricevuto il soprannome di Second Sam, cosa che ha terrorizzato a morte tutti noi”. Un universitario di Boston mi confessa che è abituato a dare sempre un’occhiata all’orologio quando inizia la penetrazione: “Devo durare almeno cinque minuti e, quando ci riesco, voglio arrivare alla doppia cifra”. Aggiunge che “Non si tratta necessariamente di fare godere la mia partner, si tratta più di una questione di orgoglio. Tutto ciò trasforma il sesso in un compito e mi piace fino a un certo punto. Si controlla la propria prestazione invece che vivere il momento”.

Nate, alla fine, decide di affrontare Nicole. Anche solo per rendere sopportabile il ritorno a scuola. Le manda un messaggio, dicendo: “Mi dispiace che non ti sia piaciuto, ma io non ti sputtanerei mai così in giro. Perché lo stai facendo?”. Lei si è sentita “davvero male”, dice Nate. “Ha smesso di mettere voci in giro. Però mi ci è voluto fino al semestre successivo per riprendermi”.

Come la misoginia diventa “spassosa”

Il linguaggio brutale che anche un giovane coscienzioso come Nate usava per descrivere il contatto sessuale mi ha sempre innervosito. Quando sono con le loro amiche, i maschi adolescenti parlano di rimorchiare (più impersonale) ma se restano soli tra ragazzi preferiscono usare espressioni come me la sono sbattuta, l’ho spaccata, l’ho aperta in due. Non si capisce se stanno parlando di un atto intimo o se sono appena tornati dal cantiere.

Non è che mi fossi mai immaginata i ragazzi tutti latte e miele, impegnati a sognare di fare l’amore con le loro coetanee nel più dolce dei modi, ma comunque non mi spiegavo perché il loro linguaggio fosse così violento. La risposta, sono arrivata a credere, è che i discorsi negli spogliatoi non riguardano affatto il sesso: per questo i ragazzi si vergognavano di parlarne apertamente con me. Le storie che i maschi si raccontano (spesso esagerando e ingrandendole oltremodo) riguardano invece il potere: mostrarsi aggressivi verso le donne è un modo per stabilire un legame, per convalidarsi a vicenda come eterosessuali, per rivendicare un podio nella gerarchia sessuale adolescenziale. A liquidare questi racconti e questo lessico come “bravate”,  si rischia di negare il modo in cui un linguaggio simile desensibilizza e indebolisce la capacità dei ragazzi di considerare le coetanee come persone meritevoli di rispetto e dignità negli incontri sessuali.

Per averne la prova, basta guardare agli scandali che continuano a scoppiare nei migliori college del Paese: Harvard, Amherst, Columbia, Yale (dove è nato il famigerato coro, tanto diffuso delle confraternite nel 2010: “No significa sì; sì significa anale”). Nella primavera del 2019 in Pennsylvania, allo Swarthmore College – noto per essere politicamente progressista – due confraternite si sono sciolte in seguito alla pubblicazione da parte di alcuni studenti di oltre 100 pagine di “verbali” tratti dalle riunioni: in questi si menziona una cosiddetta “soffitta dello stupro”; si fanno battute sul masturbare la sorella di un membro della confraternita, una bambina di dieci anni; si ride del fatto di vomitare sulle donne durante il sesso.

Chiamati a rendere conto di queste affermazioni, i ragazzi sono soliti affermare che volevano solo “spassarsela” un po’ tra amici. A un primo sguardo questo “umorismo” può sembrare facilmente un’estensione della comicità volgare dell’infanzia: in fondo i bambini sono famosi per fare continuamente battute sulle scoregge, sulle caccole del naso, sulle feci. È così che sfidano i propri limiti, che capiscono il corpo umano, che si guadagnano credibilità con i coetanei. Ma, esattamente come accade con lo sport, anche questo modo di “divertirsi” tra gli adolescenti consente di camuffare il sessismo. Un ragazzo che a 10 anni chiede ai suoi amici se sanno qual è la differenza tra un bambino morto e una palla da bowling può trovare altrettanto divertente, a 16 anni, domandarsi cosa hanno in comune una donna e una palla da bowling (potete trovare la risposta su Google). Lo stesso ragazzo può postare su Snapchat “battute” sempre più pesanti sulle donne, sugli afroamericani, su omosessuali o persone disabili. Può inviare messaggi “divertenti” agli amici sulle “ragazze da stuprare” o pensare che sia “esilarante” sorprendere un amico con un meme di una donna imbavagliata da un pene e il mascara mescolato alle lacrime. A 18 anni potrebbe scarabocchiare i nomi delle ragazze con cui ha fatto sesso sul muro del dormitorio, tanto per partecipare alla gara annuale di chi ne ha scopate di più. Più o meno tutti i ragazzi gentili, brillanti ed educati che ho intervistato hanno fatto una o più tra queste cose. Come è possibile?

