Entrano dalle porte che ho forse dimenticato aperte. Alcuni infrangono i vetri delle finestre e si introducono da quelle. Urlo: «Non potete farlo!». Mi ignorano o mi concedono un sorriso derisorio. Cerco di non calpestare i cocci per guardare cosa succede fuori: stanno arrivando gli altri, attraversano il giardino, un animale galleggia a pancia in giù nella piscina gonfiabile. Sono tutti uomini dall’aspetto comune, mi pare strano che nessuno abbia una peculiarità. Hanno facce normali, corpi normali, capelli a spazzola, camicie grigie. Raggiungo il bagno per verificare che anch’io risulti normale. Lo specchio non mi rassicura, tradisce qualcosa di grottesco ma non capisco cosa, forse i seni che mi arrivano all’ombelico. Altri mi hanno parlato di dismorfia: sarà pure dismorfia, ma i seni mi arrivano all’ombelico anche metro alla mano. Intanto gli uomini si disperdono nelle stanze, sento il rumore di ante che vengono aperte e poi chiuse con forza. Nella camera da letto trovo uno che rovista tra i miei vestiti. Prende una canotta e dice: «Questa è da lavare». Nel bagno un altro apre uno sportello sopra il lavabo, sposta le creme viso e corpo come alla ricerca di psicofarmaci; gli dico: «Sono in cucina, li tengo accanto alle merendine per la colazione». Mi sento toccare la spalla, mi volto e mi viene mostrato un libro da cui è tratta una serie su Netflix: anche la libreria è stata presa d’assalto. Gli dico: «Volevo rivenderlo su Vinted ma ci avrei rimediato pochi spicci, e dire che pure gli spicci mi servirebbero». Fornisco spiegazioni a non finire, ma nessuno sembra darmi retta. Si sentono dei tuoni, ci arrestiamo e con lo sguardo perso ci mettiamo nella posa di chi ascolta. Viene il rumore della pioggia. Si è fatta ora di cena e non voglio cacciarli fuori col maltempo, quindi li invito a mangiare con me. Rimedio delle sedie dalle altre stanze e le trasferisco in cucina. Metto in padella delle cotolette precotte, non bastano per tutti ma il frigo contiene solo quelle. Nessuno di loro mangia, chi trova una sedia si siede e sta a guardarmi, circostanza che mi provoca qualche problema di deglutizione. Alcuni osservano i sacchi strabordanti di immondizia, altri aprono e chiudono i cassetti. «Vivo come mi viene», inizio a dire finita la seconda cotoletta. «Nessuno mi ha dato una valida educazione e sono cresciuta come una pianta dai rami storti e nodosi». «Che pianta?», mi chiedono in coro, le voci aggregate in un boato. Sbarro gli occhi per lo stupore. «Non conosco nessun nome di pianta». Penso alla mia infanzia disordinata e ai figli dei vicini, i bambini che mi avevano scelto come guida in quel palazzo popolare. Ricordo l’occasione in cui avevo impartito a ognuno istruzioni su cosa fare della propria esistenza, le piccole voci avevano risposto: «Ci industrieremo per seguirle!». Non avevo escogitato un piano per me stessa e questo si è rivelato un errore. Metto le cotolette avanzate in un contenitore per la conservazione degli alimenti, una lacrima mi percorre lo zigomo. «Adesso andate via per favore» e quelli con garbo se ne vanno.

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