Ho parlato con un quindicenne della East Coast che fa parte di un gruppo di ragazzi sospesi da scuola per aver postato più di 100 “battute” razziste e sessiste riferite a vari compagni di classe sul gruppo Finsta (un account “fake”, falso, di Instagram che, però, in molti casi però è più autentico di un “Rinsta”, ossia di un account “real”, vero). “Alla fine il Finsta è diventato molto seguito”, dice mentre mi racconta questa storia. “Volevi a tutti i costi far ridere i tuoi amici, ma quando non sei faccia a faccia non puoi sapere se otterrai una reazione, quindi ti spingi sempre più in là”. E aggiunge che è stata “la combinazione di competitività e disconnessione dalla realtà a far sì che la situazione degenerasse”.

Alla fine, a chiudere il cerchio, l’aspetto più disturbante di tutti: “divertente” e “spassoso” diventano una difesa anche per rispondere alle accuse di molestie sessuali o di aggressione. Per citare solo un esempio, un ragazzo di Steubenville, Ohio, è stato ripreso in un video mentre scherzava sulle ripetute violenze subite da una ragazza priva di sensi durante una festa da parte di una coppia di giocatori di football del liceo. “È stata stuprata”, diceva ridendo. “L’hanno stuprata più velocemente di Mike Tyson”. A un certo punto nel video si sente una voce fuori campo suggerire che lo stupro non è divertente, a cui il ragazzo replica: “Infatti, non è divertente, è esilarante!”.

La scusa del “divertimento” è solo un altro modo in cui, con il pretesto del gioco o del legame di gruppo, i ragazzi imparano a non tenere conto dei sentimenti degli altri nè dei propri. Il “divertimento” offre rifugio e distanza quando qualcosa appare inappropriato, confuso, deprimente, snervante o orribile; quando qualcosa, insomma, sfida l’etica dei ragazzi. Permette loro di sovvertire una risposta compassionevole che potrebbe essere letta come non mascolina; fa sì che il sessismo e la misoginia sembrino atteggiamenti trasgressivi invece che reazionari, sostegno di uno status quo secolare. I ragazzi sono ben consapevoli delle situazioni in cui c’è qualcosa non va, sanno che comportarsi “da uomini” – o forse solo da persone per bene – vorrebbe dire denunciare queste situazioni. Ma troppo spesso temono che, se lo fanno, saranno emarginati o, peggio, diventeranno essi stessi il bersaglio della derisione degli altri ragazzi. La mascolinità, quindi, non riguarda solo ciò che i ragazzi dicono, ma anche ciò che non dicono – o non vogliono o non possono dire – anche quando vorrebbero farlo. Gli psicologi Dan Kindlon e Michael Thompson, autori di Raising Cain: Protecting the Emotional Life of Boys, hanno sottolineato che il silenzio di fronte alla crudeltà o al sessismo è il modo in cui troppi ragazzi diventano uomini. Charis Denison, educatrice sessuale della Bay Area, la mette in un altro modo: “Prima o poi, ogni giovane riceverà una lettera di ammissione alla ‘Scuola del Cazzo’. La domanda è: abbandonerà, si diplomerà o si laureerà?”.

A metà del primo anno di college militare di Cole lo ricontatto via FaceTime: sono curiosa di sapere come ha risolto il conflitto tra i suoi valori personali e quelli della cultura in cui si trovava. Esattamente come previsto, mi dice che la maggior parte dei suoi compagni di classe è di sesso maschile e mi ha conferma che molte cose fastidiose vengono spacciate per scherzi amichevoli: darsi “colpetti d’amore” sulla nuca, bloccarsi la strada a vicenda e poi fingere di litigare, toccarsi il sedere a vicenda, fingere di avvicinarsi per un bacio. Cole sostiene che dare del filo da torcere a qualcuno è “umorismo facile”, che può trasformarsi rapidamente in qualcosa di più preoccupante. Per esempio, mi racconta che c’è questo suo compagno di dormitorio che è solito scherzare con un amico dicendogli “Ti piscio addosso mentre dormi” e che, in questi casi, l’altro ragazzo gli risponde: “Se lo fai ti stupro, cazzo”. Nel bene e nel male, dice Cole, questo tipo di commenti ormai non turba più.

Quando ci siamo conosciuti Cole era categoricamente contrario alla parola frocio, mentre ora ammette di essersi trovato a usarla chiacchierando con i suoi amici. La utilizza come fanno gli altri ragazzi che frequenta, con un significato più simile a “fai schifo” o “sei uno sfigato”.  Mi confessa, però, che almeno uno dei suoi amici si è dichiarato legittimamente omofobo, sostenendo che essere gay è antiamericano (“Ma io non sapevo che la pensasse così fino a quando non siamo diventati amici”, insiste Cole). Dice di non avere incontrato nessuno studente apertamente LGBTQ+ nella sua scuola e ritiene che, se fosse stato gay, non avrebbe mai potuto uscire allo scoperto in questo ambiente. Mi racconta di due ragazzi asioamericani del suo dormitorio, bullizzati e trattati sempre come stranieri: Cole sostiene che entrambi siano molto infelici.

“Mi sento in colpa per tutte le piccole cose che lascio correre ogni giorno”, dice Cole. “Ho sempre una scusa per non combattere qualche buona battaglia. Ma hai presente quella volta che al secondo anno ci ho provato a cambiare le cose? Bè, non ha funzionato. Potrei anche diventare un guerriero della giustizia sociale, ma nessuno mi ascolterebbe. E perderei tutti gli amici”.

Il movimento #MeToo ha creato un’opportunità, un mandato non solo per discutere di violenza sessuale, ma anche per coinvolgere i giovani uomini in conversazioni autentiche e a lungo attese sul genere e sull’intimità. Non voglio dire che sia facile. All’inizio degli anni Novanta, quando ho iniziato a scrivere di come la fiducia delle ragazze diminuisca durante l’adolescenza, i genitori mi dicevano in privato che avevano paura di crescere figlie schiette, in grado di difendere se stesse e i propri diritti, perché avrebbero potuto essere escluse dai coetanei e chiamate “prepotenti” (o peggio). Sebbene ci sia ancora molto lavoro da fare, oggi le cose sono diverse per le giovani donne. È giunto il momento di ripensare anche il modo in cui cresciamo i ragazzi. Ciò richiederà nuovi modelli di mascolinità, che non siano né vergognosi né regressivi, che enfatizzino la flessibilità emotiva come segno distintivo di salute mentale.

Lo stoicismo a volte è prezioso, così come la libera espressione; la durezza e la tenerezza possono coesistere in un unico essere umano. Nel giusto contesto, l’aggressione fisica è divertente, soddisfacente, persino eccitante. A chi mi dice che tutte queste cose siano delle ovvietà belle e buone, rispondo che è pericoloso sottovalutare la forza e la durata del meccanismo culturale che agisce sui ragazzi adolescenti. Un vero cambiamento richiederà uno sforzo collettivo e prolungato da parte di padri, madri, insegnanti. Anche allenatori: uno studio su 2.000 atleti maschi delle scuole superiori ha riscontrato tassi significativamente ridotti di violenza sessuale e una maggiore probabilità di intervenire per fermare la condotta abusiva di altri ragazzi tra coloro che hanno partecipato a discussioni settimanali condotte dagli allenatori sul consenso, la responsabilità personale e il comportamento rispettoso.

Dobbiamo ampliare in modo mirato e ripetuto il repertorio maschile per affrontare la delusione, la rabbia, il desiderio. Dobbiamo dire ai ragazzi non solo ciò che non vogliamo che facciano, ma soprattutto ciò che vogliamo. Non basta insegnare loro a “rispettare le donne” e a “non mettere incinta nessuno”. Come mi ha detto una studentessa del secondo anno: “È un po’ come dire a qualcuno che sta imparando a guidare di non investire le vecchiette e poi consegnargli le chiavi della macchina. È ovvio che non ti metti al volante pensando di investire una vecchietta, ma resta il fatto che ancora non sai guidare”. Rimanendo in silenzio, abbandoniamo i ragazzi in uno stato di confusione o, peggio, li spingiamo a mettersi sulla difensiva, pronti a mostrare la loro virilità nell’unico modo che è sicuramente disponibile: facendo i coglioni.

Durante la nostra prima conversazione, Cole mi ha confidato di avere deciso di arruolarsi nell’esercito dopo avere studiato a scuola il famigerato massacro di My Lai del 1968, quando le truppe statunitensi uccisero centinaia di civili vietnamiti disarmati e stuprarono in massa le ragazze, comprese bambine di appena 10 anni. In quell’occasione mi ha detto: “Voglio trovarmi nella stessa posizione di un comandante come quello per non ordinare alla gente di fare una cosa del genere”. Questa confessione mi ha impressionato: considerando questa nobile ambizione, cosa vuoi che sia sopportare un po’ di sessismo pur di arrivare a raggiungere un simile obiettivo? Capivo bene che il costo personale di tale rinuncia poteva essere maggiore del suo impatto. Capivo anche che, dal punto di vista dello sviluppo, gli adolescenti vogliono e hanno bisogno di sentire un forte senso di appartenenza. Ma se Cole avesse continuato a sopportare quell’ambiente senza mai ribellarsi, se non avesse mai trovato il modo per affermare i suoi valori e trovare altri che li condividessero, chi sarebbe diventato?

“Sapevo che me l’avresti chiesto”, mi risponde quando gli rivolgo questa domanda. “Non lo so. In questa cultura iper-maschile si chiamano i ragazzi fighette e puttane, li si equipara alle donne o a parti del corpo delle donne per convincerli in realtà di quanto siano forti. Per andare contro questo e per convincere la gente che non abbiamo bisogno di buttare giù gli altri per sentirci meglio… non lo so, dovrei essere una specie di superuomo”. Cole resta zitto. “Forse il meglio che posso fare è essere una persona perbene. Dare l’esempio”. Fa un’altra pausa, aggrotta la fronte, aggiunge: “Spero che almeno questo faccia la differenza”.

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